Dall’autonomizzazione fallita alla nuova subalternità
di Salvatore Palidda
Paese sconfitto alla seconda guerra mondiale (insieme a Germania e Giappone), l’Italia fu costretta a una quasi totale sottomissione alla nuova potenza mondiale dominante lo spazio euro-mediterraneo.
Ma prima di descrivere questa svolta storica e poi gli sviluppi sino a oggi, è utile una digressione storica-geopolitica. Ricordiamo che il sea power (il potere marittimo teorizzato da Mahan[1]) impone che la potenza che vuole dominare uno spazio geopolitico deve accaparrarsi il controllo dei punti cruciali per esercitarlo. Nello spazio euro-mediterraneo l’Italia è il principale punto geostrategico in quanto la penisola e le sue isole sono situate al suo centro. Sin dai tempi di Cartagine e poi di Roma ciò era evidente, tant’è che Roma poté battere la rivale solo accaparrandosi del controllo della Sicilia per sfruttarne la posizione geostrategica, l’enorme risorsa di legname per costruire la sua flotta e quella di grano per pagare il soldo ai suoi militi.[2] E all’epoca delle repubbliche marinare -in assenza di un potere imperiale dominante- queste potevano rastrellare ricchezze enormi non solo grazie all’abilità e alla ferocia dei loro pseudo-nobilotti, noti come i più sperimentati pirati del mondo (più di quelli che la regina Elisabetta aveva integrato nella sua flotta per affermare la sua potenza che però in Mediterraneo doveva arborare la bandiera genovese per potere navigare senza problemi). Il successo di queste potenze marittime fu soprattutto grazie all’intesa ben oliata con i sultani della simile potenza marittima che era Costantinopoli. Ciò, nonostante le crociate o pseudo-guerre di religione, poiché condividevano con i genovesi, i veneziani, i pisani e gli amalfitani la stessa logica dell’accumulo di ricchezze (il business innanzitutto). Inoltre, via via si impadronirono dei punti nevralgici dello spazio mediterraneo rubando non solo le ricchezze ma anche i saperi locali e facendone schiavi i dominanti costretti a pagare somme enormi per riscattare la loro emancipazione. Ma poi queste repubbliche marinare cercavano sempre l’intesa con la potenza spagnola dominante il Mediterraneo (vedi Braudel, 2010).
Dopo Yalta, l’assetto del mondo bipolare impose che l’Italia doveva collocarsi nella sfera occidentale che passava sotto l’egemonia degli Stati Uniti. L’internazionale comunista stabilì che i partiti dei paesi occidentali si adeguassero per definire e seguire le loro specifiche “vie nazionali al socialismo”.
Nella svolta di Salerno del 1944 (Di Nolfo, 2010), Togliatti ne indicò il percorso di necessaria intesa con tutti i democratici e progressisti che avevano partecipato alla lotta di liberazione dal fascismo e dall’occupazione nazista, e innanzitutto con i cattolici poiché in Italia la Chiesa restava -oltre al padronato- uno dei più importanti dominanti (non era così in Francia, in Germania, in Inghilterra e altrove, dove le “vie nazionali al socialismo non prescrivevano questa intesa come indispensabile).
L’egemonia statunitense si impose in maniera quasi totalizzante in particolare sui servizi segreti, sulle forze armate, sulle polizie e poi con il piano Marshall su buona parte dell’economia (cfr. Tosatti, 2024). Il padronato, la chiesa, la mafia e i fascisti ne furono gratificati grazie anche all’amnistia varata da Togliatti quand’era ministro della giustizia (ciò che Franzinelli, 2016, chiama la “tabula rasa per i crimini fascisti”). E per Calamandrei nel 1946 la sconfitta della Resistenza fu desistenza (vedi anche Calamandrei, P. 2016, a cura di De Luna).
Da allora vi fu un completo reinserimento dei fascisti nell’apparato dello stato e in particolare nelle polizie, nella magistratura, nelle forze armate (cfr. Tosatti, Melis e altri[3]), reinserimento benvoluto dagli USA che già con Angleton e altri avevano reclutato agenti italiani fra i quali il celebre Federico Umberto D’Amato. Le conseguenze furono gravissime e ipotecarono il futuro politico dell’Italia di fatto sine die (cfr. infra). Infatti, allo stesso tempo, i partigiani antifascisti che erano stati nominati prefetti, capi della polizia e commissari nel 1943 furono rimossi dall’incarico. Infine, il 18 aprile 1948 il “colpo di stato bianco” consacrò il trionfo del dominio statunitense sull’Italia lasciando alla DC il ruolo di “partito-stato” (Cazzola, 1974), cioè dominus solo della gestione degli affari interni fra cui in parte l’economia. Ciò grazie alla creazione all’uopo di una nuova polizia particolarmente brutale nei confronti di ogni dissenso e rivolta (la celebre “celere” di Scelba accompagnata dalla polizia politica).
Va ricordato che l’economia italiana del dopoguerra era caratterizzata da un ampio settore privato accanto a un enorme settore pubblico e para-pubblico. Nel settore privato, la Fiat, di proprietà della famiglia Agnelli, deteneva una posizione dominante. L’azienda aveva accumulato enormi profitti attraverso la produzione militare durante entrambe le guerre mondiali e continuava a beneficiare di sussidi pubblici, proprio come i principali conglomerati industriali tedeschi. Questo sostegno continuo riceveva spesso un’approvazione tacita, e talvolta esplicita, anche da settori della sinistra politica. Il settore privato comprendeva anche compagnie petrolifere, grandi imprese edili, diverse industrie metallurgiche e una moltitudine di piccole e medie imprese. Le tre principali lobby private – automobilistica, cementiera e petrolifera – insieme alle loro controparti pubbliche e para-pubbliche in settori correlati come le acciaierie, la metalmeccanica, l’edilizia e le grandi infrastrutture, hanno plasmato la traiettoria dello sviluppo economico, sociale, culturale e politico dell’Italia (si veda, tra gli altri, Pritoni, 2017). Le scelte compiute da queste lobby portarono a una distruzione ecologica grave e duratura, con conseguente devastazione olistica degli ecosistemi minerali, vegetali e animali (vedi Pasolini, 1974, e Crimini ecologi e impunità, 2025). Questa devastazione fu resa possibile dalla complicità di fatto della sinistra (in nome del sostegno alla crescita economica e al lavoro stabile), oltre che della DC e di tutti i partiti politici, in nome della modernizzazione, del progresso, dello sviluppo, del lavoro e della promessa di benessere per tutti.
Il settore pubblico e semipubblico, a sua volta, comprendeva non solo i servizi postali e telefonici, le ferrovie, le strade e le autostrade, ma anche gran parte dell’industria siderurgica, il settore petrolchimico fondato da Mattei (AGIP ed ENI), la sanità pubblica, l’istruzione e le università, il servizio radiotelevisivo nazionale e parte della stampa. La maggior parte dei lavoratori italiani era impiegata nel pubblico e ara-pubblico. Di conseguenza, la DC esercitava un notevole potere clientelare, controllando gran parte del reclutamento del personale all’interno di queste istituzioni. Una raccomandazione da parte di un intermediario del partito era spesso essenziale, se non “miracolosa”, per assicurarsi uno di questi ambiti posti di lavoro nel settore pubblico, almeno fino agli anni Settanta e, in una certa misura, anche oggi (talvolta con il sostegno anche dei partiti di sinistra). Anche per ottenere un impiego nel settore privato era spesso necessaria una raccomandazione di questo tipo, idealmente da parte di un alto funzionario della DC o di un membro del clero. Questo sistema clientelare si estendeva al reclutamento nelle forze armate e nelle forze di polizia (il clientelismo contribuì così a creare un apparato molto ampio del controllo sociale).
Già negli ani ’50 e soprattutto negli anni ’60 emerse apertamente l’ambizione dell’autonomizzazione italiana per opera innanzitutto di Mattei e del settore pubblico oltre che di una parte della DC, del PCI, del PSI e anche dei repubblicani. Quest’ambizione si manifestò con la ostpolitik all’italiana, con lo sviluppo delle relazioni col mondo arabo (Maghreb, Egitto, Siria, Palestina, Iran ecc.) e con l’eurocentrismo. Essa voleva coesistere con le relazioni privilegiate con gli Stati Uniti che invece vi erano molto ostili sino a scatenare minacce di colpi di stato e stragi fascisti e di mafiosi (da pza Fontana sino a Bologna e ancora dopo) oltre che assassinii di personalità leader dell’autonomizzazione (da Mattei a Moro passando per Piersanti Mattarella e altri). Da parte loro alcuni politologi statunitensi, fra i quali Palombara, parlavano del tipico carattere levantino dell’Italia che pretendeva giocare con ogni sorta di alleanza. Va ricordato anche che buona parte dei dominanti italiani da sempre cercavano di essere dei power-brokers nel senso di mostrare piena subalternità rispetto alla potenza dominante nello spazio euro-mediterraneo per poter disporre dell’autonomia di gestione della società (così avevano sempre fatto i dominanti siciliani e poi anche le repubbliche marinare rispetto all’impero spagnolo).
Tuttavia, sembra più plausibile pensare che il vero nemico degli USA non era tanto il compromesso storico (DC-PCI) bensì appunto l’autonomizzazione e quindi tutti gli attori che la sostenevano (nel settore privato e in quello pubblico, in tutti i partiti e nell’apparato dello stato).
La reazione della sinistra fu la ritirata in una totale difensiva.
Un interessante articolo di Comidad è significativamente intitolato “Il vero compromesso storico non era con la DC ma con la NATO”.[4] In esso si ricostruisce quasi per intero il percorso del cosiddetto compromesso storico tracciato da Berlinguer dal 1973 in tre articoli consecutivi e complementari sulla rivista “Rinascita” a partire dal dopo golpe in Cile. Nel primo articolo Berlinguer affermava:
“Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano la sopraffazione e la iugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano”.
Berlinguer non manca allora di sottolineare la sopraffazione imperialista, con l’aggressione diretta sponda all’eversione interna.
E nel secondo articolo Berlinguer prospetta l’alternativa democratica come soluzione al problema dell’ingerenza imperialista:
“Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.”
Quindi, secondo Berlinguer, per non soccombere all’aggressione imperialista, per sostenere l’autonomizzazione -sebbene parziale- rispetto agli USA, l’area progressista avrebbe dovuto allargare il più possibile la sua base sociale e politica; da ciò il rilancio dell’intesa con i cattolici, ovvero, con la Democrazia Cristiana.
Ma tre anni dopo (giugno 1976) Berlinguer rilascia un’intervista sul “Corriere della sera”, in cui questa volta parla in prima persona (perché? Per distinguersi dall’ala ortodossa-comunista del partito? O per mostrare l’evoluzione verso una sinistra che diventerò postmoderna?):
“Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pur non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino”.
E poi ribadiva:
“Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico «anche» per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia”.
Ha quindi ragione Comidad a scrivere che il compromesso storico riguardava innanzitutto la NATO (ma con una giustificazione che questa rivista non coglie). Questa “svolta” può essere capita meglio se si prende in considerazione quella che si profila come la “terza via” che poi cercano di seguire i vari Blair e Clinton (vedi (cfr, Hale, Leggett and Martell, 2018); non a caso questi diventano i riferimenti principali dei leader dell’ex-sinistra (fra i quali Veltroni e D’Alema). Infatti, a questi leader dell’ex-sinistra, a livello europeo se ne aggiungono ben altri e si arriva anche ad avere “socialisti” a capo della NATO.
Inoltre, Berlinguer dimentica che l’art.11 della Costituzione esclude ogni postura offensiva e non si può quindi accettare che sul territorio italiano siano dispiegati missili nucleari peraltro a disposizione solamente del comando USA.
La sinistra storica non elabora alcuna postura di effettiva difesa-difensiva che esclude ogni dotazione di armi offensive.
In realtà, il dopo colpo di stato in Cile coincide con l’avvio della controrivoluzione liberista, come fusione fra “rivoluzione finanziaria, rivoluzione tecnologica, rivoluzione politica e quindi anche economica, militare e sociale oltre che culturale (Joxe, 2010; Dal Lago e Palidda, eds. 2010; Harvey, 2006; Rigouste, 2025); una controrivoluzione che fagocita gran parte della sinistra mondiale e italiana conducendola alla conversione a questo nuovo sviluppo del capitalismo assoluto (Balibar, 2024).
E con D’Alema e poi soprattutto i Violante e Minniti, l’ex-sinistra italiana diventa un miscuglio di democristiani ed ex-PCI, e, in particolare, il principale referente politico della lobby militare e delle polizie, ruolo che oggi Meloni, Crosetto e Mantovano cercano di accaparrarsi grazie anche al loro feeling con i sopra citati e anche l’inarrestabile progressione di potere dell’ex capo della polizia De Gennaro.
E’ proprio la sudditanza -e subappalto- della lobby italiana militare e delle polizie rispetto a quella statunitense che sembra decisiva nel più generale aumento dell’egemonia USA sull’Italia, palese nel comportamento della sig.ra Meloni rispetto a Trump e a Netanyahu sino a pretendere di imitarne il dispotismo totale contro ogni “laccio e lacciuolo” dello stato di diritto ancor più se ha ancora qualche barlume di democratico (vedi l’indignazione dei leader di questo governo neofascista rispetto a decisioni o prese di posizione contrarie al suo operato da parte di istituzioni europee, della Corte dei Conti e della Corte Costituzionale, oltre alla sua riforma della giustizia e dell’Università ecc.).
E’ evidente che quella di Berlinguer fu una tragica illusione: la NATO non permetteva affatto l’autonomizzazione e non avrebbe smesso di garantire la sottomissione italiana agli USA.
Ed è anche sorprendente che la sinistra italiana non ha mai chiesto di denunciare gli Stati Uniti per crimini contro l’umanità quali sono stati le stragi di stato in Italia. E oggi la questione della sovranità nazionale è quasi del tuto ignorata.







































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