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7 novembre. La Rivoluzione fu anche lotta per la sopravvivenza, come potrebbe essere oggi

di Sergio Cararo

Le visioni della Rivoluzione d’Ottobre con cui abbiamo dovuto fare i conti nei decenni trascorsi, possono essere riassunte in almeno due narrazioni fuorvianti:

1) Per la borghesia è stato né più né meno che un colpo di mano, un colpo di stato, da parte dei bolscevichi che hanno così impedito una via d’uscita liberale al crollo dell’autocrazia zarista;

2) Per un bel pezzo della “sinistra” è stata invece una rivoluzione tradita dai suoi sviluppi successivi. Una visione da cui è nata l’ipocrisia dell’antistalinismo che ha impregnato gran parte dell’elaborazione della sinistra occidentale, inclusa quella alternativa.

Contro queste due visioni è stato bene combattere nei decenni scorsi, e lo è altrettanto oggi come abbiamo cercato di fare lo scorso anno con le iniziative su “Elogio del Comunismo del Novecento“. Soprattutto se, giustamente, si intende poi riaprire o mantenere aperta la questione della “Rivoluzione in occidente”, la quale rimane la contraddizione rimasta aperta da quando la Rivoluzione d’Ottobre si trovò da sola a dover gestire la rottura rivoluzionaria nell’anello debole della catena imperialista nel 1917.

Non possiamo però nasconderci che esiste una terza attitudine, più genuina ma altrettanto fuorviante, che è quella di ridurre l’esperienza rivoluzionaria, la concezione del partito leninista e il processo di transizione al potere proletario, ad un manuale per le istruzioni.

Negli scritti di Lenin e del gruppo dirigente bolscevico ci sono analisi e intuizioni decisive e dirimenti, alcune di straordinaria attualità. Ma non possiamo trascurare il fatto che la Rivoluzione d’Ottobre è stata la prima nella storia dell’umanità che ha portato al potere la classe lavoratrice senza poter avere a disposizione altre esperienze da cui trarre lezione. L’unica ascrivibile come tale, anche se sconfitta, fu la Comune di Parigi avvenuta quasi mezzo secolo prima.

I bolscevichi, incluso Lenin e il gruppo dirigente, hanno proceduto a tentoni, con tentativi, errori, sperimentazioni, decisioni contraddittorie, sulla base dell’analisi concreta della situazione concreta con cui dovevano fare i conti.

Ritenere che la Rivoluzione d’Ottobre sia riuscita solo perché coerente con l’impianto teorico e analitico del movimento operaio del XIX e del XX Secolo, è una forzatura che nessun manuale di marxismo-leninismo può permettersi di riproporre.

In questo senso possiamo dire che la Rivoluzione d’Ottobre e l’egemonia dei bolscevichi si imposero, perché erano la soluzione più credibile dentro una gigantesca lotta per la sopravvivenza ingaggiata dalle masse popolari di un paese sterminato e diversificato come la Russia.

Tra gli elementi che dobbiamo prendere in esame, uno risulta essere decisivo: la guerra e la fine della guerra annunciata dai bolscevichi.

La guerra, nella Russia e nell’Europa tra il 1914 e il 1917, non era solo la brutalità e la ferocia dei combattimenti in trincea. Per società sostanzialmente contadine, le mobilitazioni di massa e gli arruolamenti ordinati dagli Imperi Centrali o dai loro nemici, come la Russia, erano una iattura. Esse infatti sottraevano braccia all’agricoltura che era predominante come fonte della vita e della sopravvivenza di gran parte delle società dell’epoca.

Se centinaia di migliaia di giovani uomini venivano strappati alle campagne perché costretti a farsi soldati, la situazione nelle campagne degenerava. Non solo. In una condizione materiale di vita strettamente legata all’agricoltura e dunque al clima, le carestie erano all’ordine del giorno. Bastava un inverno più rigido o un estate più secca, per vanificare i raccolti e ridurre alla fame milioni di persone senza altre possibilità di sostentamento.

Il corto circuito tra carestie e svuotamento delle campagne a causa della coscrizione obbligatoria di massa, producevano fame e miseria in misura spesso devastante. E poi c’era la guerra vera e propria.

La Prima Guerra Mondiale, la “grande carneficina”, è stata una guerra combattuta con schemi dell’Ottocento (gli assalti di massa) ma con armi moderne (mitragliatrici, aviazioni, cannoni a retrocarica, mine, gas venefici etc). Il massacro di milioni di giovani uomini nelle trincee in Europa, diede alla guerra quella dimensione di massa e di insopportabilità che scatenò il fenomeno delle diserzioni, del rifiuto a combattere, dell’odio diffuso verso ufficiali, nobili, ricchi che mandavano al macello sostanzialmente contadini e operai in divisa reclutati in tutta la Russia, anche nelle regioni asiatiche.

La Rivoluzione di febbraio e il governo Kerenski, non compresero affatto questa esigenza di sopravvivenza della popolazione contadina e dei soldati, scegliendo invece di proseguire la guerra iniziata dallo zarismo, e ne furono travolti.

Al contrario i Bolscevichi compresero al meglio che le parole d’ordine di “pace e pane” (non si parlava ancora della terra né della socializzazione dei mezzi di produzione), erano maggiormente in sintonia con le esigenze di sopravvivenza delle sterminate masse proletarie russe e creavano le condizioni migliori per far evolvere la lotta per la sopravvivenza in lotta per l’emancipazione sociale.

Sta in questo la genialità delle intuizioni rivoluzionarie dei Bolscevichi e di Lenin e le forzature che portarono a scegliere “quel momento” (ieri è troppo presto, domani troppo tardi) per dare avvio al processo rivoluzionario. Le scelte che operarono non erano definite in alcun manuale né erano state sperimentate altrove.

Il progetto e il processo rivoluzionario dell’Ottobre fu la capacità di un partito sostanzialmente di quadri di intervenire dentro le contraddizioni esistenti e di volgerle in rottura della realtà esistente: prima quella dell’autocrazia zarista che aveva esaurito il suo dominio sul popolo e poi quelle tra le aspettative di sopravvivenza delle masse popolari e la continuità del massacro/miseria incarnato dal governo “borghese” di Kerenski.

La rivoluzione democratica, per i settori sociali che l’avevano egemonizzata, non aveva nelle corde la capacità di andare oltre il parlamentarismo e di guardare nel profondo la pancia vuota e la voglia di sopravvivere di contadini, operai e soldati. I Bolscevichi si, perché erano parte di quel proletariato, avevano scelto soggettivamente di esserlo.

Celebrare a distanza di decenni la Rivoluzione d’Ottobre, significa cercare di guardarne a tutto campo le conseguenze, le lezioni da trarne e l’attualità. E qui si apre una riflessione.

Nel primo lustro di questo XXI Secolo si stanno manifestando le medesime esigenze di lotta per la sopravvivenza che possono trasformarsi in emancipazione sociale?

Guardando con gli occhi della storia la situazione dell’oggi, questa somiglia moltissimo a quella della fine della prima globalizzazione (1870-1914).

La globalizzazione capitalista si era realizzata, allora come oggi, in tutto il mondo attraverso la rete dei domini coloniali. E’ sufficiente rammentare che non solo gli imperi come Gran Bretagna, Francia, Germania, ma anche piccoli paesi come il Belgio disponevano di colonie immense come il Congo o l’Italietta che aveva i suoi domini coloniali nel Corno d’Africa e in Libia. Eppure la “Belle Epoque” finì drammaticamente nel 1914, con le maggiori potenze capitaliste e imperialiste impegnate a scannarsi prima nelle colonie e poi nelle trincee in Europa. 

Negli ultimi anni la guerra in Europa e la guerra mondiale a pezzi, la recessione economica, la insopportabile crescita delle disuguaglianze sociali, l’infarto ecologico del pianeta e la regressione sociale complessiva, stanno caratterizzando la fase storica in cui ci è toccato di vivere. Fino a metterci davanti agli occhi un genocidio: quello del popolo palestinese.

In passato quando queste condizioni si sono intersecate con lo sviluppo disuguale dei poli imperialisti in competizione, con l’instabilità e la politica dei fatti compiuti, hanno prodotto guerre distruttive, disastrose e “rigenerative” per il sistema capitalista, vedendo prevalere un polo imperialista sugli altri e declinare quelli che prevalevano precedentemente. Nell’epoca delle armi nucleari questa exit strategy dalla crisi potrebbe non essere più praticabile.

Ma se la lotta di classe diventa lotta per la sopravvivenza, come, dove e quando cominciamo a cercare il punto di rottura? “Pane e pace” oggi sembrano slogan efficaci per un secolo fa, ma innescarono una rivoluzione vittoriosa: quella dell’Ottobre 1917. Più di cento anni dopo vale la pena di rimettere in campo di nuovo una alternativa di sistema e misurarsi con l’urgenza della soggettività capace di coglierne sia la spinta che l’esperienza storica.

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