Davos, BlackRock e il cerino della democrazia
Quando il potere non si presenta alle elezioni
di Giuseppe Gagliano
C’è chi parla di “nomina tecnica”, chi di “fase di transizione”, chi si affanna a precisare che no, BlackRock non ha preso formalmente il controllo del World Economic Forum. Tutto vero. Ma irrilevante. Perché il punto non è il titolo sulla porta, bensì chi tiene le chiavi. E oggi una di quelle chiavi è finita nelle mani di Larry Fink, capo del più grande gestore di capitali del pianeta, chiamato a co-presiedere il tempio di Davos proprio mentre il sistema globale scricchiola.
Dicono che non sia una presa di potere. Sarà. Ma quando il signore di dieci e passa trilioni di dollari di asset diventa il garante della “governance globale”, forse una domanda bisognerebbe farsela. Anche solo per sport.
Il World Economic Forum è sempre stato questo: un luogo dove il potere si dà del tu, lontano da urne, parlamenti e fastidiose opinioni pubbliche. Ma finché restava un salotto, una fiera delle buone intenzioni, si poteva liquidarlo come folklore d’élite. Oggi no. Oggi Davos è il posto dove si prova a supplire al fallimento della politica. E chi meglio di BlackRock, che governa capitali più grandi di molti Stati, può farlo?
BlackRock non legifera, certo. Ma decide cosa è finanziabile e cosa no. E nel mondo reale, quello dove le fabbriche chiudono e le transizioni si pagano, questo equivale a decidere cosa esiste e cosa muore. Se non investi, non cresci. Se non cresci, scompari. Altro che sovranità.
La favola racconta che è tutto per il bene comune: sostenibilità, clima, responsabilità sociale. Peccato che a stabilire cosa è “responsabile” sia sempre lo stesso club. Un club che non risponde a elettori, ma ad azionisti. E che quando sbaglia non viene sfiduciato, ma al massimo cambia consulente.
Sul piano geopolitico il messaggio è chiarissimo. Mentre Cina e Russia rafforzano il controllo statale sull’economia, l’Occidente sceglie un’altra strada: privatizzare la stabilità. Delegare al capitale il compito di tenere insieme un sistema che la politica non sa più governare. Non è liberalismo, è resa. Una resa elegante, in giacca scura e cravatta ESG.
Il problema non è Larry Fink. È il vuoto che lo rende indispensabile. Stati indeboliti, istituzioni multilaterali paralizzate, democrazie che non decidono più ma ratificano. In questo spazio entra la finanza, che non fa prigionieri ma nemmeno promesse. E soprattutto non chiede permesso.
Poi ci stupiamo se fuori dall’Occidente Davos viene visto come il volto sorridente di un ordine economico imposto dall’alto. Ci stupiamo se cresce la diffidenza, se il Sud globale parla di ipocrisia, se la parola “governance” suona come un sinonimo elegante di comando.
La verità è che nessuno ha eletto BlackRock, ma tutti ne subiscono le scelte. Nessuno ha votato il World Economic Forum, ma molte politiche pubbliche sembrano scritte con il suo vocabolario. E quando il potere diventa così grande da non avere bisogno di legittimazione, allora sì che il problema non è più complottista. È democratico.
Davos non ha bisogno di prendere formalmente il potere. Gli basta che nessun altro lo eserciti davvero.








































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