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Chi gioca alla guerra su Taiwan

di Michelangelo Cocco*

Una doverosa premessa. Quella dei taiwanesi di preservare l’indipendenza del proprio governo e la loro democrazia è un’aspirazione ammirevole. Tuttavia Pechino avanza rivendicazioni storiche su un territorio il cui status è indefinito secondo il diritto internazionale.

La contraddizione tra aspirazioni taiwanesi e rivendicazioni cinesi era stata risolta lasciandola irrisolta, con Pechino fautrice nei rapporti con Taipei del cosiddetto “consenso del 1992”, raggiunto tra rappresentanti cinesi e taiwanesi e, in quelli bilaterali, del principio “una Cina”, al riconoscimento del quale ha subordinato l’instaurazione delle relazioni diplomatiche con il resto del mondo.

Sia il “consenso del 1992” che “una Cina” (mai accettati dal Partito progressista democratico che governa Taiwan dal 2016), nella sostanza, riconoscono che esiste una sola Cina (seppur con opposte interpretazioni, a Pechino e Taipei, su chi ne sia il legittimo rappresentante).

I principali attori coinvolti avrebbero dovuto preservare questa ambiguità politica, invece il prepotente riemergere dei nazionalismi ha fatto sì che si sia intrapresa la strada opposta, quella di un pericoloso tira e molla sull’isola, trasformata in un terreno di scontro di interessi contrapposti. Alcuni in particolare hanno preso letteralmente a “picconare” in maniera irresponsabile quel prezioso compromesso.

Quelli del Partito progressista democratico (Dpp) di William Lai e del Partito liberal democratico (Ldp) di Sanae Takaichi sono due governi che hanno molto in comune: entrambi esecutivi di minoranza, stanno fomentando la paura della Cina per provare a rafforzarsi e hanno sposato senza riserve le politiche degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale per contrastare quello che percepiscono come un minaccioso vicino, la Cina di Xi Jinping, che ha reso la “riunificazione” di Taiwan parte della sua strategia di “grandioso risveglio della nazione cinese”.

Da quando, il 21 ottobre scorso, la leader ultra-nazionalista è diventata la prima donna premier del Giappone, la strategica “prima catena di isole” (Taiwan, Giappone, Filippine) è interamente guidata da governi ostili a Pechino.

E quello nipponico si è presentato alla Cina con la dichiarazione in parlamento di Takaichi del 7 novembre scorso, secondo cui, nell’eventualità di uno scontro tra la Repubblica popolare cinese e Taiwan, «se ciò comporta l’impiego di navi da guerra e azioni militari, potrebbe a tutti gli effetti trasformarsi in una situazione minacciosa per la sua sopravvivenza, in cui il Giappone potrebbe ricorrere all’uso della forza per difendersi».

Pechino ha messo in campo una reazione a 360 gradi: convocazione dell’ambasciatore giapponese a cui ha presentato proteste, boicottaggio economico (turismo cinese in Giappone e pescato nipponico in Cina soprattutto) e una massiccia campagna di propaganda anti-giapponese in Cina.

Martedì scorso il governo di Tokyo ha adottato una risposta scritta a un’interrogazione parlamentare sulle osservazioni di Takaichi, sottolineando che esse «non cambiano la posizione coerente del governo».

Ma a Pechino questa parziale marcia indietro sembra non bastare: «è ben lontana dall’essere sufficiente», ha affermato il giorno successivo Mao Ning. Secondo la portavoce del ministero degli esteri cinese, «ciò che la Cina e la comunità internazionale vogliono chiarito è: qual è esattamente la cosiddetta posizione coerente del Giappone? Il Giappone aderisce ancora al principio di una sola Cina?».

La verità è che Takaichi ha fatto cadere un tabù e – nonostante il comunicato del suo esecutivo – non ha fatto dietrofront. La premier nipponica non riconosce Taiwan e la Cina continentale come un’unica entità e si è detta pronta a far intervenire il suo paese a difesa dell’isola. E lo scontro diplomatico che ha così scatenato con Pechino le sta giovando politicamente: in crescita nei sondaggi, secondo i media locali sarebbe tentata di sciogliere il parlamento per consolidare il proprio potere cercando di ottenere una maggioranza parlamentare con nuove elezioni.

La linea su Taiwan del governo giapponese si può intuire non solo dall’esternazione di Takaichi, ma anche, più concretamente, dai movimenti delle Forze di auto-difesa del Giappone (alleato che ospita 60.000 militari Usa).

Durante un’ispezione a Yonaguni, sabato scorso il ministro della difesa, Shinjiro Koizumi, ha annunciato che nell’isola giapponese a 110 chilometri da Taiwan saranno presto installate batterie di missili a medio raggio. Una mossa che, secondo Mao, «unita alle osservazioni errate della premier Sanae Takaichi su Taiwan, è estremamente pericolosa e dovrebbe destare seria preoccupazione tra i paesi vicini e la comunità internazionale.»

Da Yonaguni è possibile colpire facilmente le navi della marina militare dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) che, dalla visita a Taipei dell’ex speaker della Camera, Nancy Pelosi (2 agosto 2022), hanno aumentato frequenza e complessità delle esercitazioni per circondare Taiwan in vista di un possibile blocco navale o di un’invasione.

E attorno a Yonaguni è ruotato, nell’aprile scorso, un war game Giappone-Stati Uniti che ha simulato lo scenario di un attacco cinese alle basi Usa di Sasebo (Nagasaki) e Iwakuni (Yamaguchi) e uno sbarco dell’Epl proprio a Yonaguni.

Tokyo non ha classificato l’ipotetica offensiva cinese non come “attacco diretto al Giappone”, che consentirebbe di esercitare il diritto all’autodifesa secondo la costituzione pacifista del dopoguerra (che impone tuttora rigidi limiti all’impiego delle forze armate), ma come una “situazione minacciosa per la sopravvivenza”, nella quale le Forze di Autodifesa del Giappone (SDF) sono autorizzate a usare la forza in virtù del diritto alla difesa collettiva.

Il concetto di “situazione minacciosa per la sopravvivenza” del Giappone – previsto dal diritto internazionale e che consente ad altri stati di intervenire in aiuto di uno stato attaccato – è lo stesso utilizzato da Takaichi a proposito della sua controversa uscita su Taiwan in parlamento.

A Taiwan intanto, martedì scorso, Il premier Cho Jung-tai ha osservato che «dobbiamo sottolineare ancora una volta che la Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan) è un Paese pienamente sovrano e indipendente». Pertanto, ha aggiunto Cho, «per i 23 milioni di abitanti della nostra nazione, la “riunificazione” non è un’opzione, questo è molto chiaro».

Il giorno successivo il presidente, William Lai Ching-te, ha fatto una “gaffe” in conferenza stampa, dichiarando che Pechino sta perseguendo l’obiettivo di «completare l’unificazione con Taiwan con la forza entro il 2027», un’affermazione senza alcun fondamento corretta in seguito sui suoi canali ufficiali per chiarire che si tratterebbe della preparazione a tale opzione e non di un attacco programmato entro il 2027.

Karen Kuo, portavoce dell’ufficio di Lai, ha dovuto chiarire che il 2027 non rappresenta una «data confermata di invasione», bensì di una previsione citata in valutazioni del Congresso e di think tank statunitensi.

La conferenza stampa in questione era quella in cui Lai ha presentato il budget per la difesa più massiccio della storia di Taiwan, 40 miliardi di dollari, anticipato con un editoriale sul Washington Post nel quale il presidente ha spiegato che la sua politica è ispirata alla reaganiana “Peace through strength”.

Le minacce della Cina a Taiwan e alla regione dell’Indo-Pacifico stanno aumentando. Di recente si sono verificate varie forme di intrusioni militari, oltre a campagne marittime nella gray zone e di disinformazione in Giappone, nelle Filippine e nello Stretto di Taiwan, causando profonda inquietudine e disagio a tutte le parti della regione. Taiwan, come parte più importante e cruciale della prima catena di isole, deve dimostrare la propria determinazione e assumersi una maggiore responsabilità nell’autodifesa. La sovranità nazionale e i valori fondamentali di libertà e democrazia sono le basi stesse della nostra nazione.

Lai ha annunciato un bilancio speciale per la difesa di 1.250 miliardi di dollari taiwanesi (39,9 miliardi di dollari statunitensi), che include finanziamenti per un sistema di difesa aerea “Taiwan dome” con capacità avanzate di rilevamento e intercettazione.

I fondi saranno distribuiti nell’arco di otto anni, a partire dal prossimo anno fino al 2033.

In precedenza, Lai aveva promesso di aumentare la spesa per la difesa fino al 5 per cento del Pil, rispondendo alla necessità degli Stati Uniti di scaricare in parte il peso della difesa dell’isola sull’isola stessa e proprio come il Giappone, chem quest’anno, con due anni di anticipo, raggiungerà la soglia del 2 per cento, per puntare oltre.

Mentre gli Stati Uniti, il 30 ottobre scorso, hanno siglato con la Cina una tregua commerciale di un anno, iniziando un’evidente distensione nelle relazioni bilaterali, su Taiwan si è riaccesa la tensione per le mosse di Tokyo e Taipei, due tra i loro più importanti alleati nel Pacifico occidentale.

Si tratta, ovviamente di mosse (come quella dell’installazione di missili a Yonaguni, che non possono essere state fatte all’insaputa di Washington.

Trump se l’è cavata con la doppia telefonata, lunedì a Xi e il giorno successivo a Takaichi, con la quale ha ufficialmente provato a gettare acqua sul fuoco dello scontro sino-nipponico.

A Xi Trump ha assicurato che «gli Usa comprendono quanto la questione di Taiwan sia importante per la Cina». Mentre a Takaichi, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, ha consigliato di abbassare i toni.

A Taiwan c’è un grande dibattito (ne abbiamo parlato nel podcast Taiwan alla prova di Trump) sulla politica di Trump, che le ha tolto lo “scudo di silicio” e che sostiene meno il Dpp rispetto alla precedente amministrazione.

Anche se è probabile – ma bisogna aspettare per tirare le somme – che Trump non sostenga Taiwan come il suo predecessore, seguendo una linea che punta anzitutto agli affari, non ideologica, è tuttavia chiaro che la strategia degli Stati Uniti è comunque quella di un contenimento della Cina.

E le mosse sul terreno, a partire dai preparativi militari di tutte le parti coinvolte, dicono che il pericolo di un conflitto su Taiwan non è affatto scongiurato.


* da Rassegna Cina
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