Eugenetica e colonialismo. Nel cuore del dominio occidentale
di Stefano Dumontet
La terribile situazione che stanno vivendo i gazawiti, da ormai quasi tre anni, è stata presentata dalla maggioranza dei media occidentali come la lotta di una democrazia (incarnata da Israele) per la sua sopravvivenza. Una lotta contro terroristi sanguinari di oggi e potenziali terroristi di domani (i bambini) oltre che contro le donne, fattrici di terroristi non ancora nati.
L’unico, controverso, riferimento storico che si evoca è quello relativo alla lucida ferocia del terzo Reich, orientata contro gli ebrei. Gli israeliani, cittadini di uno stato confessionale ebraico, adopererebbero oggi mezzi e finalità analoghe a quelle utilizzate dai nazisti per portare avanti un programma di pulizia etnica attraverso un genocidio. In realtà, limitare il fenomeno dello sterminio dei palestinesi sulla contrapposizione genocidio sì / genocidio no, serve solo a distogliere l’attenzione dalla vera motivazione di tanta barbarie e della sua fanatica accettazione da parte delle élite occidentali.
Quello nazista fu un micidiale programma di pulizia etnica, sostenuto da una pseudoscienza, largamente condivisa nell’intero occidente, quella della “purezza della razza” o “eugenetica”. È bene ricordare che le teorie eugenetiche nacquero, almeno nella loro forma “scientificamente definita”, in Inghilterra in seguito al lavoro di Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Alla Galton Society afferì, nel tempo, il fior fiore della società britannica rappresentato da aristocratici, prelati, premi Nobel, famosi scienziati, celebri intellettuali e ricchi imprenditori. Solo per fare alcuni nomi, particolarmente noti, tra i tanti che condivisero negli anni le idee eugenetiche di Galton, citiamo il celebre economista John Maynard Keynes, James Meade (premio Nobel per l’Economia nel 1977), Peter Medaware (premio Nobel per l’Immunologia nel 1987) ed il famosissimo statistico Charles Spearman (tra i padri dei test per la misura dell’intelligenza e dell’analisi fattoriale). Anche Winston Churchill era un estimatore delle teorie eugenetiche, insieme al commediografo George Bernard Shaw.
La Società Svedese per l’Igiene Razziale, fondata a Stoccolma nel 1906, mise le basi per la fondazione, nel 1922, di uno dei più influenti istituti europei per l’igiene razziale (Istituto Svedese di Biologia Razziale). Negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale, Alva e Gunnar Myrdal divennero i teorici del “nuovo umanesimo” definito dalle teorie eugenetiche. Gunnar fu poi insignito del premio Nobel per l’Economia nel 1974, mentre la moglie ottenne quello della Pace nel 1982, per il suo impegno a favore del disarmo. I Myrdal pensavano che “consentire a dei genitori non adatti di riprodursi è un argomento indifendibile, da qualsiasi punto di vista”. Furono loro a coniare il termine materiale umano, che ebbe una particolare fortuna nel lessico nazionalsocialista tedesco del Lebensborn (programma nazista di “arianizzazione”). Analoga fortuna ebbe tra i nazisti l’espressione soluzione finale, anche questa lungi dall’essere una prerogativa del terzo Reich. Cambell Scott, vice soprintendente del Dipartimento per gli Affari Indiani del Canada dal 1913 to 1932, in una sua lettera del 1910 indirizzata all’agente indiano della Columbia Britannica scrive:
“È ben risaputo che i bambini indiani, frequentando queste scuole, perdono le loro doti naturali di resistenza alle malattie e, di conseguenza, muoiono in numero maggiore che nei loro villaggi. Ma ciò è in linea con la politica di questo Dipartimento, finalizzata alla soluzione finale del problema indiano.”
Duncan Campbell Scott fu nominato “national historic person” nel 1948. Appare dunque evidente che lo sterminio sistematico di oppositori politici, malati mentali, comunisti, socialisti, sindacalisti, rom, omosessuali, minoranze etniche e, dopo il 1940, degli ebrei, perde molto della sua originalità, anche nell’uso dei termini associati al genocidio plurimo portato avanti dai nazisti.
Come in un gioco di specchi, nell’America degli anni ’20, i difensori dell’eugenetica cercarono di sostenere il miglioramento di una razza nordica superiore a spese di razze inferiori come i nativi americani, i messicani, gli italiani e i portatori di handicap. La loro strategia prevedeva la sterilizzazione obbligatoria, restrizioni nella possibilità di sposarsi e confinamento in speciali colonie per tutti quelli dichiarati non adatti.
La campagna eugenetica americana non si fermò ai confini di quel paese, ma fu esportata in tutto il mondo, inclusa la Germania nazista dove divenne la base per le teorie sulla supremazia della razza ariana e la copertura “scientifica” del genocidio. I nazisti adottarono in pieno e senza restrizioni i principi eugenetici americani, che furono appoggiati apertamente da scienziati e istituzioni americane sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Hitler stesso definì “la mia Bibbia” il saggio The Passing of the Great Race (1916) dell’eugenista statunitense Madison Grant. Membri dell’élite sociale statunitense, presidenti di banche, rettori di Università, illustri scienziati, filantropici finanziatori della ricerca scientifica hanno desiderato, dai principi del ‘900 sino agli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, che tutti i membri “inaccettabili” della società venissero eliminati. Negli anni che precedettero la guerra e oltre, la Fondazione Rockfeller finanziò la creazione di una nuova specializzazione medica chiamata Psychiatric Genetics e finanziò i “Kaiser Wilhelm Institutes” tedeschi (oggi Max Planck Institute) per la Psichiatria e per l’Antropologia, l’Eugenetica e l’Eredità Umana.
Ancora oggi, Hilary Clinton spende parole estremamente elogiative nei confronti di Margaret Sanger, americana e membro, dal 1937 al 1957, dell’Eugenic Society fondata da Galton e dell’American Eugenic Society. La Sanger fondò nel 1942 la Planned Parenthood of America ed espresse idee razziste e fortemente eugenetiche nelle sue pubblicazioni e fu guidata da queste idee nelle sue attività.
La propaganda occidentale fa di tutto per nascondere il motivo profondo dell’accanimento contro il popolo palestinese in larghissima parte indifeso e, quando armato, in condizioni di evidente inferiorità rispetto a un esercito perfettamente equipaggiato con le armi più moderne e senza preoccupazioni di rifornimenti militari, forniti dagli USA e dai suoi alleati occidentali, Italia compresa.
L’intenzione del fanatico blocco di potere, schierato a difesa di Israele e dei suoi obiettivi, rappresentato dal cosiddetto occidente collettivo, ha una precisa definizione: si chiama colonialismo. È intorno alla bandiera del colonialismo che le potenze occidentali si riconoscono e si raccolgono. È lo spirito mai sopito del colonialismo che fa da collante a tutti i sostenitori di Israele. Lo stesso colonialismo che ha provocato, dal 1796 al 1900 circa 27 milioni di morti nella regione indiana del Bengala durante l’occupazione coloniale inglese, 10 milioni di morti dal 1885 al 1908 nel Congo controllato dal civilissimo Belgio. Dal 1943 al 1944 un’ennesima carestia colpì di nuovo il Bengala provocando tra 2 e 3 milioni di morti. Winston Churchill fu tutt’altro che estraneo a questa tragedia, lo stesso Churchill che, per sua diretta ammissione, non vedeva nulla di sbagliato nell’appropriazione di terre appartenenti a un popolo più primitivo da parte di un popolo più evoluto, che avrebbe potuto sfruttarle meglio. Circa 12 milioni di morti furono causati delle guerre “post-coloniali” sostenute dalle potenze occidentali in Africa dal 1962 al 2005. Almeno sette leader africani sono stati assassinati dal 1961 al 2011, direttamene o attraverso operazioni sotto copertura, dalle potenze occidentali. Patrice Lumumba (primo ministro della Repubblica Democratica del Congo, ucciso nel 1961), Sylvanus Olympio (primo Presidente del Togo, ucciso nel 1963), Amilcar Cabral (leader rivoluzionario, Guinea Bissau, ucciso nel 1973), Murtala Mohammed (Presidente della Nigeria, ucciso nel 1976), Thomas Sankara (Presidente del Burkina Faso, ucciso nel 1987), Laurent-Désiré Kabila (presidente della Repubblica Democratica del Congo, ucciso nel 2001), Muammar Gheddafi (Presidente della Libia, ucciso nel 2011). Tutti questi leader, benché con ideologie differenti e in contesti differenti, erano accumunati dal loro rifiuto del colonialismo e dello sfruttamento dei loro paesi da parte di potenze straniere. L’occidente collettivo si è anche distinto nell’appoggio incondizionato a sanguinari dittatori come Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bédel Bokassa nella Repubblica Centroafricana, Mobutu Sese Seko nello Zaire e Macias Nguema nella Guinea Equatoriale.
Per rimanere sul continente africano, sono innumerevoli le guerre tra stati e le guerre civili fomentate dalle potenze occidentali nel loro tentativo di controllo post-coloniale, a cui si devono aggiungere i colpi di stato mirati a mettere fuori gioco i leader progressisti. Milioni di morti dimenticati causati da guerre dimenticate. Tanto per citarne solo alcune ricordiamo le guerre civili in Algeria (1992-2002I, in Libano (1975-1990), in Sudan (in varie fasi dal 1955ad oggi), in Biafra (1966-1970), in Etiopia (1974-1991), in Mozambico (1975-1992), in Angola (1975-1994), Uganda (1979-1986), Ruanda (1994), in Congo (1997-2003) che da sola ha causato, direttamente e indirettamente, 5,4 milioni di morti, in Siria (2011 – non ancora conclusa), Libia (2012 – non ancora conclusa), la guerra Iraq-Iran (1980-1988) e la cosiddetta “Guerra del Golfo” contro l’Iraq (1990-2003) scatenata dagli USA. A questo proposito è opportuno ricordare una notissima intervista a Madeleine Albright, allora segretario di stato USA, a proposito delle morti dovute all’embargo strettissimo a cui fu sottoposto l’Iraq. Alla considerazione dell’intervistatrice, che osservava come a causa dell’embargo morirono più bambini di quanti ne fossero periti nei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, l’Albright candidamente affermò che ne era valsa la pena. Come ebbe a scrivere Conrad nel suo celebre romanzo Cuore di tenebra: “La conquista della terra, che fondamentalmente significa prenderla a coloro che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la guardi troppo da vicino”.
Ciò che sta avvenendo a Gaza è dunque il pieno dispiegamento della prepotenza coloniale in tutta la sua brutale efficacia. La pulizia etnica è l’ideologia soggiacente agli interessi coloniali, che considerano untermensch, secondo il vocabolario nazista, tutti coloro che si oppongono ai loro progetti di dominio, in piena continuità con teorie eugenetiche mai abbandonate.
Vi sono inquietanti assonanze fra la vicenda palestinese e gli eventi, in gran parte dimenticati, che videro protagonista il movimento del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino, attivo tra il 1954 e il 1962, anno della liberazione dell’Algeria dal dominio francese. La storia della lotta algerina per l’indipendenza è molto simile a quella a cui stiamo assistendo nella Striscia di Gaza e i metodi repressivi delle potenze coloniali sono sempre caratterizzati dalla stessa brutalità.
Gli antecedenti della nascita della lotta di liberazione possono essere individuati negli eventi sanguinosi avvenuti, nel 1945, nelle città di Setif e Guelma, quando nei giorni seguenti ai moti del 5 maggio, in cui gli indipendentisti chiedevano la fine dell’occupazione francese e sventolavano bandiere con la mezzaluna rossa su sfondo bianco e verde. Migliaia di algerini furono uccisi dalla polizia, dai soldati e dai coloni armati francesi. Il numero di vittime non è mai stato accertato con precisione. I servizi di informazione inglesi stimarono in circa 6.000 le vittime e in circa 14.000 i feriti. Oggi le stime sono state corrette, alcuni storici francesi ritengono che le vittime furono 20.000, mentre il governo algerino le stima in 45.000.
Il 1° novembre 1954, i guerriglieri dell’FLN effettuarono attacchi organizzati in diverse parti dell’Algeria contro installazioni militari, posti di polizia, magazzini e strutture di comunicazione. Dal Cairo, il FLN invitò alla radio il popolo algerino e gli attivisti della causa nazionale a sollevarsi per “la restaurazione dello Stato algerino, sovrano, democratico e sociale, nel rispetto dei principi dell’Islam e del rispetto di tutte le libertà fondamentali, senza distinzioni di razza e religione”.
Le forze armate francesi iniziarono una guerra senza quartiere applicando spietatamente il principio della responsabilità collettiva ai villaggi sospettati di ospitare, rifornire o collaborare in qualsiasi modo con la guerriglia. Numerosi villaggi furono sottoposti a bombardamenti aerei, anche con bombe al fosforo, e furono distrutti campi e frutteti per privare i contadini di ogni mezzo di sussistenza. I francesi concentrarono gran parte della popolazione rurale, a volte interi villaggi, in campi speciali sotto sorveglianza militare per impedire la collaborazione con i ribelli o – secondo le dichiarazioni ufficiali – per proteggerli dalla violenza del Fronte di Liberazione Nazionale. Oltre due milioni di algerini furono sradicati dai loro luoghi di origine.
La “Battaglia di Algeri” scoppiò il 30 settembre 1956, quando tre donne piazzarono bombe in tre diversi luoghi frequentati da civili francesi, uccidendo tre persone e ferendone cinquanta. La risposta francese fu violenta e brutale. Agli attacchi terroristici contro civili algerini perpetrati da gruppi di coloni francesi, assistiti dalla polizia, fece fatto seguito il dispiegamento di un corpo d’élite di 5.000 paracadutisti, che agirono al di fuori di ogni regola, uccidendo, torturando e violentando. Si stima che per l’uso della tortura da parte delle forze francesi, dei 24.000 algerini arrestati durante la battaglia, ne morirono circa 3.000.
Oltre alle innumerevoli tipologie di tortura utilizzate, gli stupri delle donne algerine furono veri e propri strumenti di una strategia di guerra repressiva e brutale. Sempre negato dalle autorità militari, lo stupro è stato uno strumento di punizione e di terrore utilizzato dalle truppe francesi contro la popolazione femminile algerina. Il picco si è verificato tra il 1959 e il 1960, soprattutto nelle zone rurali. Le truppe francesi commisero anche un’altra infamia, quella di utilizzare alcune donne rinchiuse nei campi di detenzione come schiave sessuali per soldati e ufficiali.
Il 17 ottobre 1961, l’FLN organizzò una manifestazione pacifica a Parigi, alla quale parteciparono circa 30.000 algerini. La polizia francese disperse la manifestazione sparando sulla folla. 14.000 persone furono arrestate e 200 uccise, molte delle quali furono gettate nella Senna. Il governo francese ha riconosciuto solo 32 vittime.
L’Algeria ottenne l’indipendenza nel 1962. Il prezzo della guerra fu enorme. Su una popolazione di 10 milioni di abitanti, si stima furono uccisi tra 300.000 e 1.000.000 di civili algerini (1.500.000 secondo il governo algerino) e circa 3.000.000 furono internati nei campi di concentramento. Inoltre, ci furono 28.500 morti tra i soldati francesi, da 30.000 a 90.000 morti tra i soldati algerini fedeli alla Francia, da 4.000 a 6.000 morti tra i civili europei e circa 65.000 feriti.
Va ricordato che i partiti francesi socialisti e comunisti sostennero, di fatto, la guerra dell’imperialismo francese contro la rivoluzione algerina. Il premier socialista dell’epoca, Guy Mollet, gestì politicamente l’inasprimento della repressione in Algeria e i deputati comunisti non fecero nulla per fermare il massacro. L’unica eccezione fu Jean-Paul Sartre, il quale, con coerenza e senza compromessi, si schierò dalla parte degli indipendentisti algerini. Nel gennaio 1956, partecipò a un incontro per la pace in Algeria dove tenne un discorso che diventerà uno dei suoi testi più celebri: “Il colonialismo è un sistema”. Oggi è ricordato in Francia come un “cattivo maestro”. Morto un filosofo se ne fa subito un altro, ed ecco che il “buon maestro” Bernard Henry-Lévy ci regala un’intervista, pubblicata su La Stampa nella quale afferma che occupazione, carestia, genocidio a Gaza sono tre bugie che vanno smontate.
Il Fronte di Liberazione Nazionale, in un famoso volantino, scriveva: “il colonialismo si arrende solo con un coltello alla gola”. Mai affermazione fu più appropriata. Per questo, ogni piano di pace a Gaza è destinato a fallire. Il colonialismo che alimenta questa tragedia non ha il coltello alla gola, lo ha dalla parte del manico.







































Add comment