Asset russi, riserve d'oro e bolla delle armi: come la dedollarizzazione continua a scavare la fossa dell'imperialismo
di Alex Marsaglia
Mentre i Paesi europei colonizzati subiscono il giogo dell’Unione Europea che mira a depredare anche le riserve auree rimaste nelle casseforti delle Banche Centrali Nazionali (vedi: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52025AB0039), raschiando il fondo di un barile sempre più vuoto dopo quasi un ventennio di crisi e stagnazione economica e anni di sanzioni e blocchi al partner energetico russo, succede che nel resto del mondo si afferma chi pensa di sganciarsi da questo modo criminale di fare economia.
Dalla questione degli asset russi, all’appropriazione delle riserve auree, ormai il pensiero fisso dell’Unione Europea è la rapina diretta in aperta violazione delle sovranità nazionali e del diritto. Se i singoli Stati europei si sono lasciati ingannare facilmente, il resto del mondo in questi anni ha pensato e costruito un’altra strada per non farsi colonizzare brutalmente e dover subire ogni sorta di violenza e angheria. Non è infatti stata solo la crisi economica e il conseguente acquisto dell’oro come bene rifugio da parte dei privati ad averne determinato l’apprezzamento record. Dietro la valorizzazione c’è una ben precisa strategia che ha visto le Banche Centrali di Cina, Russia e Iran negli ultimi anni acquistare oro a ritmi vertiginosi, determinando il raddoppio del suo valore nel giro di pochi mesi (vedi grafico 1).
E l’Italia anziché poter gioire per essere il terzo Paese al mondo con maggiori riserve auree (vedi grafico 2) accantonate negli anni del boom economico, è caduta in preda all’ansia per l’ennesimo tentativo di rapina. E dico l’ennesimo perché le 2500 tonnellate d’oro, per l’ammontare di 300 mld di euro, sono nei forzieri della Banca d’Italia che com’è noto è stata separata dal Ministero del Tesoro nel 1981 e progressivamente privatizzata da capitali stranieri, per poi finire nelle grinfie della BCE che di fatto la utilizza come sua mera esecutrice di politiche monetarie decise a Francoforte, dunque non propriamente in piena disponibilità dello Stato italiano. Un arricchimento del tutto fittizio per uno Stato e un popolo completamente usurpato della sovranità dei propri beni.
Questa valorizzazione dell’oro, passato dai 2000 ai circa 4000 dollari l’oncia in meno di un anno, ha richiamato alle orecchie degli analisti la vecchia massima storica “quando l’oro raddoppia, gli imperi crollano”. In realtà, ciò che sta accadendo non ha alcun meccanicismo politico insito e non è frutto di una legge di mercato dettata dalla mano invisibile di Smith, bensì è una conseguenza di una politica economica e monetaria ben precisa di quel Adam Smith che - citando Giovanni Arrighi che i pattern storici li ha studiati attentamente alla Scuola delle Annales - si è trasferito da tempo a Pechino. Insomma, gli imperi non crollano mai da soli, bensì nei cicli storici vengono abbattuti e la Repubblica Popolare Cinese sta mettendo in campo tutto il suo potenziale economico costruito negli anni per scavare la fossa all’imperialismo statunitense. Quest’ultimo sta semplicemente tentando di salvare la sua moneta, su cui grava il più grande debito pubblico mondiale.
E sta cercando di salvaguardare dalla svalutazione la moneta con la forza delle armi, andando alla ricerca di beni e materie prime tramite l’«accumulazione per espropriazione»: prima il duo Obama-Biden ha attaccato direttamente la Russia, ora Trump sembra voler rimodulare l’aggressione limitandosi al giardino di casa, delegando i Quisling al lavoro sporco sui vari fronti, per concentrare le forze sull’assalto finale contro la Cina. Dal canto suo Pechino negli ultimi quindici anni ha lavorato in concerto con Mosca per costruire una strategia alternativa di transizione al Nuovo Ordine Mondiale Multipolare imperniandola sulla dedollarizzazione. Questa viene portata avanti in un contesto di cooperazione di altissimo livello a cui si è legato il riscatto dell’intero Sud Globale. Si può chiaramente identificare il piano dei BRICS+ come un tentativo di disinnescare la guerra che l’imperialismo statunitense prepara come sua ultima ancora di salvezza. Il lancio avvenuto il 22 Dicembre da parte del Presidente Trump di una nuova flotta da guerra americana rinnovata è un messaggio importante e per nulla improntato alla pace rivolto non tanto all’America Latina, quanto al Pacifico e alla Cina stessa.
D’altra parte la missione principale dell’imperialismo statunitense continua a essere rivolta verso la rottura dell’asse Mosca-Pechino, che risulta invece più saldo che mai. E lo è proprio a partire dall’approfondimento di questo obiettivo di sganciamento dal sistema monetario internazionale statunitense: entrambe dal 2022 hanno di fatto bypassato il sistema di pagamenti internazionale SWIFT basato sul dollaro creando altri canali per le transazioni in accordo con i BRICS. Al fine di rendere più solido il nuovo sistema monetario sia la Cina sia la Russia hanno preso ad acquistare oro e lo hanno fatto con una fitta rete di interscambio reciproca. Proprio nell’ultimo mese di Novembre la Cina ha messo a segno il record storico di acquisti di oro dalla Russia per un ammontare di 961 milioni di dollari.
E il trend è in forte ascesa, poiché fa seguito ai 930 milioni di ottobre portando il totale da gennaio a novembre 2025 a 1,9 miliardi di dollari che è ben nove volte superiore ai 223 milioni acquistati nel 2024. In questo modo la Cina non solo sostiene il rublo, ma lavora nell’ottica di Kazan 2024 per rafforzare la moneta comune Unit dei BRICS+ che è ancorata per il 40% all’oro. Infatti, se qualcuno si fosse perso la rilevanza di una simile svolta nel sistema monetario internazionale, è bene ricordare che con Unit per la prima volta dalla rottura degli Accordi di Bretton Woods nel 1971 e dall’abolizione del Gold Standard in favore del Dollar Standard, si sta affermando un nuovo sistema internazionale in cui si tenta di riagganciare la moneta all’oro. Evidentemente l’affermazione di una moneta basata sulla maggior stabilità aurea determinerebbe la svalutazione progressiva della moneta dell’impero statunitense che si troverebbe sempre più in mano pezzi di carta sommersi dalla cifra astronomica di un indebitamento statale giunto alla soglia dei 40 miliardi di miliardi di dollari. Questo sì potrebbe far crollare l’impero. La corsa inflazionistica e speculativa del dollaro e dell’euro è entrata in crisi assieme all’ordine unipolare, mentre l’affermazione di un ordine multipolare non può prescindere da un ordine monetario multipolare in cui le risorse, le materie prime e le valute del Sud Globale torneranno al centro del sistema internazionale dei pagamenti facendo saltare il castello di carta costruito da Nixon in poi. In questo senso la valorizzazione dell’oro è semplicemente lo specchio che riflette l’affermazione di un nuovo ciclo egemonico che non vede più gli Stati Uniti in grado di imporre il valore della propria moneta a suon di cannonate in giro per il mondo.
Ci proveranno ancora, ma nel frattempo come ha già messo nero su bianco il Nuovo Documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale devono ripiegare per concentrare le risorse contro la Cina. Quest’ultima è invece da tempo impegnata nel portare a compimento le riforme con un’azione dello Stato volta a sviluppare quella che è stata la “rivoluzione industriosa”. Un quadro improntato ad «allargare e migliorare la divisione sociale del lavoro, la grande espansione dell’educazione, la subordinazione degli interessi capitalistici alla promozione dello sviluppo nazionale e l’attivo incoraggiamento della competizione inter-capitalistica», rivolto a «ridistribuire i profitti nei circuiti locali, nelle scuole, cliniche e altre forme di consumo collettivo» secondo uno schema di «accumulazione senza espropriazione»[1]. In maniera sotterranea la Cina ha sostenuto un’economia di prossimità, con «incentivi rilevanti che spingono i dirigenti delle imprese di comunità e gli imprenditori a reinvestire i profitti nelle comunità locali»[2] determinando una potente spinta del mercato interno che ha sostenuto l’affermazione economica del dragone. Anche gli investitori internazionali si sono accorti del maggior tasso di profitto in un’economia stabilizzata di questo tipo, rispetto a una finanziarizzata come quella occidentale, «riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante». Così «gli Stati egemonici declinanti si trovano di fronte a una fatica di Sisifo: contenere forze che rotolano giù con sempre rinnovata energia»[3].









































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