Diario politico di un martirio – Palestina, 2023-2025
di Andrea Zhok
Il professore di Filosofia morale ricostruisce la tragedia che negli ultimi due anni ha sconvolto il Medio Oriente
Nel suo ultimo libro, Andrea Zhok rilegge gli eventi compresi fra l’attacco del 7 ottobre 2023 e il cessate il fuoco del 9 ottobre 2025. Un diario che, senza negare i crimini di guerra compiuti da Hamas, svela la falsa coscienza di Israele e di tutto l’Occidente. Dagli allarmi ignorati al ritardo nella risposta israeliana, dal quadro geopolitico precedente alle narrazioni mediatiche non comprovate, Zhok mette in evidenza le ambivalenze che hanno segnato questi due tragici anni. Krisis presenta l’introduzione del volume, pubblicato da Il Cerchio.
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Il 7 ottobre 2023 mi trovavo a Modena per un incontro pubblico, quando arrivò la notizia dell’attacco dei miliziani di Hamas sul territorio israeliano. Parlandone, nell’immediatezza dell’evento, con un amico, saggista ed esperto geopolitico, notammo subito il carattere sorprendente dell’attacco, su quello che è probabilmente il confine più sorvegliato del mondo, e soprattutto l’incomprensibile lentezza della risposta israeliana. Tant’è vero che in prima istanza ipotizzammo che qualche Stato estero, come l’Iran, avesse interferito con le telecomunicazioni israeliane.
Oggi, a più di due anni di distanza da quell’evento che ha aperto la strada a una crisi di gravità inedita, e ben lungi dall’essere risolta, molti dettagli si sono chiariti 1. Alle 6.30, ora locale, del 7 ottobre 2023 miliziani di Hamas, dopo aver neutralizzato i sistemi di sicurezza israeliani nei pressi della barriera ad alta tecnologia che separa Gaza da Israele, riuscirono a sfondarla.
Ci fu un concomitante lancio di razzi oltre la barriera, alcuni dei quali arrivarono fino a Be’er Sheva, e dalle brecce le truppe di Hamas, ma anche gruppi improvvisati di palestinesi non organizzati, si riversarono in territorio israeliano, invadendo i kibbutzim limitrofi, incluso quello di Re’im, nei cui pressi si stava svolgendo un festival musicale, il Nova festival.
L’assalto avvenne utilizzando droni a buon mercato, granate, bulldozer, parapendio a motore, motociclette, armi leggere e razzi portatili.
L’allerta delle autorità per l’assalto avvenne solo un’ora e mezza dopo, alle 8.06. E solo alle 10.00 – tre ore e mezza più tardi – le prime truppe di terra della sicurezza israeliana arrivarono nelle zone sotto attacco. Tuttavia in zone come Re’im, dove aveva luogo il Nova festival, le prime truppe si sarebbero viste appena alle 15.00, dunque 8 ore e mezza dopo l’attacco.
Sul piano delle perdite umane l’esito dell’attacco fu di 1.139 morti da parte israeliana, di cui 695 civili (36 minorenni), e di 240 cittadini israeliani presi in ostaggio. Quanto agli attaccanti palestinesi, alla fine dell’attacco, con la liberazione dei kibbutzim confinari due giorni più tardi, il bilancio dei morti sarà comunque di 1500 caduti.
La maggior parte dei morti civili israeliani si ebbero al Nova festival (364 morti) e nel kibbutz di Be’eri. Il crudo elenco dei fatti e la contabilità dei morti naturalmente non esaurisce neanche lontanamente il significato dell’evento, che darà luogo nei mesi successivi a una martellante campagna israeliana di disumanizzazione dell’intera popolazione palestinese.
Che l’uccisione di civili sia sempre un crimine di guerra non è qualcosa su cui sia necessario discutere e dunque si può parlare di un crimine di guerra per i 695 israeliani uccisi e, a maggior ragione, naturalmente per i 36 minorenni coinvolti nell’eccidio. Parimenti, la presa di ostaggi civili è anch’esso un crimine di guerra e va condannato.
Tuttavia – senza pretendere qui di entrare estensivamente nella quasi secolare vicenda israelo-palestinese – può essere utile collocare questi numeri nel contesto di altri numeri.
La popolazione della Striscia di Gaza è costituita per circa il 70 per cento di famiglie sfollate durante la guerra del 1948 (e che, secondo la risoluzione 194 dell’Onu avrebbero avuto diritto al rientro sulla propria terra). Dal 2007, Israele ha messo sotto embargo e controllo totale la Striscia di Gaza, trasformandola in un carcere a cielo aperto, controllando ogni ingresso di persone e cose nei confini terrestri, marittimi e aerei, limitando il movimento di beni e lavoratori, l’approvvigionamento alimentare, idrico ed elettrico.
A causa di tale embargo, nel 2023 il tasso di disoccupazione nell’enclave di Gaza era del 70 per cento. In quanto zona sotto legislazione militare, gli arresti arbitrari di cittadini palestinesi e la loro detenzione a tempo indefinito in attesa di accertamenti sono all’ordine del giorno, con circa 7000 palestinesi in media rinchiusi nelle carceri israeliane, di cui almeno 500 bambini. (Che un soggetto sottoposto ad arresto arbitrario e detenuto senza una precisa scadenza non conti come «ostaggio» è una peculiarità linguistica degna di riflessione).
Quanto all’oscena contabilità dei morti e dei feriti, il terrificante bilancio dei 1.139 morti israeliani del 7 ottobre può ricevere una certa prospettiva se si pensa che dal 2007 Tel Aviv ha lanciato ben quattro campagne militari nel territorio di Gaza (2008-2009, 2012, 2014 e 2021), facendo complessivamente circa 4.000 vittime tra i palestinesi, in grande maggioranza civili.
Anche manifestazioni disarmate, come la Marcia del Ritorno nel 2018, sono state represse nel sangue (in quell’occasione 214 morti, di cui 46 bambini). Solo tra gennaio e settembre 2023, oltre 200 palestinesi erano stati uccisi in pogrom antipalestinesi (nella città di Huwara) o in incursioni delle forze di sicurezza (ad esempio a Jenin).
Dunque, per quanto si possa e debba condannare moralmente l’uccisione di civili avvenuta il 7 ottobre 2023, soltanto una persona in perfetta malafede potrebbe dire che si tratta di qualcosa di umanamente incomprensibile: è stata una fiammata d’odio le cui motivazioni sono perfettamente trasparenti, note e comprensibili.
In ogni caso, dalla realtà di questa fiammata d’odio vanno detratte le numerose attribuzioni di straordinaria efferatezza che sono state fatte circolare, che il governo di Tel Aviv ha alimentato e che i media mondiali hanno diligentemente diffuso (salvo poi smentirle in note a piede di pagina).
Tra le atrocità che sono state ufficialmente smentite, ma solo dopo aver fatto il giro di tutte le redazioni di giornali del mondo per settimane, vi sono le «notizie» riguardanti:
• 40 bambini uccisi, molti dei quali decapitati, nel kibbutz di Kfar Aza;
• l’affermazione di Netanyahu per cui «hanno preso decine di bambini, li hanno legati, bruciati e giustiziati»;
• la donna incinta cui sarebbe stato squarciato il ventre nel kibbutz di Be’eri;
• il bambino ucciso mettendolo in un forno acceso;
• gli stupri di massa usati come arma di guerra.
Sul tema degli stupri, ci sono da un lato storie refutate, come quella che avrebbe coinvolto l’israeliana Gal Abdush (riportata dal New York Times il 28 dicembre 2023). Dall’altro lato, ci sono varie narrazioni che semplicemente non hanno mai ricevuto conferma. Gli ospedali israeliani che trattano vittime di violenze sessuali, contattati per un’inchiesta, avevano risposto di non aver ricevuto alcun caso di stupro legato agli eventi del 7 ottobre.
Ovviamente la mancanza di un’evidenza non è l’evidenza di una mancanza. Violenze potrebbero essersi verificate e potrebbero non essere emerse in forma probatoria per molteplici motivi. Ma questo è comunque sicuramente sufficiente per dichiarare con certezza che stupri di massa, utilizzati come «arma di guerra», non hanno avuto luogo.
Questa narrativa israeliana sulla disumana efferatezza dell’aggressore palestinese è stata in effetti un’operazione mediatica il cui significato è apparso ben presto chiaro, consentendo di differire per lunghissimo tempo ogni critica internazionale all’incredibile, sproporzionata e indiscriminata risposta israeliana.
In verità che, da ben prima del 7 ottobre, l’intenzione di Israele fosse precisamente solo quella di avviare una «risposta» annichilente nei confronti dei Territori Occupati, è più che una congettura. Infatti della vicenda del 7 ottobre la questione veramente enigmatica, veramente sconcertante, veramente inconcepibile non è la ferocia dell’attacco, ma il fatto che esso sia stato possibile.
Quando parliamo della Striscia di Gaza, parliamo di un territorio che ha le dimensioni di un quarto della provincia di Isernia, un territorio ininterrottamente sorvegliato da mezzi elettronici, telecamere, droni, e da una rete capillare di informatori sul terreno utilizzati dallo Shin Bet.
Un’operazione come quella messa in campo da Hamas ha coinvolto centinaia di persone che hanno dovuto cooperare e coordinarsi per mesi, quando non per anni. Che niente sia trapelato risulta incredibile. E, in effetti, oggi sappiamo che molto, moltissimo era trapelato, ma è stato intenzionalmente ignorato.
Come emerge da un’indagine del New York Times del 30 Novembre 2023, dalla metà del 2022 i responsabili israeliani dell’esercito e del Mossad erano in possesso di un documento di 40 pagine (denominato «Mura di Gerico») che spiegava dettagliatamente tutto ciò che Hamas avrebbe messo in atto il 7 ottobre. Tuttavia non se ne trasse alcuna conseguenza, neppure quella di un’accresciuta allerta.
Filmati resi pubblici dalla Cnn appena cinque giorni dopo l’attacco mostravano ampie esercitazioni compiute dai miliziani di Hamas in vari campi di addestramento a Gaza, ad esempio vicino al valico di Erez. Come esse abbiano potute aver luogo senza essere notate in un fazzoletto di terra ipersorvegliata è qualcosa che rimane in attesa di risposta.
Ma c’è molto di più. Dal 2022 le autorità di sicurezza israeliane avevano deciso di non intercettare più i walkie-talkie non criptati usati da Hamas. Nonostante tale rinuncia, intercettazioni informali erano comunque avvenute da parte di cittadini israeliani negli insediamenti a ridosso della barriera di Gaza.
Questi cittadini nel corso del 2023 avevano segnalato alle autorità di aver intercettato comunicazioni circa l’organizzazione di un attacco. L’unica reazione nota delle autorità israeliane fu di limitare le capacità di intercettazione di queste persone, liquidando gli allarmi come fantasie.
Durante l’estate 2023, lo Shin Bet aveva segnalato al governo che Hamas stava preparando un attacco per ottobre; ma la segnalazione venne lasciata cadere nel nulla. Poche settimane prima dell’attacco i palloni di monitoraggio sul territorio di Gaza vennero segnalati essere fuori uso, ma non vennero sostituiti.
Più incriminante di tutto è il fatto che, nonostante tutti i rapporti dell’intelligence e di semplici cittadini che mettevano in allerta fossero stati apparentemente trattati come insignificanti, proprio durante la notte che precedette l’attacco del 7 ottobre ci furono ben due consultazioni dei vertici della Difesa israeliana. E ciononostante – qualcuno potrebbe malignamente dire, proprio per questo – la risposta all’attacco di quel mattino fu insolitamente ritardata, lenta e disorganizzata.
Diciamo che allo stato dell’arte tutto lascia ritenere plausibile un quadro in cui le autorità israeliane, o almeno parte determinante di esse, abbiano lasciato accadere il peggio, precisamente con l’intento di fornire una legittimazione interna ed esterna a una successiva risposta mirata all’annichilimento del «problema palestinese».
Nelle pagine del mio libro Diario politico di un martirio è radunata una scelta di osservazioni e commenti, inizialmente pubblicati sui social o su riviste online, che corrono in parallelo con il dispiegarsi degli eventi dal 7 ottobre 2023 al cessate il fuoco del 9 ottobre 2025.
Fatti salvo la correzione di alcuni refusi o la riformulazione di alcune espressioni per ragioni stilistiche, i commenti – riportati con la relativa datazione – sono riprodotti nella loro forma originaria, senza significativi cambiamenti. Il senso di quest’operazione editoriale è di richiamare in una forma quasi diaristica la progressiva presa di consapevolezza politica di un evento che credo sia destinato a segnare una cesura nella coscienza occidentale (e nella percezione dell’Occidente all’esterno dello stesso).
In alcuni casi, trattandosi di commenti a un evento appena accaduto e presumibilmente noto al lettore del momento, sono state introdotte delle brevi note illustrative a piede di pagina.
Alcuni degli interventi hanno più il carattere di uno sfogo che di un contributo analitico. Ho voluto lasciarli perché parte essenziale di questa vicenda, almeno per chi scrive, è stato anche il trauma psicologico di fronte a un fallimento umano dell’Occidente. Fallimento che, anche quando presagito, lascia sconcertati.
L’ultimo testo di questa raccolta, dal titolo Apocalisse o palingenesi, è una riflessione inedita, che cerca di trarre alcune conclusioni dal percorso fatto. Come recita il titolo del libro, l’oggetto di questo «diario politico» è un martirio, nel duplice senso di sofferenza inflitta e di testimonianza esemplare (μαρτύριον). L’aspetto della sofferenza non ha bisogno di commento. Ma la testimonianza qui travalica la tragica vicenda del popolo palestinese.
Qui c’è infatti in gioco una seconda tragedia, meno evidente, meno cruenta, ma non minore. Se la tragedia del sangue, della mutilazione, della morte non ha bisogno di spiegazioni, c’è una seconda tragedia meno rumorosa che ha luogo in chi si è a lungo immaginato una storia in cui era vittima o giudice, e scopre infine di essere (e di essere stato) il carnefice. Di esserlo e, in fondo, di non essere neppure troppo turbato nello scoprirlo.
La vicenda israelo-palestinese ha un carattere di microcosmo esemplare in cui la falsa coscienza non solo di Israele, ma dell’intero Occidente viene testimoniata in modo schiacciante e incancellabile.







































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