Russofobia, guerra e democrazia illiberale
di Angelo d’Orsi
Gli storici di domani faticheranno a darsi una spiegazione e a dare una interpretazione convincente degli avvenimenti degli ultimi anni, nello spazio europeo centro-occidentale, con qualche integrazione d’Oltreatlantico. Tutto appare così assurdo, ingiustificato e ingiustificabile, e la narrazione che ne viene fatta è talmente lontana da tutta la documentazione disponibile, e sovente persino rovesciata rispetto alla realtà accertata dei fatti, che soltanto una lettura in termini di psicologia di massa, e di psichiatria relativamente alle élites potrebbe, forse, fornire qualche chiave di lettura.
In particolare della questione – perché ormai tale è, una questione psicopolitica – russofobia, e al suo persistere e dilagare a dispetto della verità accertata, siamo in difficoltà per darne conto. Secondo i russofobi la russofobia non esiste (o è una invenzione dei russofili indicati come agenti del nemico); ma noi caparbiamente dobbiamo ricordare invece che il sentimento antirusso è antico quasi quanto la Russia stessa e che si manifesta almeno dal momento in cui il Principato di Moscovia cominciò ad affermarsi ingrandirsi e rafforzarsi, tra il Cinquecento e il Seicento (basti citare l’ottimo libro di Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Roma, Sandro Teti Editore). E già prima, fin dal Basso Medioevo, verso i popoli dell’Est europeo, si poteva constatare diffidenza, che a volte sfiorava il razzismo “bianco” come se “quelli di là” bianchi non fossero. In fondo la “civiltà” si concentrava nei territori conquistati da Roma; oltre erano le tenebre, l’oscurità, l’ignoto che fa paura e che non si ha desiderio di conoscere. L’oltre a ben vedere includeva Bisanzio, l’erede di Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente.
In ogni caso era il motto romano «Hic sunt leones», riferito all’Africa, a predominare la coscienza euroccidentale verso l’universo eurorientale; il motto valeva anche per le terre dell’Est, ma a differenza del “Continente nero”, in questo caso era la paura a prevalere.
Quelle terre venivano viste come desertiche, disabitate, inospitali, immerse nel secco della steppa, nell’oscurità dei boschi, nel gelo di nevi eterne. Ed è evidente che in condizioni climatiche estreme gli umani scarseggiavano ovvero si erano inselvatichiti, o meglio, non si erano mai inciviliti, a contatto, com’erano, soltanto con lupi e orsi. V’era altresì la paura dei “turchi”, ma era legata anche al fatto religioso, alle Crociate, all’espansione islamica verso le nazioni europee, all’antico conflitto tra la croce e l’islam, e per il mondo russo, tra cattolicesimo e cristianesimo ortodosso. Eppure malgrado gli europei occidentali avessero conosciuto e sofferto le scorrerie dei “turchi”, mentre con i russi mai avevano avuto a che fare, eppure nella classifica dei cattivi prevalevano sempre i russi.
Probabilmente i polacchi furono il principale tramite negativo tra mondo russo e mondo euroccidentale. Certo vi furono anche momenti di russofilia, ma si tratta di brevissimi tratti nella linea temporale delle relazioni tra Europa occidentale e Russia. Ma il fatto è, in definitiva, che nella communis opinio, la Russia non veniva percepita come parte del mondo europeo (ossia occidentale), identificato come l’unico mondo civile, il portatore del retaggio greco-romano e cristiano-cattolico (preferibilmente).
Uno dei momenti della russofilia è quello succeduto alla prima delle due rivoluzioni del 1917 quella che detronizzò lo zar: per molti quel fatto (di straordinaria importanza) apriva, finalmente, le porte dell’Occidente ai russi. E per qualche settimana, o qualche mese, i lontani russi divennero quasi simpatici, agli occidentali, i quali nondimeno ostentavano un’attitudine paternalistica, condiscendente, come fanno i ricchi quando imboccano per un attimo la strada della filantropia, gli adulti verso gli infanti, i colti verso gli incolti. Un’attitudine intimamente razzistica, in sostanza.
Fu comunque una fiammata che si spense presto. E fu immediatamente seguita da un rigurgito violento di razzismo antirusso, con la seconda rivoluzione, quella bolscevica. Ed ecco che quell’immenso sconfinato paese viene ricacciato indietro, espulso idealmente dall’Europa. Ecco che Lenin diventa un “omicciattolo”, come lo bollò Enrico Corradini il letterato fondatore del movimento nazionalista italiano precisando “immenso”. Ma quell’aggettivo, che precedeva il sostantivo, non esprimeva ammirazione, ma piuttosto terrore. E per scongiurare il pericolo, puramente teorico, che il bolscevismo attecchisse da noi, si riprese e si rilanciò la dottrina del comunismo come fenomeno “asiatico”. E nacque allora la diceria dei “comunisti che mangiano i bambini”, ossia i russi con una reciproca contaminazione concettuale, palesemente antistorica; contaminazione che poi raggiunge, rovesciata, i comunisti italiani.
Il passo successivo è stato quello del Secondo dopoguerra, quando, ormai a conflitto archiviato, una parte della storiografia, sovente ex comunista, divenuta ipso facto anticomunista cominciava a svalutare il ruolo politico, diplomatico, ideologico e soprattutto militare nella sconfitta del nazismo. E in parallelo procedeva la minimizzazione del ruolo della Resistenza armata, e in essa specificamente dei militanti comunisti. Questo lo abbiamo constatato specialmente in Italia, a partire dall’opera storiografica di Renzo De Felice, e dei numerosi suoi allievi (era un “signore delle cattedre”, il professor De Felice), epigoni, e divulgatori, che, per li rami, giungono fino ai giornalisti che reinventano il ricorso storico, fino a ribaltare, a rovesciarne i risultati scientificamente acquisiti: ecco il “rovescismo” (termine di mio conio, risalente al 2003, anno di pubblicazione del primo volume della saga antiresistenziale di Giampaolo Pansa).
Si trattò comunque di un movimento europeo che trovò esito nella risoluzione del Parlamento UE del 19 settembre 2019, che non riconosceva i meriti (e i sacrifici) dell’Unione Sovietica nella guerra, ma equiparava nazismo e comunismo (qui emergeva il retaggio di Ernst Nolte con la sua interpretazione tutta ideologica della “guerra civile europea”). Ma addirittura quella risoluzione operava un cortocircuito per il quale proprio l’Urss veniva additata come prima responsabile di quel conflitto che procurò 40 milioni di cadaveri, di cui circa 27 milioni erano cittadini sovietici. In sostanza, si impose una univoca narrazione: sono “gli Alleati” che hanno sconfitto il nazismo, e “gli Americani” che hanno liberato l’Italia dal fascismo.
Erano parole assai pesanti quelle della risoluzione UE peraltro reiterate in successivi altri pronunciamenti negli anni seguenti, parole tuttavia, che, con stupefacente leggerezza, e con un grave strappo allo stesso suo ruolo sono state riprese in varia forma e in numerose circostanze dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, divenuto uno dei più accaniti e oltranzistici rappresentanti dell’euro-atlantismo, e sotto di esso di una forsennata russofobia coniugata con una sorta di fascinazione della guerra, che pure nella forma di discorsi aulici apparentemente privi di sostanza politica, nella loro pacatezza esteriore, hanno costituito una sorta di basso continuo che invitava a porre la Russia, non solo il suo presidente, sul banco degli imputati.
Ritornando alla sciagurata risoluzione del 2019, va sottolineato che a quel tempo non c’era ancora stata “l’invasione dell’Ucraina” da parte delle forze armate della Federazione Russa, ma c’era stato il colpo di Stato di “Euromaidan”, di otto anni prima. L’attenzione mediatica che in Occidente, e segnatamente in Europa vi fu per l’inizio di quella che Vladimir Putin aveva chiamato «Operazione Militare Speciale», certo non vi fu per il golpe ucraino e l’inizio dell’azione di bombardamento sistematico, durato da allora a oggi, di Kiev contro le popolazioni e le infrastrutture del Donbass. Quei morti e quelle distruzioni non facevano notizia. Mentre dal 24 febbraio 2022 riemerse gloriosamente la russofobia. La politica delle sanzioni (illegittime, perché espresse da singole nazioni o associazioni di nazioni e non da organismi sovranazionali, terzi, ossia l’Onu) valse a dividere immediatamente il campo in due metà: civiltà (noi) contro barbarie (loro), democrazia (noi) contro autocrazia (loro), progresso (noi) contro immobilismo (loro), e via seguitando. E qui la macchina russofobica che già in Italia aveva dato gran prova di sé nel 2020, con l’arrivo dei soccorsi medico-sanitari inviati dalla Federazione Russa per aiutare in particolare la popolazione della Bergamasca, la più colpita dall’infezione da Coronavirus, scatenò numerosi commentatori, e persino giornalisti in ruoli apicali, della grande stampa nazionale, che coprendosi di ridicolo, insinuavano che quei camion colmi di materiale sanitario e quel personale medico e paramedico russo in realtà erano giunti nella Penisola per compiere azioni di spionaggio (e magari anche di sabotaggio).
Seguirono, con interpretazione estensiva e rigidissima antirussa dei divieti imposti in UE dalle “sanzioni”, innumerevoli atti di censura ai danni di artisti letterati musicisti sportivi russi, persino alcuni natii dell’Ucraina ma di lingua russa. Si toccò il vertice dello scandalo con la cancellazione di una serie di lezioni di Paolo Nori, noto slavista e russista, all’Università Bocconi. Dopo quell’episodio, in fondo la censura che ha colpito chi scrive, con l’annullamento di una conferenza a Torino (al Polo del ’900), nel novembre 2025, senza neppure che egli (cioè, io) ne venisse informato, è poca cosa. Ma se la si colloca nella serie di atti censori, di intimidazioni, di ricorso all’arma impropria della querela, di divieti e proibizioni, anche un piccolo episodio come quello che mi riguarda diventa rilevante, spia di una débâcle della democrazia liberale, che si conserva tale soltanto quando ci si inserisca nel canale maestro, quando si segua la corrente principale, il mainstream, nel quale giganteggiano oggi tre elementi: 1) pensiero binario (o con me o contro di me); 2) russofobia; 3) apologetica della guerra.
A ben vedere è proprio la parola “russofobia” (che era nel titolo della conferenza cancellata a Torino: Russofobia, russofilia, verità), che allarma coloro che sono pronti con lo smartphone a lanciare allarmi sulla “guerra ibrida”, sulla “propaganda”, sulla “disinformacija”, tre aspetti della subdola azione eversiva che dalla Russia (l’eterno nemico dell’Occidente, anche quando non si sia in situazione di conflitto militare diretto) colpisce la nostra “democrazia”, la quale evidentemente è così fragile che ha paura di una conferenza che racconti in termini storici un odio antico verso la Russia, o di far suonare Ciaikovskij o ancora di far esibire una danzatrice classica russa o persino un gatto russo all’esposizione felina, come è davvero accaduto.
La russofobia è diventata russofollia nell’ultimo triennio, e ci si è inabissati fino al cretinismo o alla menzogna più sfacciata. In Italia la gran parte dei quotidiani ne è stata protagonista, contribuendo da una parte a costruire il mito del Nemico pronto ad assalirci, il sempiterno Hannibal ad portas (che nel caso di specie parla russo indossa colbacco e beve vodka) fondamentale per impaurire la popolazione e indurla ad accettare politiche di investimenti in armi e apparati militari. Il Nemico potente e minaccioso è naturalmente Vladimir Putin e lo Stato che egli dirige, e mentre da un lato se ne amplifica la potenza dall’altro si denigra il suo esercito, alludendo, più o meno esplicitamente a tratti “atavici” del popolo russo, pigrizia, primitivismo, crudeltà. Su Putin si sono usati tutti gli stilemi russofobi ma anche anticomunisti perché il presidente russo viene rappresentato come il nuovo Stalin ma anche il nuovo Hitler e infine lo zar redivivo. E si è giunti al punto di argomentare che Putin e la Russia sono oggi il perfetto esempio di fascismo a livello globale e la vittoria russa nella guerra implicherebbe una tragedia mostruosa: «Se in qualche modo [la Russia] avesse la meglio in Ucraina, per le democrazie di tutto il mondo, soprattutto per quelle europee, si aprirebbero anni, forse decenni, di buio» (così Danilo Taino in «Corriere della sera», 23 marzo 2024). Questo commentatore si produceva poi in un elenco di catastrofi susseguenti alla eventuale vittoria della Russia, o persino a un suo «successo anche parziale». «La libertà di mercato soccomberebbe per essere sostituita da un soffocante dirigismo di Stato. Alcuni Paesi […] verrebbero in poco tempo minacciati direttamente». «Invasioni», o almeno «pressioni economiche, pesanti campagne di disinformazione e di sabotaggio». E ancora: «in altri Paesi europei, finanziamenti alle forze antidemocratiche, campagne di propaganda fino a provocazioni per destabilizzare». Infine: si romperebbe «la compattezza della Nato» lasciando così «l’Europa vulnerabile come non lo è da decenni». Nel quadro apocalittico veniva poi evocata la Cina: se Putin non viene fermato (questa la tesi), la sua alleanza con Xi Jin-ping ne risulterebbe rafforzata: «Più di un Paese si troverebbe solo e isolato. Come affronterebbe una pressione del genere il debole e spesso disorientato quadro politico italiano? Resisterebbe alle minacce e alle blandizie di Mosca e Pechino?». L’articolo, che tra l’altro esordiva asserendo che la Russia, e soltanto la Russia di Putin, rappresenta oggi l’esempio perfetto di Stato fascista con conseguente negazione del fascismo o meglio del nazismo in Ucraina, risultò talmente estremo, da suscitare una vibrata protesta dell’Ambasciatore russo a Roma.
Ma si pensi a una rivista che si presenta come ultimo ridotto della “sinistra intelligente”, del pensiero critico, del razionalismo illuministico, ossia «MicroMega», che dopo aver ignorato la situazione nel Donbass improvvisamente dal febbraio 2022 diventa un grottesco baluardo della nazi-ucrainofilia, e un serbatoio della russofobia “colta”. Si può dire che ogni giorno sui materiali on line vi sono attacchi pesanti alla Russia, che trasudano dietro una desolante povertà di argomenti, in nome sempre dei “valori occidentali”, quelli che nella “Russia di Putin” sarebbero ignorati o calpestati. Il fondatore Paolo Flores d’Arcais, dopo aver lasciato il ruolo di direttore, si è recentemente esibito in un grottesco esercizio di logica politica, con un lunghissimo articolo che metteva a confronto le due “guerre”, Ucraina e Gaza, e pur riconoscendo gli orrori israeliani giungeva all’ineffabile conclusione che i russi ne hanno commesso di peggiori e che dunque Putin è (molto) peggio di Netanyahu. Siamo giunti a questo punto di corruzione non solo della capacità di analisi ma dell’intelligenza e dell’onestà intellettuale.
La russofobia, divenuta da tempo russofollia arriva a questo punto di depravazione e di indecenza. Il giornalista Vincenzo Lorusso ha raccolto in un libretto (“De russophobia”, Roma, Quattro Punte Edizioni) alcuni dei più macroscopici esempi di questa nuova forma di psicosi e demenza collettiva, che comprendono, come accennavo, non soltanto le censure i divieti le proibizioni le querele, ma l’irrazionale e illiberale rifiuto a farci vedere le cose dall’altro punto di vista, oscurando i siti dei media russi.
Anche tenendo conto del cortocircuito anticomunista e della paura per l’“orso russo”, anche contestualizzando queste performances ideologiche nel clima di guerra (peraltro non risulta che la UE sia in guerra con la Federazione Russa, se non surrettiziamente), anche dandoci la spiegazione che l’industria degli armamenti è divenuta accanto a quella farmaceutica il settore trainante delle economie occidentali, la comprensione di questo impazzimento collettivo è pressoché impossibile. E si lascia perciò l’ingrato compito agli storici di domani o dopodomani, coltivando però il legittimo dubbio che possano riuscire a fare luce in modo persuasivo.







































Comments
E' il rituale che si ripete ogni volta che le demoplutocrazie, o meglio le élites che le telecomandano, decidono di entrare in guerra. L'inabissamento non deriva da ignoranza, ma dalla necessità di toccare le corde emotive del popolo usando immagini, simboli e ragionamenti ad esso comprensibili (e da esso introiettabili):
"la juventus è strafica!"
"e a me fa ca*are!"
E' il bello della democrazia: il dialogo fra governanti e governati.