L’Occidente in Ucraina, tra affarismo di Trump e belligeranza di Rutte&Co
di Roberto Iannuzzi
Se la Casa Bianca antepone gli affari alla costruzione di una pace duratura, gli europei fanno di tutto per alimentare il conflitto con denaro e propaganda bellicista
Quando la scorsa settimana è emerso che l’amministratore delegato di BlackRock Larry Fink sedeva (insieme al segretario al Tesoro Scott Bessent e a Jared Kushner, il genero del presidente) al tavolo negoziale fra Stati Uniti e Ucraina, la posta in gioco dell’iniziativa diplomatica americana per risolvere il conflitto tra Mosca e Kiev è divenuta più chiara.
Lo scontro negoziale non riguarda solo la sicurezza e i confini, ma gli affari, e a trovarsi su fronti contrapposti sono non soltanto Russia e Ucraina, ma anche gli Stati Uniti e gli alleati europei.
La contrapposizione del resto non è nuova. Già nel 2022, il German Marshall Fund (think tank statunitense con sede centrale a Washington e uffici in capitali europee come Berlino, Bruxelles, Parigi, Varsavia e Bucarest) aveva elaborato un paper strategico in collaborazione con diverse agenzie del governo USA, nel quale si affermava che la leadership della ricostruzione non poteva essere garantita dalla Commissione Europea poiché essa “manca del necessario peso politico e finanziario”.
Nel novembre dello stesso anno, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva firmato un memorandum d’intesa con il colosso finanziario americano BlackRock per definire una “road map” per la ricostruzione del paese.
Ucraina in svendita
Dopo la rivolta di Maidan del 2014, le riforme ucraine volute dal Fondo Monetario Internazionale avevano spianato la strada ai capitali statunitensi nel settore agricolo e in quello delle materie prime.
L’agribusiness statunitense, da Cargill a Monsanto, aveva ottenuto lucrosi contratti in un paese che era fra i principali esportatori mondiali di grano e mais.
I programmi per la digitalizzazione dell’Ucraina, avviati in collaborazione con il World Economic Forum (WEF), avevano determinato l’arrivo dei giganti della Big Tech, da Apple a Microsoft.
BlackRock controlla, direttamente o indirettamente, quote rilevanti di molte di queste compagnie, così come sostanziosi pacchetti azionari delle principali industrie del settore americano della difesa - Lockheed Martin, RTX (ex Raytheon), Northrop Grumman – che hanno ricavato enormi profitti dal conflitto ucraino.
Dopo aver guadagnato dalla guerra, si tratta ora di trarre profitto dalla svendita di un paese al collasso, che gli Stati Uniti hanno spinto per anni verso un conflitto suicida con il vicino russo.
Tale svendita è resa possibile anche dal programma di riforme neoliberiste in gran parte già realizzato dal governo Zelensky.
L’amministrazione Trump ha consegnato ai propri alleati europei, nelle scorse settimane, una serie di documenti nei quali viene esplicitata la visione americana per la ricostruzione dell’Ucraina e il riallacciamento dei rapporti economici con la Russia.
Per il presidente Donald Trump, l’approccio economicista sembra prevalere su quello della sicurezza strategica. Dunque, anche nei confronti di Mosca l’impostazione della Casa Bianca antepone l’allettamento economico alla definizione di un’architettura di sicurezza europea che si concili con gli interessi russi.
Questo approccio rischia di non soddisfare le priorità russe, e allo stesso tempo irrita gli europei.
Divisioni transatlantiche
Il piano dell’amministrazione, in particolare, prevede che le imprese americane usufruiscano di 200 miliardi di beni russi congelati per progetti legati alla ricostruzione ucraina, incluso un gigantesco data center che dovrebbe essere alimentato dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia, attualmente controllata dai russi.
Il piano europeo consisteva invece nell’utilizzare i beni congelati di Mosca per finanziare lo sforzo bellico ucraino, un provvedimento illegale che comporta grossi rischi giuridici e finanziari per l’Unione Europea, e al quale la Casa Bianca si oppone perché rischierebbe di affossare il negoziato con la Russia.
Al vertice UE del 18 dicembre, il piano europeo è stato temporaneamente rinviato mentre si è optato per un prestito di 90 miliardi di euro per finanziare l’Ucraina nei prossimi due anni. Ma gli asset russi restano congelati a tempo indeterminato.
I contrasti fra le due sponde dell’Atlantico tuttavia non finiscono qui. L’amministrazione Trump prevede anche di ripristinare i rifornimenti energetici russi verso l’Europa, un’idea che paradossalmente vede contraria la Germania, il paese che forse più di tutti ha scapitato dalla perdita delle fonti energetiche russe a basso costo.
Il governo tedesco si è affannato a spiegare a Washington che le sanzioni europee impediscono il ripristino del gasdotto Nord Stream.
Recentemente, l’Unione Europea ha approvato un provvedimento per terminare definitivamente le importazioni di gas russo entro il 2027.
La spaccatura delle élite occidentali è emblematicamente espressa dal fatto che mentre Larry Fink, CEO di BlackRock e attuale vicepresidente del WEF, sta negoziando con Zelensky i termini della ricostruzione, la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen (altro membro di spicco del WEF) e il cancelliere tedesco Friedrich Merz (ex dirigente di BlackRock) hanno espresso il loro netto scetticismo nei confronti del piano Trump.
“Isteria paranoica”
Ma l’aspetto più inquietante sono le dichiarazioni allarmiste e guerrafondaie di altri esponenti del fronte europeo.
Sconcertante il discorso pronunciato lo scorso 11 dicembre a Berlino dal segretario della NATO Mark Rutte, il quale ha affermato che “siamo il prossimo obiettivo della Russia, e siamo già in pericolo”.
utte ha parlato di una Russia che potrebbe essere “pronta a usare la forza militare contro la NATO entro cinque anni”. Con piglio drammatico, ha affermato che “dobbiamo essere preparati a una guerra della portata di quelle che hanno dovuto sopportare i nostri nonni o bisnonni”.
Rincarando la dose, ha invitato a immaginarla: “Un conflitto che raggiunge ogni casa, ogni luogo di lavoro, distruzione, mobilitazione di massa, milioni di sfollati, sofferenza dilagante, perdite enormi”.
Per poi concludere che ciò che ci separa dal destino dell’Ucraina è solo la NATO, e che “in qualità di Segretario Generale, ho il dovere di dirvi cosa ci aspetta se non agiamo più rapidamente, se non investiamo nella difesa e non continuiamo a sostenere l’Ucraina”.
Evidentemente, non siamo davanti a un discorso ragionevole, ma al tentativo di alimentare una paura istintiva e irrazionale.
L’analista britannico Anatol Lieven, certamente un “moderato” nell’attuale panorama europeo, ma tutt’altro che russofilo, si è chiesto se Rutte davvero creda a ciò che dice.
“Se non ci crede”, ha scritto Lieven, “allora sta deliberatamente mentendo agli elettorati democratici occidentali, e avvelenando il dibattito pubblico”. Se invece dovesse crederci, sarebbe ancor più pericoloso, ha concluso l’analista britannico, perché dimostrerebbe che le élite europee “sono cadute in una condizione di isteria paranoica, impermeabile ai fatti e alla razionalità”.
Lieven osserva che la Russia ha sempre cercato di dissuadere la NATO dall’intervenire direttamente in Ucraina per scongiurare il rischio di un’escalation candidata a sfociare in un conflitto nucleare.
Sarebbe dunque insensato per Mosca attaccare l’Alleanza Atlantica con l’effetto di ricompattare il frammentato fronte occidentale e di aumentare vertiginosamente quel rischio che finora i russi hanno cercato di evitare.
Il discorso di Rutte non è però un caso isolato. La Strategic Defence Review della Gran Bretagna afferma che il paese deve essere “preparato a una guerra di alta intensità e di lunga durata”, e che la capacità di deterrenza britannica dovrebbe “permeare ogni aspetto della società”.
Il principale autore di quel documento, George Robertson, membro della Camera dei Lord, ha affermato che “se la Russia ha lo spazio per ricostituire le sue forze armate – e lo sta già facendo – […] allora è chiaro che il resto dell’Europa è in pericolo”.
Pur definendo la Russia come una minaccia strategica per l’intera Europa, alquanto contraddittoriamente egli descrive Mosca come un paese in crisi economica e demografica.
Robert Skidelsky, anch’egli membro della Camera dei Lord, definisce le tesi del suo collega come “un classico caso di inflazione della minaccia – o, in termini meno gentili, di paranoia”.
Resta il fatto che simili posizioni sono molto diffuse, se non dominanti, all’interno delle élite politiche europee. E chi osa contraddirle, come ha fatto l’analista Jacques Baud, ex colonnello dell’esercito svizzero ed ex consigliere NATO, rischia di vedersi sottoposto a sanzioni e impossibilitato ad accedere ai propri conti bancari.
Nel suo discorso di Berlino, Rutte ha affermato che dobbiamo aumentare le spese per la difesa e continuare ad appoggiare l’Ucraina al fine di proteggere la nostra “libertà, […] le nostre società aperte, le nostre libere elezioni, e una stampa libera”.
Ma stranamente nelle nostre società così libere non c’è spazio per critiche argomentate come quelle di Baud.









































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