Ridotto a “insopportabile leggerezza delquotidiano”?
Il comunismo nel buio (15)
di Ennio Abate
Ho ritrovato questa mia nota polemica del 1995. Riguarda uno scritto di Luciano Amodio, letto quando frequentavo la redazione milanese di Manocomete. Conferma – oggi cosa evidente e amara – che lo “spostamento”, teorizzato da un’area della intellettualità di sinistra nella Milano degli anni ’90, era un abbandono definitivo della questione del comunismo.
* * * *
1. Meglio morto che ridotto a Quotidiano. Meglio bandire la parola comunismo dal vocabolario piuttosto che triturare “la Cosa”, “la Causa”, “la Possibilità”, facendo così del comunismo – da secoli (da sempre, forse) questione di profondità – una questione “di superficie”.1 (E col massimo rispetto per il Quotidiano – s’intende – che “puro” appare mostruoso quanto il “puro” comunismo!). Così vorrei sintetizzare la mia prima, sconsolata e polemica, impressione dopo la lettura di «Il comunismo o “l’insopportabile leggerezza” del quotidiano» di Luciano Amodio (Manocomete, 1, giugno 1994).
2. Col rischio di apparire custode di ortodossie o amministratore, da nessuno delegato, di lasciti storici, pongo un problema: il comunismo è innegabilmente ridiventato un’incognita, una questione sprofondata. Ma – fossimo nell’epoca della morte del comunismo o – come altri sostengono – del suo massimo occultamento – come di esso si deve parlare? Lo consideriamo ancora tra le questioni “di profondità”?
Perché non mi pare affatto una questione “di superficie”. E vorrei che lo affrontassimo da palombari. O almeno da archeologi (se lo classifichiamo fra le “civiltà sepolte”). Anche su questo argomento, perciò, da Manocomete mi sarei aspettato, certo, uno spostamento – come scrive Majorino nell’Avvio- “dal campo tanto caotico, quanto amministrato che le meccaniche culturali e pseudoculturali ininterrottamente costituiscono”. Lo spostamento di Amodio per sfuggire il “colorito millenaristico (del comunismo) nella nebulosa culturale italiana”, mipare rientrare, invece e per vie traverse, proprio in una meccanica di liquidazione.
3. Vado con ordine e faccio una premessa, perché il saggio di Amodio eccede tanto in finezze terminologiche e dotte allusioni che – per intenderlo – mi sono imposto una traduzione in volgare di massa. Il suo succo, infatti, del suo discorso a me pare questo: persino Bobbio permane in un atteggiamento di tenerezza verso un concetto di comunismo, viziato di “millenarismo”2 e lontanissimo dal pensiero di Marx (quello dei Grundrisse), al quale viene riconosciuto il merito di aver inteso “il lavoro come bisogno”. Oggi, però, “col mutamento generazionale, genetico e ideologico, il lavoro non è più fondamento dei rapporti fra gli uomini”;3 e, invece della “novità dei rapporti umani” auspicata da Fortini e altri “millenaristi” come lui, ci troviamo dentro una società disossata, che amministra “puri rapporti umani” di utenti e consumatori. Non ambiva proprio a questo il comunismo? Ebbene, l’abbiamo ottenuto. E in forma di “insostenibile leggerezza del quotidiano”, cioè senza il “fastidio della compassione” e senza neppure il “senso di responsabilità”. Crollato il principio proprietario, “l’economia come sistema degli scambi rimane senza regole”. E, di fronte al “disastro comunista”, al “fallimento dell’ultima orgogliosa torre babilonese”,4 non ci resta che auspicare un ritorno a fondamenti aristotelici: media, norma e attesa dei “migliori”.5
4. Questa liquidazione del comunismo (e non solo di quello “millenaristico”), tramite addirittura il Marx dei Grundrisse, è accettabile? Ne dubito ed elenco un po’ di motivi:
– il Marx di Amodio somiglia troppo a un nobile apologeta del Lavoro (non dico a un sindacalista CGIL!);
– la critica del Lavoro (sotto Capitale, che è diventato ormai l’Innominato) con le annesse utopie di un Lavoro liberato, se non del Non-Lavoro, qualche connessione dovrebbe pur avercela anche col Marx dei Grundrisse (e il comunismo);
– il “puro quotidiano” (esiste poi?), che Amodio sembra attribuire al comunismo, lo vedrei operante – come ideologia – sia nelle esperienze di “comunismo reale” sia – vista la somiglianza sfacciata – in quelle del nostro quotidiano metropolitano;
– può darsi che nel corso del ‘900 il Capitalismo (e la Democrazia) si sia così infettato del virus del comunismo da avercelo realizzato a livello mondiale sotto i nostri occhi, magari in forma degradata. Ma allora perché prendersela esclusivamente col comunismo e coi “millenaristi”? Attacchiamo, quantomeno capitalisti e millenaristi insieme, il Padrone e il Servo, no?
– in sostanza, dobbiamo davvero condannarci – riconoscenti e rassegnati – a ripensare un’Etica del Lavoro (con annessa, e inevitabile, proprietà privata, che permetterebbe ancora misura e scambi)?
5. Queste rozze – me ne accorgo – obiezioni tradiscono una sobria speranza: che si possa affrontare in altro modo questo discorso. E, per cominciare, suggerirei di abbandonare o almeno di problematizzare l’immagine di comunismo tutta da guerra fredda su cui Amodio ripensa la storia del ‘900.6 E di svecchiare anche la stessa definizione, datata, di comunismo che egli ha utilizzato.7
6. Quanto al Quotidiano – rispettabilissimo concetto – non vorrei che si confondesse col suo gemello o doppio ideologico odierno: il Postmoderno. Alcuni studiosi (Jameson, Harvey, ad esempio) danno per certa una condizione postmoderna, ma trovano indigesta l’ideologia postmoderna che l’avvolge. E, per quel che capisco, concordo. Non mi pare che tale distinzione eluda i problemi d’oggi. Eventi imprevisti e sconvolgenti hanno mutato i paesaggi, la nostra azione possibile e impongono ripensamenti, revisioni, drastiche pulizie nei cassetti dell’ideologia, dei saperi, delle scienze di riferimento. Ma l’implosione del famigerato “Teatro (comunista) di Mosca” , su cui, pur in modo unilaterale, insiste Amodio, non sta spingendo un po’ tutti ad arruolarsi in fretta nel “Teatro [postmoderno] di Oklahoma”, che pur si svela fatiscente e zeppo di spettacoli cannibalici? In altri termini, il tema del Quotidiano (su cui ha avuto inizio la riflessione di Manocomete) non ci sta facendo slittare in un ambiguo connubio con l’ideologia del Postmoderno, in attesa – magari disincantata – della “società trasparente” alla Vattimo?
7. E poi insisto: il Quotidiano “puro” non ce l’avrebbe regalato (solo)il comunismo. Cerchiamo, per favore, posizioni meno unilaterali. Ad esempio, Marcello Cini, nel suo recente bilancio su scienza e tecnologia nelle società complesse, scrive: “La fabbrica dell’ottimismo ha chiuso i battenti. Si è rotta la macchina che produceva certezze: la certezza delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Umanità, la certezza del Sol dell’Avvenire, la certezza del nuovo paradiso terrestre che la Scienza e la Tecnica ci promettevano di ritrovare….Il paradiso nel qualecredevamo…è svanito: più presto ce ne accorgeremo, meglio sarà”.8
8. Non è caduta solo l’ultima Torre di Babele Comunista, insomma. Prendiamo pure atto che il comunismo ha perso l’aura, vivaddio! Ma, se Amodio dal corpo a corpo con il tetragono Lukács9 della sua giovinezza e con le residue perplessità di Bobbio, per evitarci le ebrezze e i facili cortocircuiti fra comunismo e Quotidiano, ci riconduce sotto l’egida di babbo Aristotele, mi viene la tremarella. Perché a me Aristotele pare un “anticomunista” all’antica, se fustigò i “millenaristi” anti litteram del suo tempo antico, che miravano alla “spartizione egualitaria delle terre”.
Amodio si scandalizzerà: Ma come! Quelli non afferravano che l’ “incremento della popolazione” li avrebbe costretti a una spartizione perpetua e che, così facendo, avrebbero inceppato la “concezione etica e culturale della polis, basata anche sulla misura”. E più avanti, mi farà notare che: “Oggi lo stesso problema si ripropone per un ordinamento stabile dell’occupazione, estraneo al parassitismo dell’indeterminato posto di lavoro”.
8.E, no! Risparmiateci questi ritorni all’Antico! Oggi i nipotini di Aristotele, qui da noi o all’ONU, non dicono forse – cinesi (epoca Deng) plaudenti – che tutto sta nel fissare “un tetto della popolazione mondiale”? (Insinuerei: dei “senza tetto”, però)? Una “misura” – ohibò! – ci vuole sempre. Allora ci volle per realizzare la “concezione etica della polis”. (Insinuerei: degli aristoi, però). Oggi per il “progresso economico”. (Insinuerei: del Capitale). E, ovviamente e “classicamente” – un tocco di classico mai guasta nella cultura metropolitana – ci vorrà “compassione” e “senso della casualità dei destini umani”.
9. In queste considerazioni di Amodio annuso sgradevoli odori classicisti. E, deluso, smetto. Non prima di aver ancora domandato (ad Amodio, a noi, ad altri) e in compagnia non solo dei più patetici “rifondatori” del comunismo, ma in compagnia di quelli che, pur avendo quasi dismesso il termine comunismo, parlano comunque di Esodo (Virno e la rivistaLuogo comune), e persino dello sfingico (e saggio nella sua perplessità) Norberto Bobbio: ma davvero non è più pensabile una Cosa che non sia il Quotidiano, questo Quotidiano? Davvero, se la democrazia (“quella democrazia vincente…di massa american-tocquevilliana”) “non può pretendere di più”?10 Davvero noi e tanti altri non possiamo pretendere di più?







































Add comment