E le banche? Non pagano mai
di coniarerivolta
Dopo aver descritto le riforme in tema di IRPEF, continuiamo a descrivere alcune delle altre misure fiscali presenti, o quantomeno annunciate, nella legge di bilancio.
Fra le varie misure la parte del leone, anche nel dibattito mediatico, l’ha fatta senz’altro la questione “contributo delle banche”. Per capire esattamente di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro, anzi due.
Il tema di un maggior contributo del sistema bancario al gettito fiscale emerge nel biennio 2022-23. A seguito dell’ondata inflattiva e conseguente aumento dei tassi di interesse dalle banche centrali, aumenta a dismisura il margine di interesse delle banche commerciali -il divario fra interessi attivi e passivi- una delle componenti fondamentali dell’utile complessivo. Come abbiamo già raccontato, un periodo d’oro per i profitti del sistema bancario.
Ne segue che nella primavera del 2023, il Governo Meloni annuncia in pompa magna una tassazione sugli “extraprofitti” delle banche, identificati appunto come l’incremento di questo margine di interesse rispetto agli anni precedenti. Su tale incremento si decide di imporre un prelievo del 40%. In poche settimane, di fronte alle proteste delle banche, il Governo fa dietrofront: invece di versare quanto dovuto, le banche possono decidere a loro discrezione di accantonare un importo pari a 2,5 volte l’imposta teorica in una riserva non distribuibile. Se i fondi accantonati in questa riserva saranno poi distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, allora si tornerà a dover pagare l’imposta del 40%.
Ovviamente tutte le banche optano per l’accantonamento a riserva. Si badi bene, non si tratta solamente del banale “meglio fare altro che pagare le tasse”, infatti le banche sono in ogni caso comunque chiamate ad una continua patrimonializzazione dove devono accantonare a riserva una parte degli utili in virtù dei controlli cui l’attività creditizia è ordinariamente sottoposta. Insomma, come avevamo già ipotizzato ai tempi, la tanto discussa “imposta sugli extraprofitti” è stata trasformata a vantaggio delle banche stesse, destinando gli “extraprofitti” a copertura delle loro ordinarie esigenze operative.
Seconda puntata, siamo nella legge di bilancio per il 2025 (quella dell’anno scorso): il Governo torna alla carica con “il contributo delle banche”, ma stavolta la farsa è ancora più marcata: dopo un breve dibattito, il contributo in questione si risolve nel mero rinvio di qualche anno da parte delle banche della possibilità di detrarre – ai fini fiscali – alcune componenti negative, che comunque saranno recuperate più avanti. In pratica il settore bancario paga oggi qualche (minima) imposta in più, ma ne pagherà di meno in futuro: nella sostanza un prestito allo Stato da parte delle banche, insomma non una gran cosa, visto che fare prestiti è (o dovrebbe essere) proprio il loro mestiere.
Arriviamo infine alla legge di bilancio attuale, dove il rapporto banche/Stato si fa in tre, nel senso che le norme che riguardano le banche sono per lo meno tre.
La prima norma (art. 20 della bozza in discussione in Parlamento) si ricollega all’imposta sugli extraprofitti del 2023. Incredibilmente, sembra iniziare bene, in quanto dice che – a partire dal 2028 – ogni volta che una banca distribuirà dividendi ai suoi azionisti si presumerà che questi dividendi provengano dai famosi extraprofitti accantonati. Scatta quindi finalmente l’imposta del 40%. Dopo anni di proclami vuoti sul tema, un attacco del governo Meloni alle banche? Chiaro che no, infatti si svela subito l’inganno: le banche hanno la possibilità di “affrancare” le riserve in questione (cioè, renderle uguali alle riserve ordinarie) pagando un’imposta con un’aliquota ridotta, pari al 27,5% nel 2026 o del 33% nel 2027. Nella sostanza, un generoso sconto di oltre 10 punti percentuali rispetto all’imposta che era stata annunciata nel 2023.
La seconda norma (art. 21) è l’unica, forse, che aumenta un pochino il prelievo sulle banche, ricorrendo al trucchetto di alzare – solamente per loro – l’aliquota IRAP, ovvero l’imposta pagata su base regionale. Rimane comunque di un ammontare irrisorio a fronte degli ultimi anni di profitti fuori dal normale e sulle spalle della collettività.
La terza e ultima norma (art. 17), non tassa le banche ma le rimborsa! A causa della condanna dell’Italia presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha giudicato incompatibile con il mercato interno una precedente norma italiana in tema di tassazione del settore finanziario, lo Stato dovrà rimborsare molti istituti di credito per precedenti imposte ritenute illegittime. Al di là del merito della vicenda, è lo stesso Governo a fare un collegamento fra questa vicenda e quella della “imposta sugli extraprofitti” in quanto le somme dovute (anche se, come detto, “scontate”) potranno essere compensate con i rimborsi cui le stesse banche hanno ora diritto. Dette in parole più semplici: l’imposta sulle banche – per larga parte – servirà a finanziare un rimborso per le banche stesse, con buona pace del presunto contributo di solidarietà!
Lasciando ora da parte gli eccessivi tecnicismi, cosa ci insegna tutta questa storia? Diverse cose: prima di tutto che – per l’ennesima volta – il settore bancario contribuisce al gettito fiscale in misura non proporzionata rispetto ai profitti realizzati, e il contributo che gli viene richiesto è definito dallo stesso Giorgetti niente più che un pizzicotto. Una seconda considerazione è che – in tema di fiscalità – non basta inventarsi soluzioni tampone e originali (quali “extraprofitti” e “contributo di solidarietà”) occorre affrontare il problema alla radice, e ripensare un sistema fiscale impostato a veri criteri di progressività, riequilibrando (almeno) il prelievo fiscale dal lavoro con quello derivante dagli altri tipi di reddito, a iniziare da quello d’impresa e da capitale. Infine, soprattutto nei settori più strategici (e il mercato del credito è senz’altro uno di questi) l’intervento dello Stato non può e non deve limitarsi a quello della tassazione, ma tornare forme di presenza ben più incisive, a partire da una maggiore e migliore regolamentazione finalizzata ai bisogni collettivi e all’intervento diretto dello Stato stesso, tramite imprese pubbliche e altre forme di partecipazione diretta nell’economia.
Il governo riesce ancora una volta a fare ciò che gli riesce meglio, un gran frastuono senza poi nei fatti far nulla. Un’accesa discussione sulla tassazione sulle banche, ma una legge di bilancio in cui nei fatti alle banche si toglie poco, e si rende quanto tolto. Ma questo baccano a che fine? A distogliere l’attenzione dall’ennesima manovra di guerra e austerità.







































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