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effimera

Paolo Virno. Il linguaggio della moltitudine

di Nadia Cavalera

C’è un punto, in ogni pensiero che conti davvero, in cui la vita e la teoria smettono di essere due linee parallele e si curvano l’una dentro l’altra.

Paolo Virno ha vissuto esattamente in quella piega.

Filosofo napoletano, militante del ’68 e del ’77, detenuto politico, docente e scrittore ironico, Virno non ha mai concepito il pensiero come contemplazione, ma come gesto, pratica, forma di vita.

Per lui la filosofia non serviva a rendere il mondo “un po’ migliore”, ma a rovesciarlo – a pensarlo altrimenti, fino a cambiarne la grammatica.

Nato a Napoli nel 1952 e cresciuto tra Genova e Roma, attraversò da giovanissimo le grandi lotte operaie e studentesche.

Entrò in Potere Operaio dopo le occupazioni di Torino del ’69, e nel movimento del ’77 riconobbe un momento di svolta epocale: non una rivoluzione sconfitta, ma un cambio di paradigma – “che i più spregiudicati compresero e gli altri no”.

Nel 1979 fu arrestato nel cosiddetto Processo 7 aprile, accusato ingiustamente di partecipazione a un’organizzazione eversiva. Passò anni tra carceri speciali e domiciliari, fino all’assoluzione nel 1987.

Fu proprio in quegli anni di reclusione che il suo pensiero prese forma: nelle celle di Rebibbia e Palmi iniziò a interrogarsi sul linguaggio, la memoria, l’azione. Da quell’esperienza nacquero riviste come Metropoli e Luogo Comune, dove una generazione di intellettuali tentò di pensare il comunismo dopo la fabbrica fordista.

 

L’animale loquace

Al centro della sua filosofia c’è una domanda apparentemente semplice e in realtà vertiginosa: che cosa distingue l’uomo dagli altri viventi?

La risposta – il linguaggio – è per Virno tutt’altro che banale.

L’essere umano è l’“animale loquace”, l’unico che possa articolare suoni dotati di significato. Ma da questa facoltà elementare discendono tutte le forme del vivere comune: il pensiero, la cooperazione, la politica, la libertà, perfino la menzogna.

Nei suoi libri Quando il verbo si fa carne e Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Virno descrive la soggettività come anfibia: ogni “io parlo” convive con un “si parla”.

Le parole che pronunciamo ci appartengono e, nello stesso tempo, ci superano: vengono da una lingua pubblica, impersonale, che ci precede e ci unisce.

Il soggetto non è mai un monolite, ma un intreccio instabile di singolare e comune, irripetibile e seriale.

Non c’è linguaggio senza comunità, ma non c’è comunità senza differenza: in questa tensione tra il dire comune e il dire proprio si gioca tutta la sua antropologia filosofica.

 

Grammatica della moltitudine

Con Grammatica della moltitudine (2003), Virno dà un nome politico a questa antropologia: la moltitudine.

Riprendendo Spinoza contro Hobbes, distingue la moltitudine dal popolo.

Il popolo è il corpo unificato che trova la propria identità nello Stato e nella volontà generale; la moltitudine è invece l’insieme dei molti che cooperano senza fondersi, che agiscono insieme pur restando singolari.

La modernità ha privilegiato la forma del popolo – centripeta, statale, rappresentativa – cancellando la moltitudine.

Ma il mondo contemporaneo, con il suo lavoro cognitivo e comunicativo, la riporta in primo piano.

Nel capitalismo postfordista, infatti, il linguaggio e il sapere sono diventati forza produttiva: ciò che crea valore non è più la macchina, ma l’intelletto collettivo, quello che Marx chiamava general intellect.

La moltitudine è allora la figura politica di questo nuovo modo di produrre e di vivere: non una classe, ma una costellazione di soggetti parlanti, di individui sociali che condividono un sapere comune.

Eppure, come mostra Virno nei testi più recenti, questa moltitudine non è una somma di individui isolati, ma l’esito di un processo di individuazione.

Ogni singolarità nasce da un fondo comune – biologico, linguistico, storico – che Simondon chiamava realtà preindividuale.

L’individuo, perciò, non è il punto di partenza, ma il risultato sempre provvisorio di una derivazione dall’universale.

Per il popolo l’universalità è una promessa; per la moltitudine è una premessa.

L’uno verso cui tende il popolo è lo Stato; l’uno alle spalle della moltitudine è il linguaggio, l’intelletto, la specie.

 

Il soggetto anfibio e l’individuo sociale

Virno, seguendo Simondon e Vygotskij, mostra che ogni soggetto conserva dentro di sé una quota di non ancora individuato, un residuo di realtà comune.

Siamo esseri anfibi, sospesi tra il “si” impersonale e l’“io” irripetibile.

La percezione, il linguaggio, il pensiero collettivo sono dimensioni preindividuali che ci abitano: non appartengono a nessuno e a tutti insieme.

Proprio questa compresenza può diventare sia fonte di angoscia (quando non riusciamo a integrarci nel mondo) sia di libertà (quando riusciamo a trasformare il comune in gesto singolare).

Da qui la figura marxiana dell’individuo sociale: colui che incarna questa miscela di universale e particolare.

Nel capitalismo maturo, dice Virno, la coincidenza tra singolarità e comune diventa visibile: la forza-lavoro stessa è l’energia vitale e linguistica della specie.

La moltitudine è dunque l’insieme di questi individui sociali, soggetti che condividono il pensiero, la parola, la cooperazione, e che da tale condivisione traggono la propria singolarità.

Non il contrario.

 

Il collettivo come individuazione

Un altro punto chiave del pensiero di Virno (ripreso da Simondon che contribuisce a diffondere in Italia) è che il collettivo non dissolve l’individuo, ma lo affina.

L’agire comune non riduce la singolarità: la potenzia, la rende più definita.

Nel gruppo, nell’azione pubblica, ciascuno può individuare in modo più preciso il proprio fondo impersonale.

La cooperazione è una seconda individuazione: il luogo in cui la parte preindividuale che portiamo in noi si realizza e prende forma.

La moltitudine, così intesa, non ha bisogno dello Stato né della rappresentanza: è una democrazia diretta delle singolarità.

Non stringe patti con un sovrano perché è già, in sé, una comunità di esseri parlanti che condividono un linguaggio e un intelletto comune.

Non è anarchia ingenua, ma una forma nuova di istituzione del comune: né privata né statale, radicata nella cooperazione quotidiana.

 

Il pensiero dell’esodo

Virno non sognava la presa del potere.

Credeva piuttosto in una politica dell’esodo: uscire attivamente dal dominio, senza smettere di agire.

L’esodo non è fuga, ma invenzione di nuove forme di vita fuori dal Capitale e dallo Stato; una diserzione produttiva, che trasforma il rifiuto in creazione.

In un mondo dominato dalla potenzialità infinita — del linguaggio, del sapere, dei “perché del perché” — solo la decisione, il taglio netto, può restituire senso all’azione.

“Decidere”, scriveva, “significa troncare, spezzare, interrompere il regresso.”

La filosofia, per lui, era una pratica sobria e vitale: non aristocratica né consolatoria, ma un modo per continuare a respirare dentro la complessità del presente.

 

Memoria, rito, presenza

In Il ricordo del presente (1999), Virno analizza la malattia del tempo contemporaneo: l’ipertrofia della memoria.

Viviamo in un eterno déjà-vu, prigionieri di un passato fantasmatico che occupa il presente e impedisce l’azione.

Il compito del pensiero è allora quello di ricordare il presente, non ripetere il passato.

In dialogo con Ernesto De Martino, riflette sul rito come pratica che restituisce presenza di fronte alla crisi: un modo per ricucire la frattura tra umano e non-umano, tra linguaggio e caos.

Pensare, in questo senso, è un gesto antropologico prima ancora che teorico: un atto di sopravvivenza simbolica.

 

Eredità

Un maestro, Virno, il cui pensiero era corpo, voce e gesto.

Ogni parola che pronunciava aveva la densità di una prassi.

Nel 2022, i suoi studenti lo salutarono alla penultima lezione, perché l’ultima — per uno come lui — non poteva esistere.

Al manifesto, dove scrisse a lungo, lo ricordano come “filosofo comunista e pokerista, militante senza pentimenti, uomo colto anti-intellettuale”.

Chi lo ha conosciuto parla di un sorriso malinconico e di una mente lucidissima, capace di un’ironia disarmante.

Un maestro che non cercava discepoli, ma interlocutori.

La sua filosofia resta una delle più originali del pensiero italiano contemporaneo, accanto a quella di Negri, Agamben ed Esposito, ma più vicina al linguaggio comune, più concreta, più terrena.

Virno ha saputo pensare la politica a partire dal linguaggio, e la libertà a partire dalla cooperazione.

 

Una grammatica per la libertà

Leggere Virno significa imparare una nuova grammatica della libertà.

Non un sistema chiuso, ma un modo di orientarsi nel mondo globale e linguistico in cui viviamo.

Il suo anti-essenzialismo, la fiducia nella moltitudine, l’idea di istituzioni non statali e di una felicità condivisa restano strumenti preziosi per un’epoca che confonde la paura con l’identità.

“Chi dice: la lotta al capitalismo può serenamente ignorare l’istanza della felicità, farà ben poco contro il capitalismo.

Chi dice: occupiamoci della felicità, non più della lotta al capitalismo, della felicità non si occuperà mai.”

In questa frase, come in tutta la sua opera, si condensa il senso del suo pensare: una filosofia che tiene insieme etica e desiderio, teoria e prassi, singolarità e comune.

Una filosofia che ci insegna che la libertà comincia dal linguaggio — e da come, insieme, impariamo di nuovo a dire “noi”.

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Comments

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Franco Trondoli
Saturday, 22 November 2025 18:26
Interessante ok. Queste questioni sono conosciute.
Però il guaio, secondo me, è che il divenire moltitudine è stato plasmato dal divenire del capitale..il quale ha creato moltitudini indifferenti ed ovviamente de-socializzate..che non possono proprio uscire dalla relazione che hanno con il capitale molecolare..(ma centralizzato) Postfordista. Il Capitalismo Fordista invece, a suo modo, Socializzava. Per quello che è venuta fuori la Socialdemocrazia. Anche se con la prima e seconda Guerra Mondiale.
" Politica dell'esodo.." non si sfugge dalla forma merce..se non lavori ,( in senso mercificato) o non sei "assistito", non mangi. La "Coscienza" , non si forma dialetticamente, è un prerequisito "ante" alla relazione di merce. Il " soggetto" non esiste..esso è la relazione impersonale che il genere umano ha con i mezzi di produzione.
Dentro la relazione mercificata (feticistica) del capitale , c'è solo il collasso progressivo. Quello che succederà ( come e se il rapporto di dominazione potrà cambiare) non si può prevedere teoricamente. Sarà solo il frutto delle necessita e della prassi in tempo reale..momento dopo momento..ma non lo deciderà nessuno. Il caso..e la necessità.
La mia è solo una veloce impressione..molto probabilmente del tutto errata.
Cordiali Saluti
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