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Roma, il centrosinistra e il mito della “cura condivisa”

Quando il neoliberismo si traveste da partecipazione civica

di Giuseppe Libutti

“L’affidamento in adozione è uno strumento attraverso il quale Roma Capitale promuove la conservazione e il miglioramento del verde pubblico, consentendo ai cittadini, singolarmente o in forma associata, di occuparsi della gestione, manutenzione e cura delle aree verdi comunali.” Così recita il sito ufficiale del Comune. In pratica, cittadini e associazioni possono presentare domanda per “adottare” alberi, aiuole e spazi verdi, offrendo gratuitamente un servizio alla città.

La chiamano “cura condivisa del verde urbano”, la presentano come un’opportunità per cittadini “attivi” e “responsabili”. Ma la realtà è ben diversa: Roma Capitale sta gradualmente sostituendo servizi pubblici essenziali con attività svolte gratuitamente dai cittadini. Compiti che dovrebbero spettare ad AMA e al personale comunale retribuito vengono delegati alla popolazione senza compensi, senza tutele e senza una vera pianificazione.

Ciò che l’amministrazione propone come un modello virtuoso di partecipazione civica si rivela, nei fatti, una sofisticata espressione del neoliberismo in salsa progressista: trasformare un dovere pubblico in un gesto volontario, sostituire lavoro qualificato con prestazioni gratuite, nascondere l’esternalizzazione dei servizi dietro parole rassicuranti come “comunità”, “bene comune”, “cura condivisa”.

Gli strumenti utilizzati — adozioni di aree verdi, patti di collaborazione, accordi per la gestione dei beni comuni — vengono raccontati come innovazioni democratiche.

Ma la realtà è semplice: questi patti non integrano i servizi pubblici, li rimpiazzano. Servono a coprire la mancanza di investimenti, organico e competenze, trasformando la partecipazione in un tappabuchi permanente.

L’istituto del patto di collaborazione era nato per affiancare la pubblica amministrazione. Oggi viene piegato a un altro scopo: legittimare l’arretramento del pubblico, sostituendo figure professionali con cittadini volenterosi a cui si chiede di colmare i vuoti generati dall’assenza di assunzioni e programmazione. È partecipazione solo nella forma; nella sostanza è dismissione del ruolo pubblico.

Il risultato è una città che appare “partecipata” solo perché l’amministrazione si defila. Roma sembra funzionare grazie ai cittadini, ma è l’ente pubblico a non funzionare. Dietro la retorica della “cura condivisa” c’è un messaggio politico chiarissimo: la città ve la gestite voi, gratis, mentre il Comune si limita a celebrarne la narrazione.

Questa operazione, peraltro, strizza l’occhio a una certa estetica radical chic, a un edonismo di sinistra che ama vedersi come parte di una comunità virtuosa, impegnata, “civica”, ma che finisce per legittimare l’idea che i servizi pubblici siano un optional e che il volontariato debba sostituire il lavoro strutturato e retribuito. È una seduzione culturale tanto sottile quanto politica: trasformare un fallimento amministrativo in un rito identitario in cui sentirsi “buoni cittadini”.

Ma il verde urbano non è un’espressione estetica né un passatempo per chi può permetterselo. È un pilastro della qualità della vita, un elemento centrale per affrontare inquinamento, isole di calore, disuguaglianze territoriali. In una città come Roma — affollata, inquinata, sempre più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico — la cura del verde deve essere parte di una strategia pubblica chiara, con investimenti, personale, competenze e responsabilità istituzionali.

Delegare tutto questo al volontariato non è partecipazione: è deresponsabilizzazione politica. È il modo in cui l’amministrazione si sottrae ai propri compiti fondamentali, trasformando la mancanza di servizi in una narrazione virtuosa. È la politica che abdica a se stessa e pretende che siano i cittadini a colmare i suoi vuoti.

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