Paolo Virno filosofo dell’avvenire
di Paolo Vernaglione Berardi
Per Nietzsche i filosofi dell’avvenire sarebbero stati quelli che, avendo attraversato la catastrofe della modernità, avrebbero vissuto il tempo nuovo del pensiero. Paolo Virno è stato e sarà filosofo dell’avvenire. Lo è stato perché ha praticato l’autonomia dell’intelletto e ha identificato in pieno l’intelletto con la prassi. In questo è consistita la sua maestria. Paolo ha vissuto fino in fondo e fino alla fine la seconda metà dello scorso secolo e in tre momenti tra fine secolo e il secondo decennio di questo, è stato artefice di una teoria politica permanente.
Il primo momento è stato nel 1977, quando chi aveva 18 anni era un “cane sciolto”, leggeva Lotta continua e a volte Rosso e senza conoscerlo riconosceva un’appartenenza, una passione e una rottura. L’appartenenza istintiva era quella a una storia iniziata nei primi anni Sessanta e culminata nel ’68; ed era quella a una intellettualità di massa che, come aveva mostrato Michel Foucault proprio nell’annus terribilis, archiviava l’intellettuale universale e trovava nella metropoli il campo specifico della prassi, dei conflitti e dell’esodo dalla società del lavoro. La passione era quella del personale che è politico, e lo sarebbe sempre stato, ed era la passione di dover fare la cronaca del presente, di registrare con la parola scritta quel presente che Paolo indicava come il tempo storico in cui cogliere l’occasione rivoluzionaria. La rottura è stata quella di quel ‘77 fenomenale che Paolo riconosceva come il momento di esplosione del capitalismo industriale e l’avvento sulla scena della storia di nuovi soggetti sociali che si liberavano dal lavoro, dalla delega e dalle politiche d’ordine e giudiziarie del PCI che si faceva stato e dei sindacati compatibili e concertanti.
All’epoca avevamo in testa il successo e sapevamo quanto era successo a Radio Alice. Dal ’77 al ’79, dalle fanzines alla rivista Metropoli, dal “7 aprile” al successo delle radio libere che sostituivano volantini e tat-ze-bao, iniziavano gli anni del nostro scontento che misuravano l’ampiezza della sconfitta, facendoci apprendere l’arte dell’intervento su riviste e giornali nell’imminente terremoto della modernizzazione. Paolo insisteva su questo: non l’89 e il crollo del muro è stato il principio epocale di estensione del capitalismo neoliberale, ma il 1980, la marcia dei 40.000 capetti e impiegati FIAT che realizzava la coscrizione obbligatoria di quell’intelletto autonomo in cui si erano generati i nuovi soggetti sociali non garantiti e sottoproletari, velocemente mutati in precariato e lavoro flessibile, con produzione just-in-time e sfruttamento intensivo. Questo è stato il principio di verità della rivoluzione conservatrice.
Il secondo momento in cui il pensiero di Paolo ha costituito una circoscrizione filosofico-politica è stato tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Il quotidiano il manifesto era, per dirla ancora con Foucault, il luogo magistrale di un “giornalismo filosofico” magnifico e inattuale. Le pagine della “talpa”, laboratorio alto dello spirito del tempo che ha sconvolto le categorie teoriche marxiste, e quindi la rivista Luogo Comune, registravano i sentimenti dell’aldiqua, sedimentati nella temperie post-fordista della modernizzazione neoliberale e dell’intelletto generale: opportunismo, cinismo, disincanto. Dagli ultimi anni del decennio tritatutto ai primi dell’innovazione tecnologica, chi dall’esterno leggeva il giornale, vedeva in Paolo l’alfiere del controdiscorso che disfaceva lo stanco, inadeguato e tronfio storicismo continuista e vedeva con chiarezza la possibilità di una genealogia contundente: il “frammento sulle macchine” e Krahl, l’analitica della chiacchiera e il nesso che lega i Manocritti economico-filosofici a Wittgenstein, Simondon e il rapporto tra moltitudine e singolarità. Per chi scrive, la memoria di quelle giornate va al bar di Via Tomacelli e al ristorante vicino, quando, collaborando alla sezione “spettacoli” del giornale, capitava di incontrarci, come anche alle riunioni della rivista in cui si faceva del “ridere e detestare” una cosa seria.
Fu lunga poi la sequenza degli anni novanta e per quanto si elaborasse la sconfitta e si costituisse la ragione forte degli spazi sociali, – si accumulava nella riflessione un residuo impensato degli anni dei conflitti, della repressione e della vendetta di stato. Paolo indicava nella prassi delle forme di vita contemporanee la centralità strategica della facoltà di linguaggio. L’estensione capillare del capitalismo nelle fibre più intime della soggettività aveva forgiato il virtuosismo acrobatico delle moltitudini che opponevano il movimento alla dinamica corrotta della politica binaria stato-popolo. Tutto si giocava, e nel regime di guerra planetaria si gioca ancora, tra corpi e linguaggio, ed è il “tra” il nesso disgiuntivo in cui il verbo si fa carne. Così, il transindividuale è l’espressione del “tra”, congiunzione che destituisce, svuota e produce soggettività, non sostanze individuali.
Così, il terzo momento di costituzione filosofico-politica di cui Paolo è stato artefice, agli inizi degli anni duemila venne fuori la rivista più acuta e contrastiva che si potesse immaginare, Forme di vita. In sei numeri fluorescenti la rivista squadernava un progetto filosofico per il XXI secolo: la natura dell’“animale umano”, l’antropologia di Marx, la funzione del rito e del discorso, la conversione della teologia politica nell’“uso”, nella negazione, negli atti ordinari di parola e nel motto di spirito. Questi temi ruotavano intorno al nucleo igneo dei rapporti tra giochi linguistici e forme di vita. Forse anche per questo la rivista si estinse. In uno degli incontri in pausa caffè a Roma3, naufragò l’idea di continuare la rivista in altro modo, forse giustamente, per assenza delle condizioni minime: mancava un luogo comune, mancava l’altezza e la lunghezza di pensiero in grado di contrastare le passioni tristi, che sono, da sempre e proprio ora, individuali.
Nel pensiero di Paolo c’era Walter Benjamin. Non solo l’istantanea scattata al passato dal presente, non solo il balzo di tigre, ma anche l’elezione dell’“inappariscente” a sintomo dell’attualità e la tensione al limite di cristalline immagini dialettiche, la replica insistente dell’intreccio di storia e metastoria per rendere ragione della cattura dei corpi nella produzione di sé. E c’era, soprattutto, la realtà della filosofia, cioè farsi nella scabra pianura della verità. I suoi testi sono saggi di icastica lucidità che hanno demolito le pretenziose asserzioni dei filosofi puri, per lo più soggetti al maschile singolare, e di coloro che si autonominano pensatori. Pur non apprezzando il nomadismo filosofico, Paolo ne coglieva il profilo sovversivo e nel confronto con le proposizioni dell’immanenza assoluta, indicava il punto cieco in cui quel tema di fondo implode nella sua stessa materia. La sua opera esemplare ha aperto alla filosofia un campo di sapere possibile. I suoi ultimi saggi, sulla natura dell’animale loquace e sulla paralisi frenetica del presente, inaugurano un’archeologia del senso ancora da fare.
Nelle occasioni non frequenti ma cruciali a ESC, a Roma3 e casualmente fino a pochi mesi fa in un bar di quartiere, saliva l’emozione per aver avuto il privilegio di conoscere il “gigante gentile”. Ed era una gioia, per la cura generosa dell’amicizia che Paolo aveva, nel chiedere qual era il tono del pensiero che si riusciva a pensare e a dire, quale ritornello si cantava e in cosa si era impigliati.
Oltre alle recensioni ai suoi libri, disperse non si sa dove, che si proverà a ripescare, sono rimasti lo scooter in salita sulla circonvallazione, il bar in discesa sulla via larga e il suo passo con le sporte della spesa. Ricchi doni, oltre al viatico con cui percorrere il ricordo del presente, che è l’avvenire, e che, con Benjamin, consiste nell’“avere una totale mancanza di illusione nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa”.
Ciao Paolo.







































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