Gaza, pace che sembra genocidio
di Mario Lombardo
Il “piano di pace” per Gaza di Donald Trump, che sta per essere oggetto di voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, rimane un documento che non migliora di una virgola le prospettive di emancipazione del popolo palestinese, né tantomeno prepara un percorso credibile verso la creazione di uno stato sovrano e indipendente. Malgrado ciò, la proposta americana è appoggiata in pieno – almeno a livello ufficiale – da praticamente tutti i paesi arabi e musulmani, mentre lo stesso stato ebraico, che pure respinge fermamente alcune parti del piano, vede in essa il mezzo per facilitare il raggiungimento dei suoi obiettivi genocidi e di occupazione in una fase segnata dal rallentamento forzato dello sterminio iniziato all’indomani dei fatti del 7 ottobre 2023. Il progetto Trump viene quindi valutato con estrema cautela dalle forze palestinesi e della Resistenza in generale, poiché serve in definitiva a soddisfare gli interessi degli attori coinvolti dalla Casa Bianca nel processo in corso, nessuno dei quali coincide con le aspirazioni degli abitanti della striscia.
Il quotidiano iraniano in lingua inglese Tehran Times ha scritto domenica che il piano di Trump “funziona, in ultima analisi, da maschera diplomatica”, poiché fa riferimento al processo di “auto-determinazione palestinese per rassicurare i paesi arabi”, mentre, in realtà, “incorpora [nel processo] le necessità di sicurezza che riflettono le priorità di Israele”. Ognuno dei partecipanti alla farsa del “piano di pace”, in realtà, ottiene – o punta a ottenere – un vantaggio strategico. Per gli Stati Uniti, spiega ancora il Tehran Times, si tratta di “rafforzare la loro influenza [in Medio Oriente], facilitare la vendita di armi” e “posizionarsi come mediatori indispensabili”.
Tel Aviv, invece, pur “non dovendo fare nessuna concessione immediata, tiene vive le prospettive di normalizzazione” con i regimi arabi. Per questi ultimi, infine, il piano “offre un riconoscimento simbolico delle aspirazioni palestinesi, sia pure senza nessuna garanzia reale”, così da permettere loro di coprirsi le spalle sul fronte domestico per rafforzare l’alleanza con Washington e entrare in una partnership di fatto con Israele. Il regime di Netanyahu ha d’altra parte ripetuto in moltissime occasioni che non ci sarà mai nessuno stato palestinese. Addirittura l’ipotesi di dare alla collaborazionista e ultra-screditata Autorità Palestinese un ruolo nel governo di Gaza viene respinta da Israele, perché comporterebbe l’ammissione in linea di principio dell’esistenza di un’idea di sovranità o autogoverno.
Nella stessa ottica, Netanyahu avrebbe fatto pressioni in questi giorni sull’amministrazione Trump per espungere dalla bozza da votare al Consiglio di Sicurezza il riferimento alla creazione di un “percorso credibile” per arrivare a uno stato palestinese. Anche se questa condizione non avrebbe effetti pratici, ma serve, come già accennato, a dare qualche copertura ai paesi arabi che stanno assecondando i piani di Washington e Tel Aviv per la striscia, Israele non sembra disposto a vederla scritta in una risoluzione ONU. Su questo punto potrebbero esserci perciò frizioni tra i due alleati, come sono peraltro emerse, anche se soltanto sul piano tattico, in altri ambiti.
Bastone e carota per Netanyahu
Una questione attorno alla quale si nota qualche divergenza tra USA e Israele è il disarmo di Hamas, vale a dire il passo successivo, e in teoria cruciale, del cessate il fuoco implementato lo scorso mese di ottobre. La stampa israeliana ha ricevuto molto probabilmente indicazioni dal governo e dagli ambienti militari per rendere pubblico nel fine settimana il disappunto di Tel Aviv circa lo stallo dei negoziati per passare alla seconda fase del piano Trump. Gli Stati Uniti avrebbero infatti preso atto delle difficoltà nel costringere Hamas a consegnare le proprie armi. Difficoltà che pesano anche sulla creazione della forza internazionale di interposizione prevista dallo stesso accordo promosso da Washington, visto che vari paesi, che avrebbero dovuto fornire i militari per questo scopo, si sono detti indisponibili a farlo per via del rischio di possibili scontri armati con il movimento di liberazione palestinese.
Secondo i media israeliani, così, la Casa Bianca sarebbe pronta a “saltare” questa fase del disarmo, per passare direttamente a quella della “ricostruzione”. I vertici di Hamas hanno legittimamente sempre sostenuto di essere pronti a rinunciare alle armi solo nel quadro di un processo per la creazione di uno stato palestinese autenticamente sovrano e in grado di garantire la propria sicurezza. Qualsiasi altra formula che disarmi la Resistenza sarebbe un suicidio, nonché la sottomissione al regime occupante e la fine stessa delle aspirazioni palestinesi. Alla luce di ciò, è comprensibile che molti regimi arabi non intendano mandare i propri soldati a Gaza per vederli coinvolti in scontri a fuoco con Hamas mentre coordinano i piani di repressione assieme allo stato ebraico.
Per Netanyahu, ha rivelato la rete israeliana Channel 13, questa soluzione che potrebbe mettere da parte, almeno per il momento, il disarmo di Hamas è “la peggiore possibile”. Una posizione, quella israeliana, che conferma come il regime sionista si aspetti dal piano Trump un contributo decisivo nella liquidazione della Resistenza dopo che questo obiettivo non è stato possibile conseguirlo sul campo. Le differenze tra USA e Israele non devono in ogni caso essere sopravvalutate. In un quadro più ampio, le finalità dei due alleati sono in larga misura le stesse e quello a cui punta Netanyahu potrebbe essere raggiunto per altre strade.
Il Guardian ha scritto ad esempio nei giorni scorsi che la fase della “ricostruzione”, a cui vorrebbe passare direttamente la Casa Bianca, avverrebbe in una striscia di Gaza divisa in due. Le opere per rimediare alla devastazione causata da Israele verrebbero avviate solo nella “zona verde” controllata dallo stesso regime occupante e dalle forze di “peacekeeping” straniere, se mai dovessero essere dispiegate. Il resto del territorio palestinese resterebbe una “zona rossa” fatta di macerie, fame e morte, dove, in prospettiva, Hamas resterebbe a farsi carico di problemi irrisolvibili, rendendo dunque superflua, almeno nell’ottica americana, la questione del disarmo.
Le vie del genocidio
Questo disegno di segregazione, già di fatto in vigore con l’imposizione della famigerata “linea gialla”, consentirebbe a Israele anche di portare avanti i piani di genocidio o di “pulizia” dell’intero territorio della striscia. Piani che, nonostante la tregua formale, proseguono sia tramite bombardamenti indiscriminati, quindi assassini puri e semplici, e le restrizioni imposte, in violazione del cessate il fuoco, all’ingresso di aiuti umanitari adeguati e concordati con Trump dallo stesso regime di Netanyahu. La carenza di cibo, medicinali e molto altro si sta osservando proprio in questi giorni in maniera ancora più drammatica in seguito alle inondazioni che stanno devastando i campi profughi a Gaza.
Un’ulteriore modalità con cui il regime sionista sta cercando di azzerare la popolazione palestinese passo dopo passo è apparsa chiara in tutti i suoi contorni dopo l’arrivo di un “misterioso” volo in Sudafrica con a bordo più di 150 persone sfollate da Gaza. La testata on-line Middle East Eye ha dedicato un lungo articolo alla vicenda, basandosi sulle informazioni ottenute da attivisti sudafricani. Giovedì scorso era appunto atterrato a Johannesburg un aereo di cui le autorità locali non sapevano praticamente nulla, così che i passeggeri sono stati costretti ad attendere circa dodici ore prima di potere sbarcare. Le indagini subito scattate avevano evidenziato parecchie irregolarità nel modo in cui il viaggio era stato organizzato e i rifugiati palestinesi a bordo non disponevano nemmeno dei documenti necessari, che avrebbero potuto permettere di elaborare senza intoppi il loro arrivo e il soggiorno in Sudafrica.
Molti dei passeggeri non erano a conoscenza neanche del paese di destinazione del loro volo. Queste e altre circostanze hanno sollevato fortissimi dubbi sull’esistenza di un piano israeliano per facilitare l’espulsione dei palestinesi dalla striscia, il tutto sfruttando la catastrofe umanitaria e la disperazione che il genocidio ha provocato. Al centro delle trame di Tel Aviv c’è una ONG molto sospetta – Al-Majd Europe – registrata in Germania e con sede a Gerusalemme, che si auto-promuove come un’organizzazione in grado di assistere profughi e rifugiati con distribuzione di cibo, somministrazione di cure mediche ed “evacuazioni umanitarie”. Per mezzo di soggetti come Al-Majd, Israele potrebbe quindi spingere molti palestinesi a lasciare Gaza definitivamente, sfruttando la tragica situazione in cui vivono da oltre due anni, oltretutto chiedendo contributi in denaro che vanno dai mille ai cinquemila dollari a persona.
Per quanto riguarda il caso del Sudafrica, gli oltre 150 palestinesi atterrati settimana scorsa sono passati attraverso altre sofferenze, essendo stati privati di qualsiasi assistenza sia durante il volo sia nella lunga attesa prima di sbarcare, nonostante tra i passeggeri vi fossero neonati e una donna incinta. Le difficoltà burocratiche sono state poi aggravate dal fatto che il dipartimento degli Affari Interni è guidato attualmente dal principale partner di governo dell’African National Congress (ANC), ovvero l’Alleanza Democratica (DA), notoriamente il partito delle élites bianche e filo-israeliano. Solo l’intervento personale del presidente, Cyril Ramaphosa, avrebbe alla fine sbloccato la situazione e concesso un visto di ingresso in Sudafrica di 90 giorni ai quasi del tutto ignari rifugiati palestinesi.







































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