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Pino Arlacchi, La Cina spiegata all’Occidente

di Alessandro Visalli

med 1200x630 11 1200x630.jpgIl libro di Pino Arlacchi[1] tenta un’impresa di notevole ambizione, fornire un quadro generale dell’Universo Cina partendo da una prospettiva storica comparativa e accedendo, nella Seconda e Terza parte, ad analizzarne le specificità interne di lungo e breve periodo. Il punto di partenza dell’autore è molto noto: la Cina e l’India, prese nel loro insieme, sono sempre state nel corso della storia umana il centro gravitazionale centrale per così dire ‘oggettivo’, solo da duecento anni sono divenute periferia e ora stanno ‘riemergendo’. Al contrario, solo per periodi limitati (come durante la fase apicale dell’Impero romano) quello che chiamiamo, con formula che contiene in sé il confronto e la polarità, “Occidente”[2] ha potuto confrontarsi alla pari con lo splendore “orientale”, fino a che negli ultimi trecento anni ha preso il sopravvento, seguendo un percorso che gradualmente ha acquistato energia a partire dalla ‘scoperta’ cinquecentesca dell’America e dal dominio dei commerci di lunga percorrenza e poi delle colonie. Per la gran parte del tempo, migliaia di anni, questo è stato, invece, economicamente, demograficamente e in termini culturali, periferia.

Fino al 1820, il polo orientale vedeva presenti, in un’area tutto sommato ristretta, oltre la metà del genere umano e della produzione (soprattutto dopo i massacri americani condotti in America da spagnoli, portoghesi e anglosassoni ai danni di circa un quarto della popolazione mondiale dell’epoca). A quella data solo il 2% della produzione mondiale era in Usa e solo il 5% nella Gran Bretagna. Anche il tenore di vita, ci racconta Arlacchi, era superiore in ampie aree del mondo orientale. Infine, la tecnologia, come mostrano diversi autori[3], era più avanzata sotto molti profili, salvo quella militare. Tale condizione cessò negli ultimi anni del XVII e primi del XIX secolo e furono ratificati dalle guerre dell’oppio (1840 e 1860)[4], è ciò che normalmente viene definito la “Grande divergenza[5].

Concentrandosi sulla Cina, i fattori che la resero stabile per migliaia di anni sono: il non-espansionismo; la meritocrazia politica. A questi fattori si aggiunge ora il sistema politico non-capitalistico. Questi tre fattori sono oggetto specifico del libro.

A questa stabilità plurimillenaria che attraversa invasioni e sostituzioni di dinastie, fasi di oscuramento e anarchia, rivolte enormemente sanguinose (come quella dei Taiping), conservando il percorso culturale, si oppone un’esperienza del tutto diversa.

In “Occidente” grandi imperi tramontano e sorgono[6], senza mai riuscire a consolidarsi o durare, e si impongono modelli politici statuali che comportano una drammatica divergenza culturale e una teoria senza fine di scontri.

Il testo si concentra in primo luogo sul fattore militare, ovvero sulla sua assenza relativa nel sistema cinese. Per Arlacchi, sulla base di solide evidenze fattuali la differenza fondamentale è questa: il mondo cinese è centripeto e non aggressivo. Non tenta di espandersi ed è sempre tendenzialmente pacifico. Come scrive, si tratta di “un cosmo che guarda a sé stesso e che si considera al contempo universale, privo di perciò di una spinta espansiva di tipo sia territoriale che economica e militare”[7]. Al contrario, la successione infinite delle guerre di conquista, nelle quali l’Occidente europeo si è costantemente impegnato, a partire dal mondo greco, mostra la psicologia aggressiva che connatura il suo modo di stare nel mondo.

Si tratta di una tesi abbastanza chiaramente polemica, e di grande complessità. Se pure è quantitativamente dimostrabile (con un differenziale che l’autore quantifica in uno a dieci) che il sistema europeo e Occidentale ha condotto molte più guerre di conquista gli uni contro gli altri, resta da spiegare l’intreccio delle cause. Il testo per lo più propende per un’interpretazione ontologica (ed a tratti onto-teologica) ed essenzialista. L’Occidente, dai Greci in poi sarebbe in sé militarista e bellicista, la Cina no.

Metteremo alla prova questa assunzione nel seguito. Per ora sottolineiamo solo che il generoso e coraggioso libro di Pino Arlacchi, con la cui missione concordiamo (legittimare la transizione multipolare entro la quale l’Occidente collettivo deve necessariamente fare un passo a lato e accettare di essere parte tra le altre), sarebbe meglio servito da una più attenta scelta dei registri teorici (culturalismo vs materialismo, realismo vs universalismo, progressismo vs orientalismo) e dal sorvegliare la tendenza, connaturata alla nostra cultura, di scivolare verso la filosofia della storia e la concezione stadiale dello sviluppo umano.

Ad ogni conto, come ricorda anche Carlo Formenti, in una recensione del medesimo testo[8], l’autore ripercorre la medesima traccia sottolineando che la svolta nella considerazione della Cina avviene dopo la fine del XVIII secolo, quando la conquista dell’India e l’accresciuta pressione coloniale nell’estremo oriente resero necessario legittimare verso le opinioni pubbliche la conquista. Come ricorda è a partire da Hegel (che scrive all’avvio del XIX secolo) che il Celeste Impero comincia a essere descritto come afflitto dal “dispotismo orientale”. Da allora, come ricorda ancora Arlacchi, “secoli di eurocentrismo, di razzismo e di colonialismo globale hanno costruito un muro che impedisce agli occidentali di vedere gli aspetti più salienti della civiltà cinese”[9]. Da allora, ricorda infine Formenti, il giudizio si consolida e non manca di influenzare giganti come Max Weber e Fernand Braudel.

Nella Prima Parte, dunque, l’autore descrive questa diversa natura e valorizza l’ideale della tianxia che postula un mondo inclusivo e senza confini. Tutto sotto il Cielo, ovvero tutto-dentro[10]. Qualunque etnia, cultura, entità, che fosse posta fuori del perimetro Han (che, come vedremo in seguito, è a sua volta una costruzione) è un problema non un nemico. Per la postura politica e culturale cinese in linea di principio tutto può essere incluso, se del caso assimilato. Come dice Confucio, “all’interno dei quattro mari, gli uomini sono fratelli[11]. In conseguenza, per Arlacchi, chi è fuori non è “barbaro” nel senso greco-romano e poi Occidentale, di inferiore e nemico, ma è solo diverso. Zhao Tiangyang scrive che “il tianxia non è un sistema di conquista fondato sull’uso delle armi quanto una concezione politica che trasforma l’ostilità in ospitalità, il ‘nemico in amico’ e il cui scopo non è costruire un’entità politica di estensibilità illimitata, ma una rete politica di estensibilità illimitata”[12].

Porremo anche qui alcune glosse, in particolare sulla specifica missione civilizzatrice propria della tradizione Han.

L’autore sostiene che ciò che proprio manca alla cultura cinese è la “missione civilizzatrice”, condotta sempre in ultima istanza in nome di Dio, ovvero della tensione all’Uno. Vedremo nel seguito che, se pure mancasse ai cinesi, questa, però, non manca allo stesso Arlacchi (che, con ciò, si mostra Occidentale, come del resto non potrebbe non essere). A ogni modo, secondo la sua interpretazione è il fatto di avere una “missione” che porta con sé la presunzione di possedere un accesso alla Verità, e con essa i semi del colonialismo e del genocidio, comunque, della nozione di “razza”. Qui è la radice di quello che arriva a chiamare, con linguaggio improvvisamente fattosi teologico, “lato satanico dell’Occidente[13].

Questi due concetti-chiave, “razza” e “razzismo”, sono secondo il libro specifiche costruzioni ontologiche create nell’antichità greco-romana e poi diffusesi e consolidatesi nel medioevo europeo (secondo altri a partire dal medioevo e poi nell’era moderna, in quanto la civiltà classica, almeno romana, era molto più interrazziale e l’integrazione era essenzialmente di natura politica[14]). Queste nozioni sono, comunque, inesistenti nel pensiero cinese, o, più modestamente, meno connotate. Un termine rilevante per mettere alla prova questa ipotesi, è quello di 夷 (yi), normalmente tradotto con “barbaro”, che implica una tensione alla civilizzazione, oltre alla distinzione tra centro e periferia. Ovviamente yi non significa “barbaro”[15] e non implica una inferiorità per natura, ma qualcosa che deve essere assimilato (e può esserlo). Per la cultura politica tradizionale cinese, e qui torniamo al tianxia, il mondo non è un oggetto da possedere, ma un soggetto unitario. La ragione metafisica è che il cielo, tian, è un’entità completa, unica. Per cui ciò che vi sta sotto, tian-xia, cielo-sotto, deve necessariamente essere anch’esso una entità completa in modo da accordarsi. Secondo il Liji, Hongzi hunju, 29, “nulla esiste che il cielo non ricopra, nulla esiste che la terra non sostenga”[16]. Di qui deriva l’idea che nessuno possa essere, in via di principio, considerato esterno, ‘altro’. Tingynag ritiene che sia differenziato da “qualunque modello di pensiero legato al monoteismo”[17].

L’associazione tra yi e “barbaro” nasce storicamente dall’incontro, e scontro, tra il mondo cinese e quello Occidentale nel XIX secolo in particolare. Per i Greci, il barbaros (βάρβαρος) era colui che non parlava greco e che emetteva suoni incomprensibili (“bar-bar”). Questo concetto era fondato su una dichiarazione di superiorità culturale e linguistica. Aveva una forte connotazione dispregiativa che resta, ancora oggi, nel senso comune. ‘Barbaro’ è dunque termine che associa nella nostra mente connotazioni selvagge, primitive, violente e minacciose.

夷 (yi) è, invece, un carattere antico, unisce “grande” (大) e arco (弓). Potrebbe significare una persona che porta un arco, ovvero un arciere. Nella tradizione confuciana fa parte del sistema 華夷之辨 (Huá Yí zhī biàn), che segnala una distinzione tra Hua (che sono civilizzati) e altri. Quindi non è una distinzione razziale, ma culturale, non linguistica ma morale. Chiaramente gli “arcieri” erano coloro che non praticavano i Riti (禮, lǐ), la Giustizia/Moralità (義, yì) e i costumi della civiltà Zhou/Hua (華). Si tratta, in sostanza, di uno Stadio di sviluppo, parte di un processo di acculturazione, o civilizzazione. In un senso specifico è quindi elemento, o parte, di una “missione civilizzatrice”. Quella di ricondurre la pluralità alla sua unità metafisica. Cosa che non impediva di apprezzare alcuni caratteri di qualche popolo yi (come l’onestà dei Dōngyí: gli Yi dell'Est, le popolazioni della penisola coreana).

In definitiva, si può sostenere che la concezione cinese è gerarchica, assimilazionalista, e civilizzatrice, ma non che sia razziale, violenta e fondata su un’antropologia della differenza. Quello di popolo yi è, in linguaggio contemporaneo, termine etnografico, relativo e contestuale.

Per Arlacchi, sulla base della sua analisi, l’assenza della spinta espansiva, della “missione” e delle continue guerre di conquista, produce una tendenza alla non-sovraestensione e determina quindi l’assenza delle sue persistenti e cumulative conseguenze economiche e distruttive. Qui sembra ricordare, in alcune pagine piuttosto argute, che le distruzioni e l’assorbimento costante di risorse deviate da usi produttivi hanno effetti cumulati e progressivi. Anche se non usa il termine, e sfortunatamente non sviluppa completamente il concetto che consentirebbe di sfuggire alla sua tendenza ‘essenzialistica’ e ‘culturalista’, l’autore sembra alludere all’innesco di una causazione circolare cumulativa[18], come diceva Gunnar Myrdal, o ad una path dependence[19], che progressivamente rende sempre più difficile in Occidente, dopo il collasso dell’Impero Romano coevo alla formazione imperiale cinese, conservare una tendenza centripeta. Ciò ha determinato la costante deviazione di risorse, per effetto di instabilità, invasioni e guerre civili; ha disgregato l’unità culturale, che sin dall’inizio era meno salda, e consolidato una cultura della guerra e individualista (in parte di provenienza germanica). La frammentazione cumulativa ha determinato, infine, quei caratteri culturali permanenti, aggressivi e imperialisti, sotto la veste universalista e provvidenzialistica religiosa, che connotano l’Occidente.

Arlacchi fa tuttavia di seguito risalire questa tendenza sostanzialmente a ragioni culturali, le quali secondo la sua visione provocano una divergenza che in una lunga fase ha avvantaggiato la Cina (divenuta progressivamente più ricca, coesa, e stabile), ma poi, al momento dello scontro ha favorito la maggiore potenza bellica occidentale nelle Guerre dell’Oppio[20]. L’Occidente nelle sue lunghe guerre avrebbe, insomma, sviluppato qualità che lo hanno danneggiato a lungo, ma poi favorito al momento della necessità. Al momento dello scontro, la Cina era bloccata in un percorso di efficienza interna, mentre l'Occidente era bloccato in un percorso di efficienza militare ed espansionistica. In altre parole, l'Occidente, per sua “natura” storica bloccata nel percorso storico avviato, aveva sviluppato gli strumenti per sopraffare la Cina.

Si potrebbe concludere che, vedendo la cosa in termini idealtipici, la cultura cinese (al contrario di quella Europea, originariamente disseminata lungo le coste del Mediterraneo), ha carattere monocentrico e centripeto. Tale carattere si è determinato per effetto di un insieme di fattori concorrenti, la cui direzione causale è plurima:

  • - da una parte per effetto di determinanti geografiche e produttive (la produttività incomparabilmente superiore della piana del Fiume Giallo, rispetto alle zone circostanti);
  • - dall’altra scelte politiche (le prime dinastie Xia, Shang e Zhou che si insediano qui, contrapponendosi a popolazioni seminomadi circostanti e si sforzano di assimilarle progressivamente);
  • - infine ragioni culturali, seguite al periodo dei “regni combattenti” che produce sulla classe intellettuale uno shock simile a quello delle “Guerre di religione” in Europa.

Si determina al termine un monocentrismo politico, sociale e culturale che ha resistito a tutte le ondate migratorie da Nord (Mongoli e Manciù) e si è esteso gradualmente verso Sud (fondendosi con i popoli Baiyue) assimilandolo. Bisogna notare che l’assimilazione, ad esempio dei Baiyue, non è un processo necessariamente pacifico e privo di costrizione, ma è un processo paziente e progressivo.

I fattori materiali, in altre parole, sono stati la presenza di una popolazione densa nella pianura del Fiume Giallo e dello Yangtze, un’area enormemente produttiva (assimilabile all’area del Tigri e dell’Eufrate, alla Piana del Nilo, al delta del Gange) nel quale già in epoca protostorica erano stati prodotti canali, fiumi navigabili, un bacino idrico integrato. Quindi una popolazione densa in un’area compatta e limitata, continentale. Di contro periferie meno produttive e abitate, nelle quali erano presenti deserti, montagne, steppe (per cui c’era ben poco da conquistare e popolazioni difficili da tenere soggiogate, anche perché nomadi). Nessun incentivo economico a farlo e, d’altra parte, risorse abbondanti da concentrare nella difesa. In queste condizioni materiali e strutturali, di lungo periodo, l’assimilazione culturale è più efficiente della conquista militare in aree remote e poco interessanti.

Il coevo Impero romano, di converso, disponeva anche esso di meccaniche di assimilazione delle élite, ma senza avere il centro della lingua scritta e senza neppure disporre della potenza dell’ideologia zhongguo. È difficile attribuire questa differenza a un solo fattore, né la spiegazione culturalista preferita dal nostro e basata sulla propensione alla guerra basterebbe da sola (in quanto potrebbe essere piuttosto un effetto). Fatto è che l’assimilazione romana, estendendo la Cittadinanza fino all’Editto di Caracalla del 212 d.C.[21], si fondava su una minore ambizione, servizio militare, diritto (con molte esenzioni e differenze) e tasse. La lingua era divisa in tanti dialetti, poi divaricatosi, e le élite conservavano loro caratteri a fianco di quelli centrali. Per un romano quel che contava era di partecipare al medesimo sistema politico e legale, non di avere la medesima etnia e cultura. Peraltro, l’Italia, posta al centro del Mediterraneo che univa e separava allo stesso tempo, era divenuta abbastanza presto un coacervo (e forse lo era sempre stato, per la sua forma stretta e allungata) di popoli, lingue e culture diverse.

Per tornare ai fattori geografico-strutturali (che non sono determinanti ma neppure possono essere ignorati), il Mediterraneo è un mare enorme, ma frammentato, che vede affacciarsi popoli diversi e potenti, che favorisce i contatti ma anche le guerre, avvicina le risorse le quali sono quindi sparpagliate (miniere, grano, legname, tutti separati). Non facilita l’autosufficienza e l’investimento su di sé (perché rende più facile commercio e saccheggio). In queste condizioni è presente un incentivo potente all’espansione per avere accesso a risorse, la competizione tra realtà multiple, la guerra. Una cultura coerente (quella assira, greca, romana, per fare qualche nome) è un fattore di successo.

Questa differenza ha fatto sì che quando Roma entrò nella sua lunga fase di dissoluzione la fragilità strutturale, amplificata dalla geografia molto più frammentata e la dipendenza dalla coesione politica e militare, portarono a divaricazioni le quali fecero cessare, e per sempre, la “pax romana”. Dopo la caduta del sovraesteso e militarista (e quindi più fragile) Impero Romano, in Occidente si sono succeduti regni più piccoli e sono stati condotti numerosi tentativi di ripristino di una potenza imperiale, ma mai durevole o abbastanza forte. Il più importante fu l’Impero Bizantino, durato mille anni ma di decrescente potenza ed estensione, e poi il suo successore, l’Impero Ottomano, ma la loro influenza fu locale, se pure rilevante.

Viceversa, la Cina ha ricondotto sempre ogni tensione all’unità materiale, produttiva, culturale e linguistica del ceppo che chiamiamo Han. Ovvero ha condotto, ogni volta, un processo di “hanizzazione” che è sempre stato anche progetto politico delle élite. In altre parole, dopo ogni invasione dal Nord, il cuore agricolo degli Han tra il Fiume Giallo e lo Yangtze, geograficamente più compatto e denso, ha recuperato l’unità. Le invasioni portavano a un periodo di divisione interna, ma la pressione culturale e demografica Han era tale da assimilare i conquistatori (anche se in processi che qualche volta duravano secoli) o da ricompattarsi sotto una nuova dinastia di origine Han (come avvenne dopo la caduta della Dinastia Han o del periodo di divisione tra la Dinastia Tang e Song).

In conclusione, ciò determinò un processo di causazione circolare e cumulativa che, nel tempo, ha stabilizzato un percorso di deviazione delle risorse verso la guerra, il circolo vizioso delle distruzioni e crolli demografici, la stessa polarizzazione politica, sociale e il clima di ostilità reciproco, fonte di processi di frammentazione cumulative le quali, a loro volta, hanno divaricato la traiettoria “Occidentale”, da quella cinese. Si potrebbe opporre quindi a una dinamica di “Frammentazione cumulativa”, e progressiva crescita dell’attitudine all’aggressività diagnosticata da Arlacchi, la “Coesione cumulativa” cinese, nella quale la centralità ideologica ha riassorbito costantemente le tensioni.

Il punto di interpretazione politica, per porre termine a questo lunga derivazione, è che questa tradizione è giunta fino a noi e determina la difficoltà a interpretare la postura cinese che tendiamo sempre a interpretare come insincera. Invece la Cina è perfettamente entro i suoi termini. In sostanza sta cercando semplicemente di riattivare il tradizionale percorso di “Coesione cumulativa” con strumenti moderni. Il Partito Comunista Cinese è, sotto questo profilo, l'erede funzionale dell'élite burocratica confuciana: il suo scopo primario è la stabilità interna, la coesione e la legittimità attraverso lo sviluppo. La sua proiezione esterna è ancora vista attraverso la lente del Tianxia (attrazione, assimilazione, dimostrazione di superiorità), non attraverso la lente della conquista militare diretta tipica della path dependence occidentale.

Nella Seconda parte il libro rintraccia un lascito di lungo periodo che contribuisce a spiegare il successo cinese nel suo acceleratissimo percorso di sviluppo economico dagli anni Settanta a oggi. Si tratta della “meritocrazia”, ereditata dal sistema imperiale di selezione dei funzionari e ancora presente oggi nella selezione della classe dirigente. La selezione di una classe dirigente di alto livello è necessaria, nella prospettiva cinese, perché garantire a tutti i mezzi fondamentali per una vita dignitosa è, dal tempo di Mencio[22] una tradizione del Celeste Impero. Se è vero che “Quelli che conquistano il cuore della gente conquisteranno il mondo[23], dal tempo dei Ming ciò si traduce nel costante sforzo di erogare servizi tramite una rete di funzionari ben istruita. Ciò che è stato compreso è, in altre parole, che la legittimità risiede nel consenso popolare e questo dai mezzi di sostentamento.

La classe dei mandarini è stata da oltre duemila anni selezionata tramite esami pubblici, la cui ultima sessione si teneva davanti all’imperatore al termine di una selezione molto intensa.

Una selezione che contribuiva in modo molto significativo a due effetti: la mobilità sociale, dato che era aperta a chiunque e di tanto in tanto ascendevano anche meritevoli di classe diversa, e la coesione etnica, in quanto la presenza di un’élite culturale che si era formata sugli stessi testi “canonici”, e nella medesima lingua, nei secoli fu un elemento decisivo nella fusione delle tante etnie di partenza nel crogiuolo “Han”.

Infatti, quello Han (Hànzú, 汉族) è oggi il gruppo etnico che individua il 92% della popolazione della Repubblica Popolare Cinese, ma la sua formazione e provenienza è articolata. In origine dovrebbe essere la popolazione Huaxia insediata presso il Fiume Giallo, dal cui nome provenne la Dinastia Han (206 – 220 a.C.) che introdusse la scrittura logografica (ideogrammi) e la lingua ufficiale (Pŭtōnghuà, o Mandarino), ma affiancato dal Wu (parlato a Shanghai), il Cantonese (nel Guangong e a Hong Kong), il Min (a Taiwan e nel Fujian), l’Hakka (nel sud-Est), il Gan. Tutti questi gruppi linguistici sono ora considerati “Han”. È un mosaico formato per assimilazione culturale e processi migratori interni che dice in realtà molto sul carattere della formazione cinese in relazione alla divaricazione occidentale. Dunque, Han è il gruppo etnico che domina a Pechino e parla il Mandarino, il più grande, ma anche il cantonese del Sud, le altre lingue che spesso (come italiano e francese) non sono reciprocamente comprese. La circostanza che la lingua rappresenta visivamente concetti (e non suoni) fa sì che due diversamente parlanti possono comprendere il medesimo testo, così persone diverse si sentono connessi dalla lingua. Questa costruzione, enormemente rafforzata nei secoli da una selezione unitaria degli intellettuali, è stata storicamente funzionale alla costruzione dello Stato, e quindi integrata nel concetto di Zhonghua Minzu (Nazione Cinese), che include tutte le 56 etnie riconosciute. Questa costruzione è, sin dall’inizio, un progetto politico consapevole e perseguito instancabilmente per quasi duemila anni, che ha superato ogni crisi riconducendo tutte le dominazioni esterne alla radice assimilazionistica. Una tendenza centripteta e totalizzante di qualità unica. Basata sulla scrittura, quindi la letteratura, la legge e l’amministrazione, il sistema del merito che garantiva la formazione di élite interconnesse con un’ideologia che attraversava le diverse etnie e linguaggi parlati, sul concetto di Civiltà (Zhongguo).

Nel prosieguo del testo viene descritto il percorso storico della Cina comunista, dalle lotte per ridurre la povertà nelle campagne, e per la riduzione, ad esempio, della tradizionale discriminazione sessuale verso le donne, alla fase di crescita impetuosa e i problemi di corruzione conseguenti. Dinamiche che la leadership di Xi Jimping, dal 2013, ha affrontato in modo drastico (espellendo 900.000 persone dal Partito e ponendo sotto inchiesta quasi sei milioni, fino a colpire vertici come Zhao Yongkong) con una sequenza di operazioni di contrasto alla corruzione. Operazioni anticorruzione che, spesso, sono lette in Occidente come “purghe” politiche, e che sono in effetti difficili da distinguere nella pratica. Anche da noi, l’arresto o la condanna di esponenti protetti potrebbe essere il segno della loro perdita di influenza, o di lotte di potere. Questa correzione di rotta è comunque coerente con la traiettoria complessiva del Partito Comunista Cinese, che sin dalla fase di lotta rivoluzionaria ha sempre avuto un approccio flessibile e pragmatico. Va compreso che la storia del PCC è intrecciata con la storia della decolonizzazione della Cina dal dominio occidentale, dall’aggressione giapponese, e successivamente alla vittoria allo sforzo di costruire un corpus teorico che si inserisse nel movimento internazionalista senza perdere le specificità date dalla situazione e tradizione culturale. I problemi originari sono la situazione derivante dalla dialettica città-campagna, la dominazione economica occidentale, la lotta antimperialista e per la sopravvivenza come nazionale, la lotta di classe. La rivoluzione è la risposta complessiva all’esigenza di sviluppare istituzioni efficienti in un’epoca di disgregazione e umiliazione e, d’altra parte, di governare una modernizzazione ineguale che produceva effetti disgreganti profondamente sentiti dalle strutture comunitarie contadine. Alla fine, contrariamente alla vulgata marxista, questo è il mix di tutte le rivoluzioni affermate, invariabilmente avvenute durante fasi di accelerazione e trasformazione disordinate.

Certo, la rivoluzione riempie un vuoto culturale, mettendosi al posto dell’autorità imperiale, Arlacchi chiama “Imperatore collettivo” il Partito e “Nuovi mandarini” i funzionari, ma nella prima fase distrugge intenzionalmente la base economica del potere sociale nei villaggi, i lignaggi, le associazioni religiose e le società segrete, e collettivizza eliminando o ponendo sotto strettissimo controllo il commercio privato. La prima parte della storia ideologica marxista cinese è caratterizzata dal confronto e scontro con la prospettiva russa, e stalinista in specie. La prima recezione, intorno alle figure di Li Dazhao (1889-1927) si concentrò sull’applicazione della prospettiva del materialismo storico all’analisi delle radici sociali e strutturali della crisi, ma negli anni Trenta il modello stalinista di lettura del processo storico (il “diamat”) venne contestato da alcuni intellettuali marxisti come Jian Bozan (1898-1968), Fan Wenlan (1893-1969), Li Shu (1916-1988), che misero a tema il carattere “europeo” del marxismo e quindi il suo carattere di “modello generale”. Lo scontro formativo è quello tra Wanh Ming, il leader dei cosiddetti “Ventotto bolscevichi” (di stretta osservanza staliniana) e lo stesso Mao, che oppose la tesi dell’assenza di un solo marxismo “astratto”, in favore di un marxismo che si articolava e dispiegava nelle forme nazionali e locali. Dunque, di un “marxismo sinizzato” (che, come si vede, è tema di lungo periodo).

A partire dalla Conferenza di Zunyi del 1935 la linea di Mao si affermò (per consolidarsi a partire dal 1941 e, infine, consolidarsi nel 1944) sostenendo la tesi che bisogna legare strettamente la teoria generale del marxismo-leninismo con la pratica della lotta rivoluzionaria nelle campagne e la mobilitazione della piccola borghesia. Linea maoista che, a parere di Li Zheou, alla fine affondava le proprie radici in una rivisitazione della tradizione cinese e non nel marxismo originario. In questo senso, il marxismo cinese non è solo un adattamento, ma una vera e propria reinvenzione del progetto moderno, nella quale il Partito prende il posto dell’Impero, e la dialettica storica si intreccia con la continuità profonda del pensiero politico e cosmologico cinese.

Il rapporto tra marxismo sinizzato[24], sin dall’origine, e tradizione confuciana riscritta è dialettico, selettivo e strategico al tempo. Fino agli anni Settanta si tratta di un conflitto esibito, poi, da Deng in poi, con la messa in sordina della lotta di classe in favore di una più esibita spinta alla modernizzazione, i valori di ’armonia (和), gerarchia funzionale, culto dell’educazione e del bene pubblico, ma anche la centralità del dovere comunitario, vengono in primo piano.

Confucio in Xi e nei suoi predecessori è letto come un nazionalista morale, in tensione potenziale con il carattere egualitario e universalista del marxismo. Tu Weiming definisce questa sintesi “umanesimo confuciano con caratteristiche cinesi moderne”. Dunque, si deve riconosce che il maoismo – pur nella sua retorica iconoclasta – non si limitava a distruggere la tradizione, ma la reinventava, attraverso un processo di dislocazione e reinsediamento del marxismo all’interno dell’universo culturale cinese. Ciò che viene assunto dal confucianesimo, anche nella sua fase di critica, è il valore della totalità etico-politica, l’idea di una moralità pubblica fondata su relazioni armoniche. Quindi la centralità del bene comune, la responsabilità dell’intellettuale e del sovrano come guida morale della collettività. Una delle principali traslitterazioni è quindi tra Partito e Impero, garante della stabilità, mediatore tra Cielo e Terra, custode della continuità culturale. In questo senso, la risemantizzazione del confucianesimo non è semplicemente ideologica, ma ontopolitica: serve a garantire la legittimità profonda dello Stato come autorità morale oltre che politica. Lo sforzo è di creare una forma alternativa di modernità che sia imperniata su un’etica pubblica post-individualista. In questo quadro, il confucianesimo stesso smette di essere una tradizione “chiusa” e viene risignificato come dispositivo moderno, selezionato, scolpito, talvolta manipolato, ma comunque riattivato come forma di memoria utile al governo del presente. La tradizione, come la rivoluzione, non viene semplicemente “subita”, ma usata come archivio di senso, campo di battaglia, risorsa strategica. Un punto di equilibrio tra i più importanti tra l’impulso universalista e storicista del marxismo e la prospettiva morale e umanista cinese è nell’immagine di tianxia.

La Cina conserva della sua tradizione, costantemente rigenerata e reinterpretata nelle mutate condizioni, il carattere meritocratico. Ma, come sottolinea Arlacchi, è una meritocrazia socialista[25]. La forza dell’iniziativa privata, e il famoso motto denghiano “diventare ricchi è motivo di gloria”, è sempre orientata e finalizzata al perseguimento della traiettoria definita dal Partito nel contesto di un complesso processo di decisione che ha livelli diffusi e concentrati. Ovvero, finalizzata al percorso di transizione, lungo e secolare, verso il socialismo. Un sistema flessibile, ma, in ultima istanza, sempre nelle mani dello Stato-Partito. È precisamente questo che non viene perdonato.

Come sintetizza Arlacchi, “la società cinese viene tenuta insieme da un livello di prosperità diffusa senza precedenti che forma la base di una libertà civile senza precedenti”[26]. Questa definizione sorprendente per orecchie Occidentali, poggia su una distinzione implicita tra “libertà individuale” e “libertà civile”, che merita qualche chiarimento. La “libertà civile”, o libertà del cives, del cittadino, si riferisca ad una tradizione teorica ben presente anche nella cultura occidentale, in Lineamenti di filosofia del diritto[27], Hegel ricorda come “non si è unilateralmente in sé stessi, ma ci si limita volentieri in relazione a un altro, e nondimeno in questa limitazione ci si sa come se stessi. Nella determinatezza l’uomo non deve sentirsi determinato, perché solo nel considerare l’altro come altro si ottiene il proprio sentimento di sé”[28]. Per comprendere questa frase occorre fare mente al significato di “determinatezza” nella sua teoria filosofica; esserlo significa sia essere limitato (il secondo significato di “non deve sentirsi determinato”) sia definirsi (“ottiene il proprio sentimento di sé”). Quindi, non si può essere se stessi individualmente, da soli, o “unilateralmente”, ma si può esserlo (ottenendo il relativo “sentimento”) solo quando ci si limita in relazione a un altro. Ma “altro” qui significa il non-medesimo, e, nel contesto specifico nel sistema dei bisogni, nella giustizia e nello Stato. Dunque, la cooperazione sociale è la condizione ed il modello della libertà[29]. Solo nella modalità della rispettiva autorealizzazione i soggetti si completano reciprocamente.

L’Occidente pienamente dispiegato, o uno dei suoi telos possibili, che reca la centralità del medium della forma-denaro e la dissoluzione dei rapporti sociali, porta con sé realizza con la stessa mossa la “libertà individuale” e la privazione di “libertà civile (o sociale)”. L’intermediario esterno fa perdere di vista anche le relazioni di reciproco riconoscimento e alla fine ognuno si ritrova solo con sé stesso, come un essere proteso soltanto al proprio arricchimento e al proprio utile. In un passaggio degli appunti di Parigi scrive che nella produzione individuale l’uomo si afferma, ma, al contempo, nell’avere prodotto qualcosa utile ad altri e quindi essere divenuto “intermediario fra te e il genere”, ovvero “di aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività, la mia vera essenza, la mia essenza comune e umana”[30]. Dunque, il capitalismo in cui l’elemento mediatore è la circolazione del denaro, invece della cooperazione, produce l’effetto di relazioni sociali in cui la nostra reciproca integrazione è soltanto una pura e semplice apparenza, che serve da base al reciproco spogliamento. Questa critica di fondo permane fino a Il Capitale[31] in cui la società capitalista è criticata perché, di fondo, essa “produce l’apparenza materiale di relazioni sociali mediate solo di fatto, che impediscono di scorgere la struttura intersoggettiva della libertà”[32].

Questo background, che è anche un ponte tra tradizioni, mostra come Arlacchi suggerisca non tanto una semplice, se pure importante, crescita di valori materiali in sé (che potrebbe portare anomia e dissoluzione sociale, via ‘consumismo’), quanto la ricerca attraverso lo sviluppo delle forze produttive, in quanto necessariamente cooperative in senso sociale, si generi e intenzionalmente una forte coesione sociale. La prosperità, opportunamente diretta, realizza insomma una forma di Sittlichkeit (eticità) o di libertà civile che l'Occidente, focalizzato sull'individuo e sul denaro, ha smarrito.

Nella Parte Terza Arlacchi prende una posizione netta su un tema spinoso: la Cina attuale è socialista o è, semplicemente, una diversa forma di capitalismo? Magari di ispirazione socialdemocratica, come era tale, ad esempio, quello scandinavo?

Qui viene presa una posizione netta, che condivido completamente: il “socialismo di mercato” … “include l’idea che non è necessario abbattere il capitalismo se lo si può piegare ai propri fini, trasformandolo in una forza propulsiva del socialismo. Le ‘caratteristiche cinesi’ di questa operazione non sono altro che la concettualizzazione dei modi attraverso cui essa si è dispiegata nella concreta straordinaria esperienza storica della Cina comunista post 1949”[33].

Questa posizione, che in effetti richiama l’autocomprensione cinese (derivante da una creativa ricezione dell’esperienza leninista e stalinista, e, soprattutto dalla lezione data dalla stagnazione sovietica prima e dal crollo dopo), prende atto che la teoria marxista “sinizzata” contraddice una delle tesi centrali della teoria di Marx. Quella secondo la quale per far affermare il socialismo era necessario dialetticamente superare il capitalismo. L’interpretazione di dialettica di Mao, e della leadership rivoluzionaria cinese, è più ampia. Si tratta di un processo di lungo periodo, nel quale le due polarità in contraddizione permangono e progressivamente si superano.

Secondo la metafora proposta, si “cavalca la tigre” (ovviamente, correndo tutti i rischi del caso, in particolare a medio termine).

Ne deriva un sistema fondato attualmente su una base di proprietà pubblica di imprese di Stato, concentrate in settori guida e strategici come le infrastrutture, l’energia, le risorse naturali, la maggior parte della finanza. Queste coprono il trenta per cento del Pil e il cinquanta per centro degli asset industriali, in modo non dissimile da quanto era presente, ad esempio, nell’Italia del boom economico (non per caso molto studiato dai cinesi durante gli anni Sessanta). A partire dal 2008, in direzione anticiclica e di equilibrio territoriale, per risolvere in un sol colpo la deflazione delle esportazioni in occidente e gli squilibri sociali e territoriali accumulati durante la trentennale cavalcata di crescita pos-Deng, il venticinque per centro del Pil venne concentrato in edilizia e infrastrutture.

Il punto è che il governo centrale (che è, al contempo, molto decentrato) procede sempre a dirigere il sistema economico tramite l’innesto di “capitale paziente”[34], investimenti di lungo periodo entro progetti strategici (spesso oltrepassanti gli stessi Piani Quinquennali), e un modello alternativo alla finanziarizzazione occidentale. Ovvero un’originale e potente integrazione tra politica creditizia e industriale[35]. Ciò genera una capacità estremamente efficace di ridurre i rischi per effetto di un calibrato ed estensivo coordinamento di sistema. Ovvero grazie alla capacità di coordinare, tramite strumenti legislativi e regolatori (come cerchiamo di fare anche noi), ma anche semplicemente autoritativi, creditori, debitori e autorità locali.

In un successivo blocco viene descritta l’etica che guida, o che è sbandierata, da parte di “capitalisti rossi”, come la proprietà di Huawei (colosso che è al 98,6% detenuto dalla “Unione dei dipendenti”, formata da novantamila persone e solo al 1,4% dal vecchio fondatore), o l’ecosistema digitale di Pony Ma. Ma anche il vantaggio che questo ecosistema “ammaestrato”, porta agli stessi capitalisti e investitori, grandi e piccoli. Vantaggio che deriva, secondo Arlacchi, da cinque fattori:

  • - il minor costo del capitale, per effetto di politiche monetarie e ruolo delle banche di sviluppo pubbliche;
  • - la disponibilità di infrastrutture, quindi i minori costi selle aziende, stimabili nell’ordine del venti per cento;
  • - la configurazione dei mercati di sbocco, per effetto del mercato interno ormai più grande del mondo;
  • - l’equilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, che rende ancora competitivo in presenza di alta efficienza il costo dei fattori produttivi;
  • - la gestione del rischio economico, che è ridotto per effetto del coordinamento macroeconomico e la capacità di anticipare i cicli e gestire in modo coordinato le filiere produttive.

Come dice Arlacchi:

“La combinazione di questi fattori crea un ambiente dove il capitale privato può conseguire rendimenti superiori con rischi inferiori rispetto alle economie Occidentali”[36]. Si tratta di vantaggi strettamente radicati nell’architettura istituzionale e nel “sistema tecnico”, ovvero di una vera e propria diversa “Piattaforma tecnica”. “Un ambiente dove l’interesse privato del capitale e l’interesse pubblico dello sviluppo nazionale non sono contrapposti ma allineati, attraverso una sofisticata architettura istituzionale che canalizza lo spirito animale dell’imprenditore verso obiettivi socialmente utili”[37].

In sé questo non è completamente anomalo. Anche la Costituzione Italiana cerca di canalizzare le forze del capitalismo verso obiettivi sociali, riconoscendo limiti, ad esempio, alla proprietà privata e dichiarando espressamente obiettivi e beni pubblici sovaordinati. Ma a partire in particolare dalla rivoluzione neoliberale questi elementi sono stati depotenziati, e, comunque, non hanno mai avuto preminenza politica effettiva. In Italia non c’è stata una rivoluzione.

Il “capitalismo” cinese non è dunque “selvaggio” e non lo è mai stato. È sempre stato parte di un processo graduale e necessario, progressivo, che ha visto crescere salari, affermarsi una classe media, e generare progressive protezioni per il lavoro stesso.

Infine, il “socialismo” cinese è un “fatto sociale totale”, che travalica e incorpora i mercati. Controlla i prezzi-chiave (energia, materie prime cruciali, capitale, terra, servizi di rete, salari minimi, tassi di cambio) e li governa in modo organico[38], seguendo una “pianificazione indicativa”, la quale ha appreso le lezioni sovietiche (e, forse, anche la programmazione socialdemocratica italiana e scandinava). L’economia è, insomma, percepita nel sistema cinese come entità immersa in strutture sociali e politiche, e a servizio della crescita umana e politica.

Nell’ultima parte del testo l’autore riconosce la sfida posta al sistema cinese, esposto al consumismo, di disgregare lo spirito comunitario, verso processi di individualizzazione di tipo “occidentale”. Ovvero il rischio di “anomia”[39]. Ma auspica anche che l’autoritarismo politico si orienti verso forme di democrazia. Questa è chiaramente una contraddizione incorporata nel testo; in quanto nominare “democrazia” implica l’accettazione del modello Occidentale e implica quindi sia un whisfull thinking sia, e soprattutto, una postura eurocentrica che il resto del testo è attento a criticare. Se la pretesa universalista e monista dell’Occidente è la radice del suo colonialismo e violenza, con essa la “missione civilizzatrice” in senso provvidenzialistico e se la Cina rappresenta un’alternativa ontologica a tutto ciò, allora questa evoluzione non è scritta nella sua storia. Ciò presupporrebbe che la democrazia (occidentale, non la forma attuale descritta da Bell[40]) sia il necessario, o auspicabile per tutti, punto di arrivo universale. Inoltre, con ciò viene implicato che gli altri sistemi siano “immaturi” o siano comunque “in transizione”. Necessariamente qui è supposta l’esistenza di una teleologia della Storia operante e quindi di una provvidenza (o uno Spirito di marca hegeliana).

Ma se la Cina fosse davvero diversa, e in senso ontologico, non situazionale, perché dovrebbe convergere? Perché il metro di giudizio siamo alla fine sempre noi?

Ancora più problematico, nell’ultima parte Arlacchi descrive la posizione del suo ‘maestro’ Giovanni Arrighi, in Adam Smith a Pechino[41] e nel Poscritto a Il lungo XX secolo[42]. Cita l’auspicio del nostro per un “Commonwealth delle civiltà” per ipotizzare che lo strumento militare abbia perso “gran parte della sua rilevanza come levatrice del potere politico e della ricchezza su scala nazionale e globale”[43]. Per farlo “salta fuori”, per così dire, dal registro che aveva praticato nella Terza parte (ma non nella Prima e Seconda) e rifiuta le analisi realiste sui cicli del capitalismo (care ad Arrighi[44] e Braudel[45]) e le analisi marxiste per introdurre “un elemento cruciale ma finora trascurato – il progresso etico-politico, l’incivilimento dei rapporti umani”[46].

Di seguito, tuttavia, non si vede su cosa poggi questo “progresso” (e per di più di natura “etica-politica”), se non sulla ribadita postura tradizionale cinese e su una “pacificazione e declino della violenza” che sarebbe in corso nell’area estremo-orientale (dalla Guerra Fredda a oggi). Oppure, poche pagine dopo, quando identifica “un trend di lungo periodo verso la fine delle guerre internazionali”, la cui rara eccezione sarebbe la guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza. Eccezione al fatto che “la pace interna e internazionale si consolida ogni giorno che passa”[47]. E ciò dal 1989 (ovvero dalla caduta dell’Urss e dalla insorgenza della fase unipolare del dominio pseudo-imperiale statunitense).

In due pagine successive, quella 450 e 451, si trova descritto il “progresso” e le sue fonti. Si tratta di una letteratura datata per lo più in un periodo tra il 2015 e il 2019, anglosassone, due libri editi a Oxford e Cambridge, due riviste. Il primo, del “Journal of Peace Research”, di Goldstein e Pinker, sostiene che le spese militari stanno scendendo[48]; il secondo, edito a Oxford, di Goertz, Diehl, Balas, sostiene nel 2016 che la violenza non è più la forza ordinatrice dei rapporti internazionali e che la società del nostro tempo si confronta con, cito, “regole più evolute, prodotte dal progresso etico-politico collegato all’aumento della civilizzazione dei rapporti umani”[49]. Regole e norme che si diffondono per “cascata normativa”, ovvero un punto dopo il quale diventano automatiche anziché calcolate[50].

Un “progresso etico-normativo” che si manifesta attraverso la crescente delegittimazione dell’uso della forza come strumento di politica estera. Insomma, ora il nostro abbandona il registro realista e materialista che aveva per lo più praticato (con qualche scivolamento culturalista) per ricadere nell’idealismo normativo di stampo progressista. Sulla base di questa letteratura Arlacchi può continuare: “il costo reputazionale dell’aggressione militare è aumentato significativamente, rendendo la guerra un’opzione sempre meno praticabile per gli Stati che aspirano a un ruolo rispettato nel sistema internazionale”[51].

Qualcuno si deve essere dimenticato di avvertire George W. Bush, Putin e Netanyahu.

Ma forse no, perché in fondo “le logiche di potenza continuano a persistere, ma sono sempre più contestate da visioni alternative fondate sulla cooperazione e sull’interdipendenza”[52].

Ovvero, sono tradotte in competizione economica. Vale a dire, come vediamo in questi giorni e mesi, in uno scontro economico crescente: sanzioni, dazi, controllo delle catene di approvvigionamento e in particolare delle materie prime cruciali, es. terre rare e materiali ferrosi[53]. Guerra tecnologica: corsa alla IA, all’indipendenza sui semiconduttori, al controllo delle infrastrutture critiche, ai corridoi logistici. Guerra ibrida e per l’informazione. Scontro per il controllo degli organismi internazionali di cooperazione (Onu, Brics).

In definitiva, possiamo concludere che alla luce dell’interessante, e coraggiosa, analisi di Pino Arlacchi la Cina sta semplicemente puntando ad aumentare la sua coesione interna, la crescita economica e la sua capacità di influenza sistemica diretta e soprattutto indiretta, applicando la sua tradizione di “Coesione cumulativa”. Essa si pone nel conflitto attraverso la cura della tendenza, l’amplificazione della capacità intrinseca di attrazione economica, e di resilienza sistemica. L’Occidente, coerentemente con la sua traiettoria, ha, invece, un atteggiamento molto più frontale e aggressivo. Ma lo maschera da missione civilizzatrice che riconduce tutto all’Uno (mentre per un cinese tutto è già “cielo-sotto”).

Il problema nasce direttamente quando in un’analisi condotta coraggiosamente e meritoriamente sui caratteri della civiltà cinese, rivendicata come diversa da quella Occidentale, le categorie essenziali di quest’ultima fanno nuovamente capolino. La nozione di “Progresso”, è, infatti, il termine più inevitabile della costellazione mentale liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Programma storicamente nato come contrasto e reazione, del tutto giustificata, alle strutture logiche e alle prassi dell’Ancien Régime nell’Europa del XVIII secolo, e segnalato già da Hegel come

“furia del dileguare”[54]. Si tratta di un progetto negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e carico di hybris. Non avendo, infatti, un telos (fine ultimo) definito, il suo unico imperativo è andare “avanti”, dove “avanti” significa semplicemente “oltre” l'esistente. Quella hybris che Arlacchi riconosce nella postura occidentale nasce, o si consolida, qui. Un progetto solo negativo che ha trovato i suoi strumenti nella scienza moderna (che mira a dominare la natura) e nel capitalismo (che libera le forze del lavoro e del capitale dai vincoli morali e comunitari). La tecnica, da mezzo, diventa essa stessa il fine del progresso, in una spirale auto-legittimante. L'hybris sta proprio in questa pretesa di un dominio totale sulla natura e sulla società, senza un criterio esterno (come la virtù, la tradizione o il sacro) che ne guidi e limiti l'applicazione[55]. Diversa è la posizione cinese, nella quale esistono fini e vincoli, sia morali sia comunitari. Vincoli che scaturiscono dal rapporto tra cielo e terra.

Soffermiamoci un attimo. Questa posizione cinese affonda il suo senso in un diverso atteggiamento e nozioni: il riferimento alle tradizioni storiche (ad esempio, al confucianesimo), come contrappeso ai potenziali dissolutori e anomici della modernità contemporanea, si radicano nel rapporto “archeologico-archivistico” della tradizione cinese, un repertorio di modelli e forme (法, ) che mantengono la propria validità. Quindi si tratta costantemente di attualizzare (通今, tōng jīn) una saggezza e non di oltrepassare, dissolvere, progredire. Quando il Partito Comunista Cinese invoca la “tradizione culturale cinese di eccellenza”, non sta “copiando” o “strumentalizzando” qualcosa di morto; sta attualizzando un modello civile (文, wén) per orientare il presente. È un processo di continuità creativa, non di rottura o di uso strumentale. Non esiste nella cultura cinese una nozione di rottura epistemologica con il passato, che è invece radicata così profondamente nella nostra da essere evocata automaticamente nelle nozioni di “nuovo”, “attuale”, “progresso”. Ciò cui mira la temporalità orientale è, piuttosto, uno stato di pienezza (复兴, fùxīng) che non è posto da qualche parte lungo una linea. Il tempo è immaginabile più come una sorta di spirale, qualcosa nel quale si avanza tornando e si progredisce recuperando. Di qui la nozione di Tianxia.

Se si considera questa interpretazione è chiaro che non si tratta di valutare lo scostamento da un percorso verso il “progresso etico” complessivo dell’umanità, quanto di osservare un confronto tra logiche di civilizzazione e percorsi storici di apprendimento diversi. Si dovrebbe trattare di “provincializzare l’Europa”[56] riconoscendone la parzialità. Inclusa la parzialità della nozione di “progresso” (che la Cina vede come strumento e non come fine[57]).

Tutte queste nozioni sono presenti nello studio di Arlacchi e possono essere mobilitate dalla sua lettura, in questo preziosa, sorvegliando solo qualche ‘riemersione’ della mente Occidentale in sé legittima, se compresa nei suoi limiti.

Nella conclusione l’autore spende, sulla base di queste generose posizioni, alcune pagine per contrastare la tesi che vede la Cina e l’Occidente a guida Usa necessariamente orientati allo scontro militare (la cosiddetta “Trappola di Tucidide[58]), che vede come mera proiezione Occidentale. Per effetto della sua diagnosi sul diverso carattere dei due sistemi culturali e per l’indisponibilità, a suo dire, del sistema degli stati estremo-orientali a seguire una logica di polarizzazione. Se la Pax asiatica regge gli Usa, da soli o con l’Europa ed i loro alleati di quadrante (Australia), non avranno la forza di sfidare il potere continentale cinese[59].

Ne deriverà un’Era Post-Occidentale.


Note
[1] - Pino Arlacchi, 74 anni, è stato un deputato e senatore, inoltre parlamentare europeo di area PD nel 2014, candidato nel 2024 con Pace Terra Dignità e non eletto con 2.299 voti. Sociologo con una lunga attività istituzionale nell’ONU (vicesegretario generale del programma antidroga). Presiede il Forum Internazionale di criminologia e diritto penale con sede a Pechino.
[2] - Cfr. Josephine Quinn, Occidente. Un racconto lungo 4000 anni, Feltrinelli, 2024 (ed. or. 2024); Alessandro Vanoli, L’invenzione dell’Occidente, Laterza, Bari, 2024.
[3] - Kenneth Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino 2004 (ed. or. 2000); Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina, Einaudi, 1981 (ed. or. 1954).
[4] - Si veda nota 20.
[5] - Convincente tesi di Kenneth Pomeranz per il quale la Grande Divergenza tra Europa ed Asia è resa possibile, in ultima analisi, dal superamento della Trappola malthusiana per effetto dell’importazione dei frutti di un immane sfruttamento di terre aggiuntive grazie alla manodopera schiavile. Cfr. Kenneth Pomeranz, La Grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino 2004 (ed. or. 2000). Contesta l’idea di superiorità intrinseca europea: fino a ca. 1750–1800 regioni “core” come Inghilterra e Bacino dello Yangzi mostrano livelli comparabili di produttività, mercati e consumo (“Smithian growth”). Lo scarto nasce da vantaggi contingenti:carbone accesso prossimo e a basso costo riduce vincoli energetici e di terra. Colonie/“ecological relief” spazio e risorse atlantiche (cotone, zucchero, terre) alleggeriscono i limiti ecologici europei e finanziano investimenti. Path dependence una serie di svolte (tecnologiche, militari, commerciali) cumulative. Il suo metodo predilige la comparazione regionale contro le narrazioni civilizzazionali; la centralità di fattori ecologici ed endowment più che di “cultura” o istituzioni astratte. Stato Qing è visto come efficiente nell’ordine agrario, non come “blocco” dello sviluppo.
[6] - Basti pensare all’Impero romano, a meteore come quello dei Franchi, ed il Sacro Romano Impero, come noto “non sacro” e “non impero”, il più longevo fu l’Impero Bizantino cui seguì l’Impero Ottomano.
[7] - Pino Arlacchi, La Cina spiegata all’Occidente, Fazi editore, Roma, 2025, p. 39.
[8] - Carlo Formenti, “Arlacchi spiega la Cina all’Occidente. Ma l’Occidente è disposto ad ascoltare?”, in Per un socialismo del secolo XXI, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/
[9] - Pino Arlacchi, op.cit., p. 39.
[10] - La fonte principale è Zhao Tingyang, Sotto il cielo. Tianxia. Un antico sistema per un mondo futuro, Ubaldini editore, Roma, 2024 (ed. or. 2016).
[11] - Cit. in Pino Arlacchi, op.cit., p. 50. Analects 12.5
[12] - Zhao Tingyang, Sotto il cielo., op.cit., p.8.
[13] - Cit. in Pino Arlacchi, op.cit., p. 64.
[14] - Si veda Cedric J. Robinson, Black marxism. Genealogía della tradizione radicale nera, Alegre, Roma 2023 (ed. or. 1983).
[15] - Perché il termine incorpora la sua storia culturale (termine greco barbaros) e questa è specifica dell’ambiente mediterraneo nel quale è nato. Un luogo di scambi e conflitti tra civiltà molto denso.
[16] - Zhao Tingyang, Sotto il cielo., op.cit., p.17.
[17] - Zhao Tingyang, Sotto il cielo., op.cit., p.18.
[18] - Cfr. Alessandro Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020, p.55 e seg.
[19] - Dipendenza dal percorso. Le decisioni passate, spesso casuali o specifiche e contestuali, non necessariamente vincolate, limitano le scelte future, creano un blocco (lock-in) che favorisce alcune prosecuzioni e impedisce, o rende molto costose, altre. Nel caso cinese la precoce unificazione (dinastie Qin e Han) in un nucleo geografico compatto e iper-produttivo in senso comparato, e le scelte di standardizzazione compiute per unificare gli Han determinano un sistema iper-stabile che cumula vantaggi alla fine decisivi per cui nessuno li abbandona. A fronte del Circolo Virtuoso della Coesione in Occidente si prende l’opposto Circolo Vizioso della Frammentazione. Questo, nelle condizioni della geografia frammentata e policentrica del Mediterraneo e della caduta dell’Impero romano d’Occidente lascia come sola alternativa il consolidamento di unità politiche in competizione. Ciò porta ad un’ipertrofia militare, sottosviluppo e specifiche forme culturali (imperiali e razzistiche). Tutti coloro che tentano un’unificazione falliscono, Carlo Magno, Carlo V, Napoleone.
[20] - Guerre dell’Oppio. Nel 1939 l’imperatore ordinò di distruggere l’oppio che l’a Gran Bretagna contrabbandava in Cina dall’India ed era ormai una fonte decisiva del suo commercio estero. Il governo inglese dichiarò guerra e ventitrè navi da guerra salparono da tutto l’Impero britannico. Il 25 giugno 1840, a Canton, la flotta inglese avviò le ostilità, terminate due anni dopo con il bombardamento a Nanchino. Il 29 agosto la Cina si arrese. Negli anni successivi, l’allargamento del traffico e le indennità accordate drenano la ricchezza liquida dall’economia e provocano un drastico impoverimento dei contadini nella Cina meridionale. Di fatto gran parte del surplus affluì in Occidente (in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Le tensioni che si accumularono innescarono nel 1851 una vastissima rivolta contadina Han. Venne proclamato il Taiping Tianguo (“Celeste regno della grande pace”) il quale, sulla base di una radicale riforma agraria di tipo religioso e comunistico, si impossessò della Cina meridionale e centrale e minacciò la capitale Manciù a Nord. La rivolta durò fino al 1864 e costò decine di milioni di morti. Seguirono anni di espansione in tutto il mondo dei domini coloniali occidentali e l’avvio della Prima Guerra Mondiale.
[21] - Con l’Editto l’imperatore Caracalla rese tutti i sudditi liberi dell’Impero cittadini romani.
[22] - Mencius 7B:14
[23] - Cit. in Arlacchi, op.cit., p. 152 (parafrasi).
[24] - Il marxismo, in termini di formazione ideologica originaria, è sicuramente ed interamente occidentale. Come mostra efficacemente Cedric Robinson in Black marxism, ciò a partire dalla “concezione materialista della storia” di Marx (poi trasposta in “materialismo dialettico” da Engels e successivamente, ovvero positivizzato) innervata nella filosofia della storia hegeliana, che viene messa “sui suoi piedi”. Ma anche alla visione incentrata sulla “interna officina” del capitalismo che sottostima i rapporti di con-fusione e contaminazione che da sempre contraddistinguono la storia europea e la nativa e strutturale importanza della relazione costitutiva dell’accumulazione capitalista con il sistema-mondo (non solo “originaria”). Le due cose innervano la scelta, e caratterizzazione, della “classe lavoratrice” (senza attribuzioni) come motore della rivoluzione e di questa come movimento che promana dall’interno (secondo una rilettura della tradizione filosofica europea, di Aristotele in particolare). Secondo questa declinazione razionalista e universalista (specificamente connessa con la tradizione ebraica che giunge a Marx dalla madre e cristiana nella quale è immerso), la società borghese è interpretata come compimento della storia precedente e trampolino del salto finale e veicolo di una compiuta razionalizzazione di tutte le relazioni sociali. Alcune declinazioni della tradizione marxista, in particolare sulla linea delle concrete rivoluzioni nel Novecento (ovvero quella da Lenin a Mao, e poi il marxismo caraibico, quello africano e via dicendo), e riarticolazioni teoriche (il marxismo newyorkese di Baran e Sweezy e la seguente “teoria della dipendenza” di provenienza sia Sud Americana sia Africana o le teorie del capitalismo razzializzato e post-coloniale intorno a figure come Maurice Thorez, José Carlos Mariategui, Ceril James, Huey Newton, Amilacar Cabral, Raymond Williams, Gayatri Spivak, e altri) hanno cercato di superare alcuni di questi limiti. Limiti riconducibili soprattutto alla posizione storicista, teleologica e universalista che presuppone il modello Occidentale storicamente dato come modello.
[25] - Arlacchi, op.cit., p. 201.
[26] - Arlacchi, op.cit., p. 208.
[27] - George Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, 2017 (ed. or. 1820).
[28] - Hegel, op.cit., p.57.
[29] - Come vedeva anche il primo Marx i cui attraverso il lavoro tutti diventano legati reciprocamente da rapporti di riconoscimento attraverso i quali confermano a vicenda la propria reciproca dipendenza.
[30] - Karl Marx, Note su James Mill, (ed.or. 1844), cit. In Gregory Claeys, Marx e il marxismo, Einaudi 2020 (ed.or. 2018), p. 62.
[31] - Karl Marx, Il Capitale, Einaudi, 2024, I, 1, §4.
[32] - Axel Honneth, Il diritto della libertà, Codice 2015 (ed. or. 2011)
[33] - Arlacchi, op.cit., p. 278.
[34] - Si intende capitale che si accontenta di una remunerazione minore, più lunghi tempi di rientro, e persegue finalità non solo economiche. Tipicamente capitale pubblico.
[35] - Arlacchi, op.cit., p. 322.
[36] - Arlacchi, op.cit., p. 360.
[37] - Arlacchi, op.cit., p. 361.
[38] - Arlacchi, op.cit., p. 392.
[39] - Arlacchi, op.cit., p. 413.
[40] - Daniel Bell, Modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, 2019 (ed. or. 2016).
[41] - Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino.Genealogia del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008 (ed. or. 2007).
[42] - Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore 1996 (Poscritto, 2009).
[43] - Arlacchi, op.cit., p. 424.
[44] - Arrighi, Giovanni. Economista italiano. Teorico dei sistemi-mondo. Ha spiegato l’evoluzione del capitalismo come sequenza di cicli sistemici di accumulazione guidati da egemonie successive: genovese-iberica, olandese, britannica, statunitense. Ogni ciclo attraversa una fase di espansione materiale (commercio/produzione) e una di espansione finanziaria (rendita/finanza) che segnala l’esaurimento dell’egemonia (signal crisis) e prelude a una crisi terminale con transizione di potere. Il potere è concettualizzato come doppio: “capitalista” verso “territorialista”, la cui ciclica competizione determina l’ordine mondiale. Storicamente la fuga verso la finanza indica declino egemonico (da Venezia ai USA), cui segue una fase di transizione e normalmente guerre. Nella sua ultima opera Adam Smith a Pechino, propone una possibile egemonia asiatica fondata su sviluppo “smithiano” (mercati + Stato coordinatore), distinto dal capitalismo finanziario occidentale.
[45] - Braudel, Fernand. Storico francese dell’“École des Annales”, ha rifondato la storiografia con l’attenzione alla longue durée: strutture lente (geografia, demografia, tecnologia) che condizionano eventi e congiunture. Ha spostato il baricentro dalla storia-evento alla storia-struttura, influenzando economia storica e sistemi-mondo. Costruisce un quadro potente per leggere spazio, tempo e capitalismo come totalità storiche articolate. Nodi concettuali: “Tempi storici plurali” eventi (breve), congiunture economiche/sociali (medio), strutture di lunga durata (lento). “Économie-monde” sistemi storico-geografici con un centro dominante e periferie; il Mediterraneo del ’500 come caso paradigmatico. “Tripartizione dell’economico”, Vita materiale (autoconsumo, routine), Economia di mercato (scambi concorrenziali), Capitalismo (sfere oligopolistiche/monopolistiche, spesso anti-mercato). “Spazio/ambiente come vincoli attivi” il paesaggio e le reti regolano costi, ritmi, possibilità d’azione. “Metodo seriale” uso massivo di serie quantitative (prezzi, noli, demografia), cartografie, comparazioni.
[46] - Arlacchi, op.cit., p. 424.
[47] - Arlacchi, op.cit., p. 449.
[48] - J. Goldstein, S.Pinker, “War and Peace in the 21st Century: an empirical survey”, in “Journal of peace reserach”, vol. 60, n.4, 2023. Un testo che è stato ampiamente criticato per la sua selezione dei dati.
[49] - G. Goertz, P.F. Diahel, A. Balas, The puzzle of peace. The evolution of peace in the international system, Oxford, Oxford pressi, 2016.
[50] - M.Finnemore, K. Sikkin, “International Norm dynamics and political change”, in “International organization”, vol. 73, n.4, 2019. Il concetto di “cascata normativa”, un esercizio di idealismo giuridico davvero eroico in questi anni tragici, è singolare in un’epoca nella quale il diritto internazionale è chiamato solo quando conviene, in Ucraina ma non a Gaza, gli organismi multilaterali tacciono impotenti, la logica dei blocchi e della guerra per procura domina ovunque.
[51] - C. Reus-Smit, On cultural diversity. International theory in a World of difference, Cambridge, University Press, 2018. Come si vede nulla ha fermato Putin o Netanyahu, o Bush nel 2003.
[52] - A.Wendt, Quantum Mind and Social Science. Unifying physical and social ontology, Cambridge university Presso, 205.
[53] - Si veda la ricerca dell’autosufficienza tecnologica nel nuovo Piano Quinquennale cinese, e i vari fronti di lotta su terre rare e altre materie prime tra i blocchi.
[54] - Nella Fenomenologia dello spirito scrive: “L’universale senza contenuto è pura distruzione; esso è la furia del dileguare (die Wut des Verschwindens)”. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano, 1995 (ed. or. 1807), p.791.
[55] - Cfr. Andrea Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, 2020.
[56] - Gesto teorico di decentramento: riconoscere Europa come provincia del mondo, non suo centro teleologico. Non “negare Europa” ma contestare sua pretesa universalità: (1) temporalità lineare (sviluppo→modernità→progresso) come unica storia; (2) categorie politiche europee (cittadinanza, stato, diritti) come naturali; (3) secolarismo come unica razionalità. Metodo: mostrare pluralità storie, temporalità, modernità (sempre al plurale, situate, ibride). Esito: Europa = cosmologia particolare storicamente efficace, non Ragione incarnata. Opera: Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Milano, 2004 (ed. or. 2000). Nel libro: operazione analoga per cosmotecnica occidentale.
[57] - In quanto il fine è l’armonia e la stabilità della collettività e il ripristino (reinterpretazione) dell’Ordine sotto il Cielo. Il Dàtóng (Grande Unità): un ordine mondiale armonioso, guidato non da una potenza egemonica predatoria, ma da un centro civilizzatore virtuoso.
[58] - Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla Trappola di Tucidide? Fazi editore 2018.
[59] - Un altro testo interessante su questo tema, se pure meno ottimista, ma pur speranzoso di evitare uno scontro è quello dell’ex premier australiano, Kevin Rudd, Usa-Cina. Una guerra che dobbiamo evitare, Rizzoli, 2023 (ed.or. 2023).
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