Riarmo, guerra e desiderio di giustizia
di Gennaro Avallone
L’ennesimo atto di repressione del governo post-fascista di Giorgia Meloni ha colpito ieri, 18 dicembre 2025, il centro sociale Askatasuna di Torino. Con la scusa del ripristino della “sicurezza” e dell’ordine si fanno in realtà deserti dove rimbomba il silenzio e si ribadiscono dispositivi di subordinazione, sudditanza, paura od opportunismo. Difficile, di questi tempi, affermare (come in realtà è) che il libero esercizio della critica, la sperimentazione di culture e prassi alternative, la presa d’atto che la società è multiculturale, sono gli unici antidoti all’abisso, disumano e violento, imposto dal potere contemporaneo. Lo spiega bene, in questo articolo, Gennaro Avallone: l’attuale potere dispotico ha bisogno della costruzione di un nemico interno, per ribadire la “superiorità” di quei valori occidentali che oggi si fondano sulla guerra, sul riarmo, sul genocidio e sull’annichilimento della persona “altra”. Secondo questa logica il nemico è diverso, povero, giovane, islamico, è una strega, ha idee diverse, opinioni, pensieri, culture diverse. Fa sciopero, fa i blocchi, è il movimento per la Palestina. Si creano frammentazioni sociali per mettere i poveri contro i più poveri.
Nel frattempo, le supposte forze progressiste non sembrano adeguate ad affrontare tali contraddizioni, troppo prese a delegittimarsi a vicenda e incapaci di dare risposte politiche e sociali a un malessere sempre più diffuso. Lo sappiamo ma non ci arrendiamo: «Il movimento per la Palestina propone un’alternativa di pace. Esso è profondamente mosso dal desiderio di giustizia e da una spinta propriamente internazionalista».
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La necessità del nemico interno
Il regime di guerra in costruzione richiede un processo di normalizzazione interna fondato sull’individuazione di precisi nemici pubblici. Non si può mobilitare una popolazione che non vuole il riarmo se non si orienta la sua paura verso un nemico non solo esterno ma anche interno che deve essere sconfitto. E quindi aggredito. La preparazione alla guerra richiede un fronte interno da colpire, nemici da offrire a un’opinione pubblica preoccupata per dimostrare che chi governa sa cosa fare. E tanto lo sa all’interno quanto, quindi, verso l’esterno. Si prepara il terreno della guerra contro i sabotatori, contro chi non è esplicitamente allineato e, ancora di più, contro chi sostiene un’alternativa al regime di guerra e la pratica. Lo sgombero di Askatasuna, le prese di posizione contro i professori cattivi maestri perché parlano di genocidio, l’aggressione continua a Francesca Albanese, i disegni di legge che vorrebbero equiparare antisemitismo e antisionismo, il tentativo di espulsione di Mohamed Shahin sono momenti diversi di questa strategia di costruzione del nemico interno per convincere della necessità del riarmo.
Unire i puntini
Bisogna unire i puntini. La figura che ne emerge è quella di una nebulosa presentata come antioccidentale, sostanzialmente islamica o alleata con l’Islam (il cosiddetto islamo-gauchisme), di fatto antisemita. È una nebulosa, dunque non un’organizzazione precisa, ma, appunto, un insieme di turbolenze da controllare, allontanare, mettere ai margini e, se necessario, in prigione. Questa nebulosa viene presentata da chi governa così come da chi sostiene il regime di guerra come il reale pericolo. Non chi ha praticato e sostenuto il genocidio a Gaza. Non chi lascia morire le persone in mare. No, il pericolo viene da questa nebulosa, sostanzialmente coincidente con il movimento per la Palestina che non si è fermato dopo il cosiddetto cessate il fuoco.
Tornate a casa!
L’indicazione politica verso la popolazione è chiara. Basta. Tornate a casa. Fateci continuare il lavoro di sostegno e diffusione globale della logica sionista reale senza fastidi. Il movimento di massa è stato un momento, lo abbiamo tollerato. Ora è finita. Bisogna dare supporto al regime di guerra, al riarmo.
Questa linea di condotta consegnata alla popolazione è facilitata dalle condizioni ideologiche e materiali di deterrenza alla partecipazione alla vita politica. Le prima si poggiano sulla propaganda diffusa che alimenta la necessità della guerra. Le seconde riguardano senz’altro la permanenza di precarietà e disoccupazione specialmente tra la popolazione giovanile e femminile. La crisi sistemica sostanzialmente favorisce questa proposta basata sulla paura e il ripiegamento individuale.
Il progetto delle destre
Questo avvertimento non è un caso italiano. È la declinazione locale della strategia dell’estrema destra globale. I nemici sono gli stessi negli Usa come in Gran Bretagna. In Germania come in Cile. Sono gli immigrati dunque i musulmani. Sono i movimenti sociali contro la guerra e con la Palestina. Sono anche i movimenti contro il cambio climatico già silenziati dalla repressione degli ultimi cinque anni. Tutti nemici interni. Tutti nemici da combattere per normalizzare la guerra verso l’esterno. O per lo meno il riarmo.
La verità è che riarmo e guerra non hanno consenso tra le popolazioni. L’aspirazione è al futuro. Alla vita. Decenni di necropolitiche contro le persone migranti non hanno costruito un sentimento belligerante. O meglio. Lo hanno costruito solo se delegato. Che muoiano pure ma non per mano diretta nostra. Noi da questa parte del mondo vogliamo vivere. Dunque, non partecipare alle guerre né tanto meno armarci perché sappiamo che questa prospettiva potrebbe portare alcuni di noi a morire. Questa idea anti-guerriera prima che contro la guerra toglie terreno alle politiche di riarmo. Il consenso, sebbene declinato soprattutto in questa direzione (maggioritaria ma non unica), non c’è.
Il movimento per la Palestina, con i suoi blocchi, scioperi e sentimenti anticoloniali, dunque contrari al suprematismo bianco e ricco, è il nemico perfetto da offrire alle opinioni pubbliche come forza da sacrificare da parte dell’estrema destra globale. Ed è anche l’oggetto del suo tentativo forse finale di ricostruzione di un’egemonia sfinita, per lo meno nella parte di mondo che chiamiamo Occidente, con i relativi alleati.
Questo progetto è coerente con gli interessi delle frazioni di capitale che questa destra estrema globale vuole servire, in concorrenza con quella parte di sinistra che integra il partito della guerra. Un capitale che vive di estrattivismo, rilancio delle economie nazionali mediante l’industria delle armi e del controllo, rallentamento della cosiddetta transizione ecologica, ipersfruttamento del lavoro nei settori a più basso valore aggiunto (sempre più la base di economie sempre meno competitive sul piano globale), diffuso controllo sociale per sostenere le compagnie transnazionali del web.
Per queste ragioni lo stesso dibattito pubblico è sempre più incentrato sulla geopolitica. La logica del blocco nazionale assediato richiede unità interna e quindi la caccia ai disfattisti. Questi non sono i cosiddetti putiniani né i partiti non nemici o amici della Russia. Questi ultimi non sono anomalie critiche: sono già pienamente interni alla logica dei blocchi geopolitici e, proprio per questo, non rappresentano una minaccia per il regime di guerra, potendo anzi risultare funzionali alla sua stabilizzazione quando gli equilibri internazionali mutano. I «disfattisti» sono invece i movimenti sociali che cercano alternative alle politiche di morte, che vogliono riportare il diritto internazionale a funzionare in prospettiva decoloniale (di questo ha recentemente scritto Giso Amendola[1]), che puntano alla liberazione dalla logica sionista non solo per la Palestina. Ovviamente, un progetto antitetico alla guerra.
Il desiderio di giustizia
Il movimento per la Palestina propone un’alternativa di pace. Esso è profondamente mosso dal desiderio di giustizia. È stato agitato da questa spinta propriamente internazionalista. Sconta la debolezza di livelli organizzativi transnazionali ma le sue infrastrutture (si pensi al coordinamento tra i portuali del Mediterraneo) esistono. Sono operative. La spinta c’è. Non a caso il cosiddetto cessate il fuoco di ottobre non l’ha spenta. Si sono spente le luci dei grandi media ma non le mobilitazioni. Il movimento ha prodotto i suoi sedimenti. Gli esiti politici ci sono stati. Attraversano soprattutto una parte del movimento sindacale così come delle generazioni più giovani e della popolazione immigrata. Ma anche parte della realtà universitaria. E proprio contro questi mondi la repressione si è attivata.
Ovviamente la partita è aperta. È sempre aperta. Bisogna decidere come starci dentro. Come sottrarsi al gioco della repressione proposto/imposto dall’avversario. Il Sudafrica ha usato l’arma del diritto internazionale per portare il Governo di Israele di fronte all’accusa di genocidio. È un esempio. Un altro esempio è quello dei cortei diventati blocchi: spazi eterogenei divenuti spazi di lotta. Assemblee, informazione, mobilitazioni, campagne di boicottaggio e sostegno internazionale, sciopero. Il ventaglio delle azioni di movimento è ampio per evitare la trappola repressiva. E per dare continuità e prospettiva al desiderio di giustizia.








































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