Servire: professione, necessità o scelta di vita?
di Fabrizio Marchi
La decisione della famiglia Elkann/Agnelli di vendere il gruppo Gedi (La Repubblica e La Stampa) all’armatore greco Theodore Kyriakou ha destato preoccupazione in gran parte del mondo politico e ha gettato nel panico i giornalisti dei due fra i tre più grandi e importanti “giornaloni” italiani (l’altro è il Corriere della Sera, ovviamente).
Dal punto di vista umano è certamente comprensibile il timore dei giornalisti e delle giornaliste per le incognite del caso e le conseguenze che possono derivare dal passaggio di proprietà di un giornale: ristrutturazione aziendale con possibili e assai probabili licenziamenti. Sul piano squisitamente umano, dunque, la solidarietà sorge spontanea nei confronti di chiunque tema di perdere il proprio posto di lavoro.
Le cose cambiano (e con esse, ovviamente, anche il nostro sentimento di solidarietà) se le osserviamo dal punto di vista politico.
I giornalisti e le giornaliste di Repubblica e de La Stampa (così come quelli e quelle di tutti o quasi gli altri media cosiddetti mainstream) sono stati in tutti questi anni i fedeli servitori e le fedeli servitrici dei loro editori, mettendo a totale disposizione dei loro padroni le loro competenze professionali. Hanno sostenuto pedissequamente (non so con quanta dose di genuina convinzione o di opportunismo o entrambe le cose insieme, ma questo poco conta sul piano politico) tutte le politiche dei loro padroni.
Si sono contraddistinti nel sostegno acritico delle politiche monetariste, neoliberiste e antipopolari dell’UE, della inevitabilità dei tagli allo stato sociale, delle guerre imperialiste e neocolonialiste della NATO, della criminalizzazione di tutto ciò che esiste al di fuori dell’Occidente e che non è prono ad esso, dei BRICS, della Russia, della Cina, del Venezuela, della resistenza palestinese e libanese e a suo tempo della Serbia, dell’Iraq, della Libia, della Siria, stati sovrani attaccati proditoriamente dagli USA e dai suoi alleati/satelliti. E naturalmente sono stati i più fedeli e convinti cantori dell’ideologia neoliberale e “politicamente corretta” in tutte le sue articolazioni. Quella stessa ideologia che è servita a coprire, edulcorare e camuffare sotto una coltre di “buonismo progressista” e “diritto civilista” le politiche neoliberiste dell’UE, degli apparati tecno burocratici che la governano e delle oligarchie finanziarie che le stanno alle spalle e che muovono i fili e, naturalmente, come già dicevo, le guerre imperialiste degli Stati Uniti e della NATO finalizzate a “portare – così hanno raccontato – diritti, libertà, democrazia, a combattere l’oscurantismo e naturalmente liberare le donne dall’oppressione patriarcale”. Le redazioni de La Stampa e soprattutto de La Repubblica, sono state tra le principali sponsor di tutta l’agenda neofemminista e transfemminista e della guerra orizzontale e sessista scatenata contro il genere maschile nella sua interezza, camuffata come lotta di liberazione delle donne da un fantomatico dominio patriarcale tenuto in vita artificialmente.
Questo è il “lavoro” che è stato svolto in tutti questi decenni dai giornalisti e dalle giornaliste de La Repubblica e de La Stampa e questo è il loro lascito di cui non sentiremo alcuna mancanza. Come definire questi giornalisti? Potremmo sbizzarrirci con gli aggettivi ma lascio ai lettori la scelta.
Alla luce di tutto ciò, il passaggio di proprietà dei due quotidiani di cui sopra può destare preoccupazione in quegli ambienti politici che temono un cambiamento di linea politica (magari un po’ più spostato sul versante destro del sistema politico-mediatico) dei due quotidiani ma certamente non nel sottoscritto, anche perché peggio di quanto hanno fatto non si può oggettivamente fare.
Per quanto riguarda i giornalisti, quelli che manterranno il posto di lavoro continueranno a fare quello che hanno sempre fatto, e quindi serviranno il nuovo padrone. Gli altri cercheranno di trovarsene un altro e, se non ci riusciranno, finiranno ad ingrossare le fila del numeroso esercito di lavoratori precari e sottopagati (compresi tanti giornalisti). E magari, in questa nuova condizione, chissà, potrebbe anche accadere che qualcuno/a di loro sviluppi una nuova e rinnovata coscienza di sé e della realtà. Del resto, la speranza è sempre l’ultima a morire.









































Comments