Lenin: Lezione ai geopoliticanti
di Leo Essen
Il titolo più appropriato per questo straordinario libretto di Lenin, scritto nel 1916, avrebbe potuto essere La fine del «laissez-faire». La lettura è particolarmente indicata per quei geopolitici che fanno ruotare la storia attorno a un punto fisso, la giurisdizione statale. In Lenin, invece, nulla svolge la funzione di perno centrale: nemmeno le categorie della produzione e della finanza, che risultano sempre affettate dalle classi e dalle forme giuridiche ed economiche.
Dove va il capitalismo?, si chiede Lenin.
L’antico capitalismo — quello della libera concorrenza — risponde, va a carte quarantotto.
La libera concorrenza, nel suo periodo d’oro (1850–1873), sfocia inevitabilmente nel monopolio. Quest’ultimo, osserva Lenin, introduce tre — anzi quattro — elementi di rottura fondamentali.
1) Socializzazione.
La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne deriva un immenso processo di socializzazione della produzione.
2) Calcolo.
La concorrenza, che operava su mercati ignoti, ha compiuto progressi tali che ormai è possibile calcolare quasi tutte le fonti di materie prime di un dato paese, anzi di una serie di paesi e perfino del mondo intero. Si calcola la capacità del mercato, che viene ripartito; si calcolano la manodopera e i tecnici; ci si impadronisce dei mezzi di comunicazione e di trasporto per poter calcolare. Il calcolo diventa così un momento essenziale del processo di socializzazione.
3) Produttività.
Nella misura in cui vengono introdotti i prezzi di monopolio, risultano paralizzati — fino a un certo punto — gli stimoli al progresso tecnico e, con essi, a ogni altro progresso, e di ogni altro movimento in avanti, e sorge immediatamente la possibilità economica di fermare artificiosamente il progresso tecnico (p. 139).
4) Prezzi.
Essi perdono il riferimento ai costi di produzione.
In merito alla produttività, un paio di decenni dopo, nella Teoria Generale (p. 377), lo stesso Keynes dovrà ammettere che data un’efficienza marginale del capitale negativa, un procedimento diverrebbe vantaggioso soltanto purché fosse lungo; nel qual caso dovremmo impiegare procedimenti fisicamente inefficienti, purché essi fossero sufficientemente lunghi affinché il vantaggio derivante dal differimento comportasse la loro inefficienza.
Negli Stati Uniti, racconta Lenin, un certo Owens inventò una macchina destinata a rivoluzionare l’industria delle bottiglie. Il cartello tedesco dei fabbricanti di bottiglie acquistò il brevetto e lo chiuse in un cassetto, impedendone l’applicazione. Inizia così l’epoca del rallentamento artificiale del progresso, dell’obsolescenza pianificata, della fabbricazione di prodotti-spazzatura. I gadget oggi in commercio — l’iPhone, Ozempic, per esempio — venduti a prezzi irrazionali e giustificati da royalties stellari attribuite al Genio che li avrebbe prodotti, ne sono un’espressione compiuta.
L’evoluzione del capitalismo, scrive Lenin nel 1916, è giunta a tal punto che, sebbene la produzione di merci continui come prima a «dominare» — le virgolette di Lenin servono a indicare che, in realtà, essa non domina più nulla ed è ormai passata in secondo piano — e a essere considerata la base di tutta l’economia, in realtà essa è già minata, e i maggiori profitti spettano ai «geni». Anche qui le virgolette sono decisive: Genio è il processo di reificazione e di santificazione dell’obsolescenza pianificata, dell’inefficienza e della spazzatura.
«Su questa base» — altre virgolette di Lenin, che segnala il momento della sofisticazione e della speculazione, in cui la base economica diventa mero supporto della rendita — la critica borghese e reazionaria sogna un ritorno alla libera, pacificata e onesta concorrenza. Se le cose non funzionano, dicono i perbenisti borghesi, è perché il libero scambio è ostacolato dai monopoli, dalle big company, dai dazi, dal protezionismo, dai trust e dai cartelli. Se si lasciasse procedere il mercato secondo le sue regole, se tutto scorresse liberamente, avremmo prodotti migliori, più valore aggiunto e più ricchezza per tutti, invece di rendita e fuffa.
Eppure, osserva Lenin, trarre da questi fatti una conclusione a favore del libero commercio e della pacifica democrazia è una banalità, e significa dimenticare che sono stati proprio il libero commercio e la pacifica democrazia a portarci fin qui. Il capitale finanziario, che muove l’intera baracca, se ne infischia della morale piccolo-borghese e scarnifica due volte la povera creatura: una prima volta attraverso i profitti realizzati sui prestiti concessi agli Stati satelliti o alle colonie; una seconda volta attraverso gli stessi prestiti, quando questi vengono impiegati — come nel caso contemporaneo della Grecia — per acquistare i prodotti della Krupp.
Sulla Produttività, in quanto base dell’inefficienza e dei prezzi amministrati e dei Geni percettori di Royalties, Lenin nota un altro aspetto interessante, legato proprio al punto più alto (e non più basso) dell’efficienza fisica (Keynes parla proprio di efficienza fisica, non di valore aggiunto, ma di Produttività legata alla filiera fisica), la trasformazione dell’Europa occidentale (qui cita Hobson) in una Federazione europea delle grandi potenze che potrebbe presentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero, dall’Asia e dal l’Africa, enormi tributi e, mediante questi, si procurerebbero grandi masse di impiegati e di servitori addomesticati che non sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di secondo ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria. La più grande parte dell’Europa occidentale potrebbe allora assumere l’aspetto e il carattere ora posseduti soltanto da alcuni luoghi, cioè l’Inghilterra meridionale, la Riviera e le località dell’Italia e della Svizzera visitate dai turisti e abitate da gente ricca. Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, traenti le loro rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente; accanto, un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e di commercianti e un gruppo ancora maggiore di domestici, lavoratori dei trasporti e operai occupati nel processo finale della lavorazione dei prodotti più avariabili. Allora scomparirebbero i più importanti rami di industria, e gli alimenti e i prodotti base affluirebbero come tributo dall’Asia o dall’Africa.
La deindustrializzazione, afferma Lenin, costituisce un momento dell’avanzamento del capitalismo e non del suo arretramento, come invece ritiene il piccolo borghese impoverito che sogna un ritorno allo status quo ante.
Per quanto riguarda la socializzazione forzata, eccessiva, Lenin scrive queste poche esaustive parole. Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libera concorrenza completa alla socializzazione completa.
L’avanzamento delle forze produttive strappa i capitalisti al loro isolamento. Forze che agiscono alle loro spalle e contro la loro volontà li proiettano in una nuova società, quella della socializzazione completa, nella quale il calcolo e le procedure tecniche di controllo — il piano — costituiscono la base stessa della socializzazione. Nel seno della vecchia società, regolata dalla proprietà privata, dalla separazione e dall’individualismo, avanza così, spinta dal calcolo e dal piano, una nuova forma sociale.









































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