
C’è una sola strada: la lotta per il socialismo
di Carlo Lucchesi
Ecco cosa accade nella nostra parte di mondo. Prima l’Ucraina. I neocon USA, la NATO e, in coda, l’U.E., hanno messo nel mirino la Russia con l’obiettivo di destabilizzarla, farla deflagrare e spartirsi le ricchissime spoglie. L’Ucraina è stata scelta allo scopo. In sequenza: colpo di stato, dichiarazione d’ingresso nella NATO, guerra, rifiuto di riconoscere le ragioni di sicurezza della Russia, sabotaggio dei tentativi di Trump di trovare un compromesso. Persa la guerra, non potendo passare allo scontro frontale data la superiorità nucleare e missilistica della Russia e temendo le reazioni popolari che seguirebbero una simile scelta, si lavora per aprire un altro fronte nella speranza di provocare quel logoramento di cui l’Ucraina e la NATO non sono stati capaci. Non basta. Si inventa un inimmaginabile pericolo di aggressione da parte della Russia per giustificare la moltiplicazione delle spese militari, portare a compimento la privatizzazione dei servizi pubblici a vantaggio dei centri finanziari, ridurre gli spazi di democrazia e irrobustire le forme di controllo sociale. Un disegno agghiacciante che la quasi totalità dei media, oramai a servizio di quelli stessi poteri che hanno inscenato lo spettacolo, si è affrettata ad abbracciare senza vergogna.
Poi il Medio Oriente. Israele programma il genocidio dei palestinesi, Israele e gli USA lo attuano, l’Europa per un bel po’ fa finta di nulla, poi balbetta qualche critica ma si guarda bene da mettersi di traverso sul serio. Intanto Israele compie azioni di guerra e terroristiche quando vuole e contro chi vuole, sempre nel silenzio quando non col plauso dell’Occidente. Taccio su quella specie di accordo imposto da Trump. Comunque non sposta di una virgola il giudizio su quello che è stato.
Ce ne sarebbe abbastanza, ma se inseriamo questi avvenimenti nel bilancio dell’ultimo cinquantennio è impossibile non trarre conclusioni definitive.
Le contraddizioni del capitalismo sono arrivate a un livello insostenibile per gran parte dell’umanità. La guerra ne è una componente intrinseca, è una necessità ineliminabile per la sua sopravvivenza. La violenza, anche la più disumana, quando viene dal nostro mondo, è essa stessa diritto indiscutibile, sacrosanto perché contrasta il male che è tutto e solo dall’altra parte.
L’ambiente, sempre più devastato, è una subordinata da ignorare non appena diventi un ostacolo al profitto. La diseguaglianza nel reddito e nel potere cresce a vista d’occhio. Il lavoro viene precarizzato in ogni forma possibile e conseguentemente sottomesso. I diritti sociali sono sostituiti dagli armamenti la cui priorità viene imposta inventando pericoli inesistenti. La politica e i media sono controllati rigidamente e sfrontatamente dai poteri dominanti. La democrazia è divenuta un simulacro e se ne compromettono sempre più persino gli aspetti formali. L’individualismo estremo come modo di essere e il consumo come guida del comportamento sono i binari sui cui si vuole che scorra la vita umana.
E’ vero che questi fenomeni sono in una certa misura connaturati al capitalismo, ma mai nel passato erano stati simultaneamente presenti al livello che hanno raggiunto ai nostri giorni, perlomeno nell’Occidente. Come ci siamo arrivati? Tra le tante cause all’origine di questa escalation ne metto in evidenza una: la finanziarizzazione del capitale e la sua centralizzazione. Il dominio della finanza ha fatto saltare il rapporto fra ricchezza e produzione, vale a dire le categorie attorno alle quali sono cresciuti il capitalismo, il proletariato e la politica con le sue rappresentanze e la sua dialettica. Nel capitalismo industriale i gruppi monopolistici e oligopolistici esercitavano un forte condizionamento sui poteri pubblici, ma dovevano accettare che questi, sollecitati dal conflitto sociale, svolgessero un ruolo di mediazione. Oggi i grandi centri finanziari, sempre più concentrati, impongono direttamente la loro volontà agli Stati, sia mediante il personale politico che hanno promosso usando le leve di cui dispongono, sia mediante la minaccia di muovere imponenti risorse mettendo in pericolo la stabilità del paese che non volesse uniformarsi alle loro pretese. Nel liberismo che ci sovrasta, gli interessi privati, mentre fingono di rivendicare la libertà del mercato, si guardano bene dal chiedere allo Stato di farsi da parte; al contrario, si preoccupano soprattutto di usarne gli indiscutibili poteri a proprio esclusivo vantaggio.
Ciò nonostante, non è immaginabile che queste contraddizioni e questa regressione di civiltà si acutizzino fino a provocare una implosione del capitalismo, non tanto perché il sistema ha dimostrato in altre circostanze di saper superare le sue crisi, quanto perché nessuno osa proporre, e neppure pensare, cos’altro dovrebbe prenderne il posto. Se non si inizia il discorso da questo preciso punto nessuna di quelle contraddizioni potrà trovare una soluzione. L’alternativa sarà solo fra un ininterrotto degrado della condizione umana della grande maggioranza dei viventi nel glorioso Occidente e la catastrofe nucleare.
Il tema ineludibile col quale confrontarsi è allora quello di una radicale trasformazione del sistema, vale a dire il tema del socialismo. Non farlo equivale a parlare a vuoto e agire nella totale subalternità. L’autodichiarata diversità dalla destra o la condanna degli orrori che quotidianamente ci vengono mostrati se non diventano lotta per il socialismo, oggi non bastano neppure a salvarsi l’anima. Mai come ai nostri giorni l’alternativa fra socialismo e barbarie è l’essenza della politica.
Lotta per il socialismo. Perché si tratta di un processo, non c’è un sistema altro già confezionato da mettere al posto del capitalismo. C’è solo un movimento da costruire e delle conquiste da realizzare e sviluppare. Lotta perché sono i rapporti di forza, concetto da tempo messo in soffitta da quasi tutta la sinistra, che decidono chi va avanti e chi indietro. Lotta, perché c’è un avversario potente e capace di qualunque violenza (Gaza insegna), come delle forme più pervasive di dominio (basti vedere l’azione manipolatrice dei media). Chi non si rassegna e vuole impegnarsi per superarlo deve studiarlo, leggere per tempo i modi in cui si trasforma e, nello stesso tempo, deve tenere unite e allargare via via le proprie forze.
Per il socialismo, anche se è divenuta una parola di cui le classi dirigenti della sinistra occidentale sembrano quasi vergognarsi. Ma dove sta la superiorità morale del capitalismo? Sono abbastanza, per non parlare di tanto altro, due guerre mondiali, il colonialismo, lo schiavismo, il razzismo, i genocidi che hanno accompagnato la sua storia e garantito il suo successo? Gli Stati Uniti sono riusciti persino a fare del genocidio dei nativi americani un’epopea arrivando a farlo ammirare ai loro amici europei, e non solo. Neppure la Germania nazista e Israele dei nostri giorni, che dei genocidi probabilmente non hanno un’idea così “romantica”, hanno raggiunto un traguardo del genere.
Socialismo. Una volta riconosciuto che parliamo di un processo, non credo che scegliere una definizione canonica per fissarne il tasso di genuinità sia la priorità. Metto in fila gli obiettivi che mi sembra possano dare un senso preciso a un movimento della società che va in quella direzione. Pace, ricomposizione ed emancipazione del lavoro, eguaglianza, ambiente, assoluta prevalenza del bene collettivo sull’interesse privato nella guida dei processi economici, diritti sociali fondamentali esclusi dal mercato e diritti individuali garantiti da norme ineludibili, partecipazione.
In via di principio il processo può essere guidato da una forza rivoluzionaria che conquisti lo Stato, o sospinto dalle forze politiche che vi si ispirino attraverso le lotte sociali e la partecipazione delle masse dentro un quadro giuridico di tipo liberale. Perché affermare che lo si può fare in uno solo dei due modi? Sono le condizioni storiche che decidono cosa è possibile. Se guardiamo ai Paesi dell’Europa, è ragionevole immaginare che questo processo debba svolgersi all’interno di un quadro giuridico liberal democratico ed è pure credibile che possa essere avviato in tempi e modi diversi all’interno di ciascuno di essi. E si può anche pensare che un passaggio necessario sia quello di una fase di economia mista a capitalismo regolato dall’intervento statale che includa la pubblicizzazione e la diretta partecipazione alla gestione di settori considerati strategici sia ai fini dello sviluppo che per l’effettivo esercizio dei diritti sociali.
Per poter avviare una trasformazione della società, gli obiettivi prima ricordati vanno inseriti dentro una nuova cornice, una progressiva e reale indipendenza dagli USA e dal potere della grande finanza internazionale. Parlo di progressiva indipendenza perché una scelta netta e definitiva in questa direzione avrebbe potuto e dovuto compierla l’Europa, che invece ha fatto l’esatto contrario. Un Paese se la deve conquistare passo dopo passo in un percorso che deve mettere nel conto anche fasi di negoziazione con le maggiori istituzioni finanziarie. Se la politica resta ancorata agli interessi nazionali, tanto più se fa leva su quelli del mondo del lavoro e degli strati sociali più marginali, può realisticamente mettere in discussione lo schema che la vede subalterna ai grandi poteri, può far valere le sue ragioni e costringere i “padroni del mondo” a farci i conti. E’ un passaggio obbligato senza il quale ogni ambizione è pura velleità. Il più difficile degli obiettivi, ma il solo che può aprire la strada agli altri. Difficile, ma non impossibile se si riesce a presentare nella giusta contrapposizione il fatto che ad avvantaggiarsi dei favori che ricevono per la loro obbedienza sono soggetti che così difendono la loro carriera e il loro status a partire dalla politica e dall’informazione, mentre la grande maggioranza delle popolazioni da questa condizione di servitù ha tutto da perdere. La credibilità di chi dice di voler cambiare le cose passa da qui.
Veniamo all’Italia. I numerosi tentativi di costituire dall’alto o dal basso una forza di sinistra radicale esterna e in competizione con il centro-sinistra sono tutti falliti e non c’è niente che possa far pensare a un esito diverso qualora fossero rinnovati in forme più o meno simili. E’ opinione comune, però, che esiste una domanda molto ampia di profondo cambiamento degli assetti sociali, collocata sul piano politico soprattutto nell’area dell’astensionismo e in misura minore, ma non trascurabile, nello stesso spazio del centro-sinistra. Sul piano sociale, per contro, la condizione di evidente malessere che affligge gran parte del mondo del lavoro e del cosiddetto ceto medio oramai da tempo si incanala solo molto parzialmente in una corrente di matrice progressista. Quella domanda di cambiamento resta sotto traccia e quel malessere prende strade talvolta persino controproducenti per mille ragioni, ma primariamente perché, almeno dalla sconfitta subita dal movimento operaio negli anni ‘70 del secolo scorso e dalla estinzione del PCI, non gli viene più indicata una meta, un’idea diversa di società organicamente fondata su valori e relazioni umane alternativi a quelli imposti dal capitalismo. Gli elementi di socialismo, di cui parlava Berlinguer, per quanto vaghi potessero essere, segnalavano il bisogno e la possibilità di una trasformazione profonda che la sinistra politica prospettava alle classi subalterne e ai ceti popolari perché ne fossero gli artefici e, nello stesso tempo, indicava quella trasformazione all’intera società come una via di reale progresso per tutti.
Non c’è difesa contro la violenza, l’arbitrio e le guerre del capitalismo di questo nostro tempo, se non si alza il tiro sia sul piano delle idee che su quello dell’azione politica con esse coerente. La prospettiva della lotta per il socialismo oggi è mille volte più vitale di ieri, è persino l’unica forma efficace di resistenza. Come metterla in moto? Provo ad azzardare un’ipotesi di lavoro. Penso alla formazione di un’associazione nazionale e articolata nei territori che in un manifesto programmatico dichiari la volontà di operare per il socialismo facendo propri le discriminanti e gli obiettivi che connotano il processo che si intende avviare. Un luogo di analisi e di elaborazione collettiva aperto, dove possano confluire quanti vi si riconoscono, consentendo ovviamente la doppia militanza a coloro che già aderiscono a partiti o a organizzazioni sociali e sindacali. Un’associazione che prova a ricostruire una cultura socialista, ma che punta nello stesso tempo, attraverso i suoi aderenti, a far circolare e a rendere influenti le proprie idee e le proprie proposte perché divengano poco alla volta egemoni nell’ambito della sinistra, intanto recuperando alla partecipazione quanti se ne sono allontanati e, in tal modo, spostando in avanti gli equilibri interni alle forze organizzate. Da cosa nasce cosa. Purché nasca bene. Per essere credibile e attraente, questa ipotesi di lavoro richiede che la partecipazione paritaria ne sia il fondamento. Niente gerarchie, niente trampolini di lancio per le ambizioni personali, i coordinamenti, di cui nessuna associazione può evidentemente fare a meno, debbono essere solo ciò che la parola intende. La sinistra italiana, nonostante tutto, dispone ancora di tante validissime personalità che nelle più diverse discipline offrono preziosi contributi e che sono consapevoli dei pericoli che incombono e della necessità di contrastare un capitalismo la cui crisi ne acuisce la ferocia. E’ l’ora che almeno una parte di loro si decida ad agire collettivamente e a dichiarare che l’unica alternativa è lottare per il socialismo. Non si può chiedere al movimento che si è affacciato in queste settimane di avanzare una proposta di questo genere al momento lontana mille miglia dal suo orizzonte. E’ altrettanto certo, tuttavia, che tocca alle nuove generazioni guidare la lotta per la trasformazione della società. Si può credere che pure quel movimento e tanti giovani guarderanno con un po’ di attenzione quel manifesto programmatico se a lanciarlo non saranno i soliti noti della politica, ma saranno persone che si sono conquistate prestigio e autorevolezza anche grazie all’essere di parte, come si deve essere, in modo assolutamente disinteressato, e sono disposte a tentare di dare il via a un nuovo processo e ad accompagnarlo perché nella sua crescita si formi una nuova classe dirigente della sinistra.






































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