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Quando la sinistra tradisce il popolo: la strada che ha portato Kast al potere in Cile

di Fabrizio Verde

Il fallimento del progetto costituente, le concessioni al modello neoliberista e la gestione timida di Boric hanno creato il vuoto in cui è cresciuta l’ultradestra neoliberista

Con il 58,1% dei voti, José Antonio Kast è diventato il presidente più votato nella storia del Cile. La sua vittoria schiacciante su Jeannette Jara, candidata esponente del Partito Comunista ma espressione dell’intero centrosinistra, non è un incidente politico, né un colpo di scena improvviso. È il culmine di un processo lungo sei anni, innescato dal fallimento delle promesse di cambiamento emerse dal cosiddetto ‘estallido social’ del 2019 e accelerato dalle politiche implementate del governo di Gabriel Boric. Il Cile, dopo decenni di tentativi di superare l’eredità di Augusto Pinochet, ha consegnato le chiavi de ‘La Moneda’ a un uomo che non solo ne riconosce apertamente l’eredità, ma la venera apertamente e con orgoglio.

Kast, fondatore del Partito Repubblicano, ha vinto in tutte e sedici le regioni del paese, compresi bastioni storici della sinistra come Valparaíso e la Regione Metropolitana di Santiago.

Il suo trionfo segna il ritorno del pinochetismo al potere, questa volta non attraverso un golpe violento, ma con un processo elettorale. Ed è proprio qui la tragedia: il fallimento della sinistra non è stato tanto elettorale quanto politico, morale e programmatico. Gabriel Boric, eletto nel 2021 sulla scia di un movimento di massa che chiedeva giustizia sociale, una nuova Costituzione e la fine del modello neoliberista, ha finito per diventare il principale artefice della rinascita della destra più dura e fanatica.

Il suo governo, in carica dal 2022 al 2026, è stato un catalogo di contraddizioni. Da un lato, ha approvato riforme simboliche come la riduzione dell’orario lavorativo a 40 ore e alcuni aggiustamenti al sistema pensionistico. Dall’altro, ha tradito le radici del cosiddetto ‘estallido’ ratificando il Trattato Transpacifico (TPP), accordandosi con la famiglia di Pinochet per la gestione delle risorse di litio e mantenendo lo stato di emergenza nella regione della Araucanía. Ha salvato il sistema sanitario privato (Isapres) e consolidato le fondazioni pensionistiche (AFP), senza mai mettere in discussione le strutture economiche ereditate dalla dittatura fascio-liberista. Il tutto mentre la criminalità organizzata e l’insicurezza prendevano piede, temi che la destra ha saputo strumentalizzare con maestria.

In questo vuoto, José Antonio Kast ha costruito il suo impero politico. Figlio di Michael Kast, membro del Partito Nazionalsocialista Tedesco dal 1942 e ufficiale dell’esercito di Hitler, José Antonio ha sempre cercato di nascondere, quando non negare apertamente, il passato nazista del padre. Ha addirittura sostenuto che questi fosse un semplice recluta costretto a combattere, travisando i documenti storici che attestano la sua iscrizione volontaria al partito. Emigrato in Cile nel 1950, Michael Kast si stabilì a Paine e contribuì a costruire una famiglia che sarebbe diventata un pilastro del conservatorismo cattolico e autoritario.

José Antonio Kast, da deputato, ha votato contro la legge sul divorzio, contro la distribuzione della pillola del giorno dopo e contro ogni tentativo di limitare il lucro nell’istruzione. Ma quello che davvero inquieta è la sua aperta ammirazione per Augusto Pinochet. Non solo ha sostenuto il Sì nel plebiscito del 1988, ma ha visitato in carcere noti criminali condannati per crimini di lesa umanità e ha dichiarato con orgoglio: «Se Pinochet fosse vivo, avrei votato per lui. Avremmo preso il tè insieme». Suo fratello Miguel fu presidente del Banco Central durante la dittatura.

Il Kast presidente sarà però soprattutto il campione del neoliberismo più radicale, al pari dell’argentino Javier Milei. Le sue promesse di campagna non riguardano solo la repressione dell’immigrazione - con muri, trincee elettrificate e deportazioni immediate - ma anche una drastica ristrutturazione economica in stile Chicago Boys. Ha annunciato tagli di spesa pubblica per 6 miliardi di dollari, licenziamenti di massa nel settore statale, riduzione delle tasse, deregolamentazione degli investimenti esteri e una politica esplicitamente contraria a qualsiasi forma di intervento pubblico nell’economia. È la stessa ricetta che, negli anni Ottanta, sotto la dittatura, portò il Cile al tracollo: disoccupazione al 19,6%, Pil crollato del 13,4% e quasi la metà della popolazione in povertà entro il 1990.

Il paradosso è che il Cile post-Pinochet non ha mai smantellato quel modello. La coalizione di centro-sinistra della Concertación, al potere dal 1990 al 2010, lo ha solo “addolcito”, senza mai sfidarne le fondamenta. Così, il malcontento accumulato per decenni è esploso nel 2019, chiedendo non solo riforme, ma una nuova Costituzione. Boric ne è stato il simbolo, ma non il realizzatore. E oggi, mentre Kast prepara il suo “governo di emergenza”, il paese si trova di fronte a un bivio storico.

La storia insegna che il neoliberismo, pur presentandosi come soluzione tecnocratica, è una ideologia politica che concentra ricchezza, cancella ogni barlume di democrazia e alimenta il terreno per l’estrema destra. Lo ha dimostrato il Cile sotto Pinochet, lo sta dimostrando l’Argentina sotto Milei e ora lo conferma la vittoria di Kast. La sinistra cilena, frammentata tra burocrati tecnocratici e movimenti senza radicamento istituzionale, non è riuscita a offrire un’alternativa credibile. E così, tra disillusioni e tradimenti, il Cile ha scelto l’autoritarismo economico vestito da ordine pubblico.

Il 11 marzo 2026, José Antonio Kast indosserà la fascia presidenziale. Con lui, il Cile non solo riammetterà il pinochetismo nelle stanze del potere, ma rischierà di ripetere gli errori di un passato che non è mai stato davvero superato. Intanto i mercati applaudono galvanizzati mentre le piazze per adesso tacciono.

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