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Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

 

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.

Nel corso degli anni Ottanta l’obiettivo di controllo dell’inflazione aveva finito per prevalere sulla lotta alla disoccupazione. Hahn, studioso di equilibrio economico generale, tutt’altro che un eterodosso su piano scientifico e di orientamento politico liberale, arrivava ad affermare in quell’intervista che «il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice».

 

C’era una volta il PCI

Consapevolezza del fatto che tra irrigidimento del cambio e piena occupazione ci fosse un potenziale conflitto aveva del resto mostrato il PCI quando, nel 1978, si era opposto all’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo. Durante la discussione alla Camera, l’allora on. Napolitano aveva evidenziato come l’adesione allo SME, in presenza di una “tendenza” della lira a svalutarsi rispetto al marco tedesco, avrebbe determinato la necessità di adottare politiche restrittive: «il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita».

Un quindicennio dopo, agli inizi degli anni Novanta, la posizione delle forze politiche, anche quelle di sinistra, è ben diversa. Nel frattempo molte cose sono del resto cambiate, sul piano politico economico e culturale. Il decennio segnato dall’egemonia reaganiana e thatcheriana ha segnato profondamente gli orientamenti di politica economica in tutti i paesi. Il vecchio modello di crescita, caratterizzato dall’aumento dei consumi di massa trainato dalla crescita dei salari è ormai un ricordo, lo si è sostituito con l’invito ad arricchirsi, a sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo dei mercati finanziari, dalla mobilità dei capitali. La crescita delle diseguaglianze non è percepita come un problema, ma semmai come un ostacolo al perseguimento dell’efficienza e all’ampiamento dei margini di profitto. Di questo nuovo modello, che incoraggia l’indebitamento privato, si vedrà l’esito con la crisi finanziaria del 2007.

 

Poi venne Maastricht, la moneta senza Stato

È in questo contesto culturale che viene definita l’architettura dell’Unione europea e vengono disegnate le istituzioni che porteranno all’Unione monetaria e all’adozione dell’euro. Il Trattato di Maastricht è figlio di quest’epoca e si vede.

Alla Banca centrale europea, concepita sul modello della Bundesbank, viene assegnato un mandato limitato al perseguimento della stabilità dei prezzi. Una differenza non marginale rispetto alla “cugina” americana, visto che alla Federal Reserve persegue l’obiettivo di controllo dell’inflazione congiuntamente a quello di massimizzare l’occupazione. Un mandato definito in modo così ristretto è del resto una logica conseguenza del fatto che la BCE viene costituita come istituzione sovranazionale, in assenza di una vera controparte politica dotata di un’autonoma capacità fiscale. L’euro nasce come esperimento di “moneta senza Stato”.

Si può ben argomentare che la natura tecnica della BCE sia in realtà una finzione. All’interno del direttorio il peso politico degli stati conta eccome e del resto non potrebbe essere altrimenti, essendo del tutto fantasiosa l’idea di una politica monetaria che non abbia, per l’appunto, un carattere fortemente politico. La vernice “tecnica” che si dà all’istituzione di Francoforte ha semmai l’effetto di renderne l’indirizzo politico meno trasparente, funzione di rapporti di forza che riflettono il grado di “ricattabilità” dei paesi in funzione della loro esposizione alle pressioni dei mercati finanziari. Nella intervista già citata, Frank Hahn aveva affermato che è «difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante» di una Banca centrale europea in assenza di un governo federale.

 

L’imperativo della mobilità dei capitali

Nel sottolineare questi aspetti non vorremmo dare l’impressione che l’impianto del Trattato di Maastricht e della moneta unica sia stato definito nella totale inconsapevolezza dei protagonisti dell’epoca. Le scelte di quegli anni arrivarono dopo quasi due decenni di tentativi di trovare una nuova definizione dei rapporti tra valute dopo la fine del sistema di Bretton Woods. Nell’ambito di tale sistema la stabilità dei cambi veniva assicurata dalle limitazioni dei movimenti dei capitali e della possibilità di aggiustamenti concordati del cambio in presenza di squilibri fondamentali tra le economie. Vent’anni dopo il problema era ulteriormente complicato dalla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata nel corso degli anni Ottanta e fissata come uno dei cardini, una delle “quattro libertà” che segnavano il passaggio dalla Comunità economica all’Unione europea. È noto come fissità del cambio, mobilità dei capitali e conduzione di un’autonoma politica monetaria rappresentino una “triade impossibile”: delle tre, almeno una deve essere necessariamente abbandonata. Dopo la difficile esperienza del Sistema monetario europeo, culminata per il nostro paese con l’uscita forzata dopo la svalutazione traumatica del settembre 1992, sembrò che la soluzione fosse quella di rilanciare: la moneta unica avrebbe escluso la possibilità di ripetere tale esperienza rendendo il cambio immodificabile e avrebbe consentito di recuperare una relativa capacità di gestione della politica monetaria a livello sovranazionale. La verità è che si era affermata la convinzione, di impronta monetarista, che le politiche di stabilizzazione macroeconomica dovessero avere un ruolo ben più limitato di quanto indicato dall’impianto teorico keynesiano. Anche per questo sembrò che il prezzo da pagare, la rinuncia all’utilizzo della leva monetaria, fosse modesto.

Venne scartata l’alternativa del cambio flessibile. Si diceva che un cambio flessibile avrebbe comportato ostacoli al commercio intracomunitario, ma nessun economista internazionale darebbe credito a un’argomentazione del genere. È invece chiaro che il cambio flessibile avrebbe ostacolato la mobilità dei capitali, che evidentemente non si voleva in alcun modo sacrificare.

 

Il modello tedesco e la cura degli squilibri a colpi di austerità

Il modus operandi della BCE era ispirato, lo abbiamo detto, a quello della Bundesbank, con il suo orientamento “conservatore” e una nozione estrema di indipendenza dalla politica (indipendenza che, come abbiamo detto, non esclude che le scelte della banca centrale avessero una rilevante dimensione politica). La storia monetaria della Germania federale racconta l’utilizzo della leva monetaria come strumento di contenimento delle richieste sindacali, e quindi della competitività attraverso il contenimento dei costi, nonché di promozione di una moneta forte in grado di attrarre capitali da impiegare nel finanziamento del commercio estero.

La creazione dell’euro nei fatti era coerente con l’estensione all’intera area del “modello tedesco”, di un’economia orientata all’export, che non esita a contenere la domanda interna per mantenere un avanzo di parte corrente. Anche da questo punto di vista l’unione si presentava come una sfida alla ragione economica. Il compianto Marcello De Cecco, che pure non ha mai ritenuto che vi fossero alternative all’adesione all’euro, sottolineava un poco “invidiabile” primato storico della zona euro: «è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla.»

La speranza, o l’illusione, di coloro che vedevano nell’unione monetaria un’occasione per attuare, liberati dal vincolo della difesa della valuta, politiche espansive e favorevoli alla crescita, doveva scontrarsi con la realtà dei rapporti di forza interni all’UE. Come è stato reso evidente dalla risposta alla crisi dei debiti sovrani, nell’Europa dell’euro ha sempre prevalso l’idea che gli squilibri andassero curati a colpi di austerità e che il problema fossero l’eccesso di indebitamento e la crescita della spesa pubblica.

 

Vincolo esterno, scelte impopolari e prive di sostegno democratico

Ma non è nostra intenzione caricare di eccessive responsabilità la Germania. Il tema del rapporto tra Europa e lavoro ha molto a che vedere anche con il modo in cui l’appartenenza all’Unione è stata interpretata dalla classe politica nazionale. L’idea del «vincolo esterno» capace di far apparire come necessarie scelte impopolari e prive di sostegno democratico è stata oggetto di numerose analisi.

In un saggio scritto insieme a Lucio Baccaro [Baccaro e D’Antoni, 2022] abbiamo provato a capire in che misura l’utilizzo del vincolo europeo possa essere alla base della stagnazione economica italiana a partire da metà anni Novanta. La nostra tesi è che il vincolo sia stato utilizzato per «forzare» un insieme di riforme di impronta neoliberale che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto realizzare la modernizzazione economica del Paese, liberando il sistema dai vincoli di natura ideologica (incarnati dalle tradizioni “popolari” cattolica e comunista) e istituzionale che frenavano un pieno dispiegamento delle forze della concorrenza.

Nello studio prendiamo in esame l’utilizzo del vincolo esterno dal punto di vista delle politiche di bilancio, di quelle industriali e delle politiche del lavoro, mostrando come in ciascuno di questi ambiti gli effetti siano stati ben diversi, probabilmente di segno contrario, rispetto a quanto preventivato. L’analisi può arrivare a giustificare la conclusione che sarebbe stato meglio ritardare o addirittura evitare l’ingresso del Paese nella moneta unica.

 

La progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro

Con riferimento specifico al mercato del lavoro, ovvero l’aspetto che più da vicino rileva per questo intervento, l’adesione alla moneta unica ha favorito e giustificato la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, iniziata con le «riforme Treu» a fine anni Novanta, e proseguita fino alla riforma dell’art. 18 attuata dal governo Renzi, passando per il progressivo allentamento dei vincoli all’utilizzo dei contratti temporanei da parte dei governi Berlusconi. L’effetto della riduzione delle garanzie a tutela del lavoro è stato quello di aumentare l’incidenza di forme precarie di occupazione. L’adozione del vincolo esterno del cambio super-fisso ha costretto alla rimozione del «vincolo interno» del mercato del lavoro, consentendo la creazione di lavori a basso costo e bassa tutela. Ciò ha consentito a molte imprese di sopravvivere in una situazione di perdita di competitività, ma ha anche scoraggiato gli investimenti per la creazione di lavoro qualificato. In una situazione di elevata sostituibilità del lavoratore e accorciamento dell’orizzonte temporale dell’impiego in una stessa impresa, né impresa né lavoratore hanno incentivo a investire in capitale umano. La modesta dinamica della produttività osservata dall’adozione dell’euro in poi nel nostro Paese trova qui una spiegazione ben più convincente rispetto ad altre interpretazioni che puntano il dito sulla mancanza di meritocrazia o altri mali antichi del nostro Paese.

 

I peccati di ingenuità della sinistra

Il nostro sommario richiamo ad aspetti che sono ormai noti nel dibattito lascia aperti diversi interrogativi. Alcuni relativi al passato. Perché la sinistra ha aderito in modo così acritico a un processo di integrazione attuato con modalità che indebolivano la sua base sociale di riferimento? Perché il mondo culturale e accademico progressista non ha saputo mettere insieme elementi e conclusioni consolidate nell’analisi economica, così da evidenziare per lo meno sui rischi cui si stava andando incontro? Naturalmente, la dimensione economica è solo un aspetto della questione. L’ampio consenso con il quale sono stati accolti i passaggi che hanno portato prima al mercato comune, poi alla comunità economica e infine all’unione economica e monetaria, sono stati giustificati, in particolare a sinistra, con l’idea che il governo dei processi di globalizzazione e la protezione dalle turbolenze dei mercati finanziari e valutari rendessero necessaria una dimensione adeguata, ben superiore a quella degli stati nazionali. Ora vediamo più chiaramente che anche da questo punto di vista si è peccato, quanto meno, di ingenuità: lungi dal rappresentare una protezione, l’Unione europea è diventata in molte occasioni veicolo di quelle stesse forze dalle quali avrebbe dovuto fornire protezione.

 

L’illusione di «correggere» con una «vera» unione politica e fiscale

Una seconda e più fondamentale domanda riguarda le prospettive. Quali sono gli spazi per attenuare i vincoli descritti e tornare a proporre politiche favorevoli al lavoro e in grado di limitare l’erosione dei sistemi di welfare? Una risposta a questa domanda appare particolarmente difficile. Se da un lato è irrealistico immaginare di tornare indietro, smantellando l’architettura creata in questi trent’anni, dall’altro appare ugualmente velleitaria la prospettiva di chi immagina di «correggere» tale architettura completandola con una vera unione politica e fiscale. Per tale obiettivo mancano infatti le condizioni minime. Ingredienti base sarebbero sul piano fiscale un meccanismo di trasferimento e redistribuzione comunitario analogo a quello di un vero stato federale, sul piano politico un cambiamento istituzionale radicale, che sostituisca l’approccio intergovernativo con forme di partecipazione politica e democratica a livello di Unione che non si vedono all’orizzonte. Non basterebbe infatti un’operazione di ingegneria istituzionale, sarebbe necessario creare un vero «demos» europeo. Qualcosa che appare tano meno probabile quanto più l’unione si allarga per includere paesi distanti culturalmente e per collocazione geo-politica.

 

Il nodo della collocazione geopolitica

Se non è possibile andare né avanti né indietro, in termini pragmatici ciò che si può fare è cercare di conquistare, nel contesto presente, quanto più spazio è possibile per la difesa delle ragioni del lavoro e della giustizia sociale. In questo senso, comprendere la natura dei vincoli e dei processi che li hanno generati può essere un passo importante per non farsi trovare impreparati e non ripetere in futuro gli stessi errori. Del resto, la situazione è ben lungi dall’essere immobile. Non ci sembra azzardato affermare che le dinamiche puramente economiche hanno oggi meno rilevanza che nel passato prossimo e sembrano invece piegarsi alla logica di trasformazioni di altra natura. Prima fra tutte il ridisegno dei rapporti internazionali, con la probabile fine del modello unipolare che ha caratterizzato il periodo successivo all’implosione del blocco sovietico. Da questo punto di vista, una capacità di lettura della realtà che non si limiti alle categorie economiche ma le integri con una conoscenza interdisciplinare, che tenga adeguatamente conto della dimensione geo-politica, appare quanto mai urgente.

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