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paroleecose2

Torniamo a parlare di lavoro. Facciamolo collettivamente

di Gianluca De Angelis

grandidimissioniCon Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023), Francesca Coin dà voce a un dibattito di cui in Italia c’è un tremendo bisogno e lo fa in modo intelligente e comprensibile, senza lasciarsi naufragare dalla riflessione teorica o statistica da cui parte e centrando nel vivo la questione: arrivat3 a questo punto, perché lavoriamo?

È un libro per tutt3, che parla a chi un lavoro lo cerca, perché sappia cosa attendersi, a chi ce l’ha, perché possa trarne di meglio, e a chi sta pensando di lasciarlo, perché possa sentirsi meno sol3. È un libro che parla soprattutto attraverso le voci di chi il lavoro l’ha mollato, questo ne fa un volume a tratti duro da leggere. Le dimissioni sono infatti liberatorie, arrivano dopo le sofferenze, le discriminazioni, l’impotenza. Sono l’atto finale di una storia di costrizioni, che danno potere a chi se ne va togliendone al padrone, che spesso nemmeno lo sarebbe davvero – padrone, ma che ugualmente “gioca a fare dio” con l3 dipendenti.

Le storie prendono forma nei contesti lavorativi più esposti alla fuga de3 dipendenti in Italia: la sanità, la ristorazione, la grande distribuzione. Spesso sono storie di lavoratrici. Perché è quello di genere il terreno sul quale le contraddizioni del lavoro in Italia si manifestano più acutamente: l’induzione all’amore incondizionato che è ancora oggi la base dell’educazione delle fanciulle[1] si riorienta verso il posto di lavoro, dove, come nelle case, soffoca ogni barlume di emancipazione. Il lavoro femminile vale meno di quello maschile. Non si tratta solo di gap salariale, ma anche dello spazio che il lavoro può rivestire nella vita di una lavoratrice quando è anche madre e figlia.

Il lavoro femminile in Italia è pensato e organizzato in modo da risultare ancillare, ciò di cui si può fare a meno: ho fatto un salto nel vuoto, dice una delle intervistate, anche se saltavo da due centimetri e mezzo.

La sofferenza sul lavoro è esasperata dalle discriminazioni. C’è la rabbia, a volte soffocata dalla convinzione che non si possa avere di più per via dell’orientamento sessuale, per la provenienza geografica e il ricatto dei documenti, ma nelle storie che racconta Francesca Coin la sofferenza è anche quella endemica legata all’organizzazione del lavoro. Lo si comprende bene nelle esperienze di chi si è dimesso dal settore della sanità dal 2020 in poi. Dopo l’esperienza della paura, degli straordinari non pagati, dopo i contagi, la consapevolezza che il 2020 avesse fissato un nuovo standard di dedizione al lavoro ha spinto molt3 a lasciare la sanità pubblica, aggravando le condizioni di chi è rimasto. Si tratta di un circolo vizioso destinato a stringersi sempre di più sui settori della cura. Da un lato l’invecchiamento, sia della popolazione che accede ai servizi, sia della popolazione al lavoro, dall’altro le miopi strategie di risparmio giocate sulla pelle di chi lavora nei servizi pubblici, dal new public management al ricorso agli appalti. Si tratta di fenomeni che insieme concorrono alla perdita delle competenze necessarie affinché il pubblico non sia condannato a essere la seconda scelta, sia per le carriere sia per chi accede ai servizi.

L’accento sulla portata liberatoria delle dimissioni, che l’autrice pone attraverso le parole di chi racconta le proprie esperienze, non deve ingannare. Le dimissioni non rappresentano la via miracolosa per l’emancipazione. Al contrario, si tratta di un movimento individualizzato e disorganizzato, che nasce e si sviluppa nel solco delle grandi fratture che caratterizzano il mercato del lavoro italiano e con l’evidente rischio di accrescere la diseguaglianza. A dimettersi non è solo chi può permettersi di rinunciare a uno stipendio per qualche mese. A dimettersi è sempre di più anche chi non può fare a meno di lavorare. È inevitabile che i destini dei primi non potranno che intrecciare solo casualmente quelli dei secondi. Tuttavia, le dimissioni finiscono con il rappresentare l’unico fenomeno che negli ultimi anni si è dimostrato globalmente (in senso economico) in grado di interrogare la classe imprenditoriale e politica sulle condizioni di vita e di lavoro. Le dimissioni rappresentano, in questo senso, l’esito inevitabile di un doppio fallimento – sostiene l’autrice – quello delle organizzazioni sindacali, inefficaci nell’organizzare adeguate risposte collettive, e quello della classe padronale, finalmente incapace di addomesticare completamente la forza lavoro.

È solo alla fine, insomma, che Francesca Coin identifica l’elefante nella stanza che ha costruito di capitolo in capitolo: il discorso collettivo sul lavoro è il grande assente. Manca nel libro, perché manca nell’esperienza dei lavoratori e delle lavoratrici che hanno trovato nella fuga la sola occasione di riscatto.

È a partire da questa assenza che è però possibile recuperare le coordinate per una ricostruzione del senso collettivo del lavoro. In parte, alcune di queste tracce sono presenti nelle conclusioni del volume: riprendono le esperienze dei lavoratori e delle lavoratrici intervistat3, ma anche quelle di lotta del collettivo di fabbrica ex-GKN. In altra parte, alcuni elementi vorrei aggiungerli io, andando al di là della recensione a questo bel libro – che considero conclusa.

La questione è che se le dimissioni – in quanto fenomeno sociale – hanno conseguito il titolo di ‘grandi’, ciò è dovuto essenzialmente alla narrazione statunitense. Dove per cultura, condizioni economiche e dinamiche del mercato del lavoro le dimensioni del fenomeno indagato sono ben diverse da quelle nostrane. I dati disponibili in Italia ci dicono qualcosa di diverso: per quanto in crescita, le dimissioni sono in realtà poche, o meglio, ‘piccole’, per restare sul medesimo sistema di misura. Da un lato sono meno di quelle che potrebbero essere se consideriamo che in alcuni dei settori più interessati, come la ristorazione e il lavoro di cura, il sommerso è molto diffuso e quindi chi lascia un lavoro irregolare lo fa nel silenzio statistico. Dall’altro lato, ciò che sappiamo delle condizioni di lavoro in determinati settori è che il malessere è tale da rendere più interessante – ai fini della ricerca – le ragioni della permanenza al lavoro che non il suo abbandono. Un secondo elemento che rimette al centro l’urgenza di una narrazione collettiva del lavoro è la questione del suo ‘rifiuto’, anch’essa evocata nel sottotitolo del volume e che probabilmente è uno dei temi di maggior richiamo, non solo per la storia dei movimenti del secolo scorso che rivendicavano una vita al di là della subordinazione, ma anche per via del più recente dibattito attorno alla carenza di manodopera in determinati settori. Stando ai dati, chi lascia un lavoro da dipendente, in larga parte, ne trova un altro in un tempo relativamente breve. I dati ripresi dalla stessa Francesca Coin lo dicono, come pure quelli che mi sono trovato ad analizzare per alcune analisi dedicate alle dimissioni nel campo della care economy. Per quanto riguarda questo secondo caso, il 58,5% di chi si è dimesso tra il 2019 e il 2021 ha trovato una nuova collocazione entro il III trimestre del 2022; il 25% ha lasciato il lavoro mentre già ne aveva un altro e la metà di chi ha lasciato l’impiego in quel periodo ne ha trovato un altro entro qualche mese[2]. Ma non si tratta solo di lasciare un lavoro per trovarne un altro. La quota maggiore di chi lascia un lavoro in un determinato settore lo ritrova nello stesso settore di provenienza. Questo è vero in alcuni settori più di altri. Lo è senz’altro nel caso dell’istruzione e del sistema sanitario, mentre lo è di meno nell’assistenza sociale non residenziale e nelle attività svolte presso le famiglie come colf e badanti. Chi lascia un lavoro perché ha bisogno di un lavoro migliore, per lo più cercherà nell’ambito in cui ha più contatti e in cui le competenze acquisite possano trovare un riconoscimento; si cambia settore quando questa possibilità viene meno. Il fatto che alcuni settori siano meno in grado di trattenere le persone che lasciano un impiego ci dice che in quei settori trovare un impiego migliore di quello che si lascia è difficile.

Da un lato, insomma, le dimissioni diventano un indicatore capace di toccare le molte dimensioni del deterioramento delle condizioni di lavoro; dall’altro, proprio perché rischiano di incrementare le diseguaglianze, determinano l’urgenza di un’azione collettiva capace sia di ridurre lo scadimento delle condizioni di impiego, sia di rimettere al centro della narrazione sul lavoro il suo significato pubblico e collettivo, al di là della cornice settoriale o aziendale che inquadra il rapporto di lavoro. Si tratta, per certi versi, di sottrarre il tale rapporto alla logica privatistica e strumentale che rende poco attrattiva un’attività fondamentale per la sopravvivenza, come quella nell’ambito sanitario o nella gestione dei rifiuti, mentre ci fa percepire migliore una professione che non serve ad altro che non sia accumulazione di profitto. Per farlo, è necessario in primo luogo mettere mano a quei dispositivi che fanno del lavoro un fatto privato, dal welfare aziendale, ai fringe benefit, i buoni pasto e tutte quelle altre misure e dispositivi extra-salariali utili solo a dividere e frammentare gli orizzonti della classe lavoratrice.

In secondo luogo, mi pare necessario ripartire dal perimetro largo della cura, intesa come responsabilità reciproca e valorizzazione dell’interdipendenza tra gli esseri viventi e i loro ecosistemi. Mi rendo conto che scritto così sembra un qualcosa di astratto o di irraggiungibile. Ma non lo è. Già oggi, dove le condizioni di lavoro sono un po’ più sostenibili di quelle italiane, il tema del rifiuto del lavoro prende la forma della diserzione della domanda di lavoro per ragioni dovute alla scarsa attenzione all’ambiente delle imprese. La stampa anglosassone – e quella italiana che la rincorre – parla di climate quitting, che fa riferimento alla dimissione come critica al posizionamento delle imprese rispetto al cambiamento climatico[3], mentre in Francia, dove il dibattito sulla questione ha probabilmente preso vita, da oltre un anno si parla del movimento dei déserteurs[4]. Quale che sia la declinazione preferita, la questione sollevata è parte di quel disallineamento valoriale – per dirla ancora con Francesca Coin – che permette una risignificazione del concetto di lavoro, spostando l’attenzione dalle condizioni in cui si svolge l’attività produttiva – la cornice del lavoro – alle attese che i giovan3 lavorator3 ripongono in quella stessa attività, ovvero il contenuto del lavoro e il suo inevitabile impatto. Ecco, questo spostamento dell’attenzione, dalla cornice al contenuto è, a mio parere, l’occasione per la definizione di un terreno di lotta e di emancipazione finalmente collettiva. Si tratta, in ultima istanza, di recuperare le basi della partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alla definizione degli obiettivi del sistema produttivo, restituendo al lavoro e alla sua organizzazione la democraticità che abbiamo perduto.


Note
[1] Il riferimento è alla spaventosa attualità che rischia di avere ancora oggi la pedagogia di F. Fénelon, elaborata nel 1687.
[2] Altri dati sono stati recentemente pubblicati in un articolo sul numero 109/2023 della rivista Gli Asini, reperibile a questo indirizzo: https://gliasinirivista.org/dal-lavoro-di-cura-alla-cura-del-lavoro-il-senso-della-diserzione/
[3] Un’ottima sintesi degli studi sull’argomento è quella di Alice Facchini, sull’Essenziale. Qui: https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/alice-facchini/2023/04/24/climate-quitters-lavoro-ambiente.
[4] Il mensile Alternatives Economiques ha dedicato molto spazio al fenomeno delle dimissioni e al rifiuto del lavoro per ragioni di carattere ecologista. Un esempio è questo articolo di Justine Canonne che rimanda agli appelli dei giovani ingegneri di Agro Parsi Tech: https://www.alternatives-economiques.fr/ecologie-ingenieurs-veulent-deserter/00103826.

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