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neronot

Cosmotecnica e Tecnodiversità

Una conversazione con Yuk Hui

di Enrico Monacelli

Schermata del 2021 08 08 21 47 18«They’re making their last film / and they say it’s the best / and you can help make It / it’s called The Death of the West», cantava Douglas P. in una delle sue filastrocche più famose. Dava voce a un senso di fine che ha accompagnato l’Occidente probabilmente dai suoi esordi. Alla convinzione, più o meno fondata a seconda dei rivolgimenti storici, di vivere in un impero in decadenza.

Questa sensazione si è certamente intensificata in questo anno. Un anno putrido, passato respirando a malapena, alienati dalle nostre funzioni primarie e terrorizzati dall’ombra lunga di imperi lontani. Ricordo come un miraggio le mandibole serrate mentre scrivevo un trionfalistico j’accuse contro Giorgio Agamben all’inizio del primo lockdown, proprio per queste pagine. Rileggendolo alla luce dell’angoscia provata in questi mesi, era chiaramente una richiesta d’aiuto di un buono a nulla davanti alle macerie che gli rotolano contro.

Uno dei pochi antidoti davanti all’idea che tutto stia finendo, almeno per me, è stato leggere Yuk Hui, attento studioso della tecnica e della Cina, del passato della nostra specie e del suo avvenire. Hui è un vero esorcista dei nostri toni apocalittici e uno dei pensatori più affascinanti e intransigenti che ci restano. Qui abbiamo fatto quattro chiacchiere sul suo libro, recentemente tradotto in italiano, Cosmotecnica.

* * * *

Enrico Monacelli: L’edizione italiana del tuo libro, The Question Concerning Technology in China, riporta in copertina una parola strana, specialmente per chi non ha familiarità con il tuo lavoro: Cosmotecnica.

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iltascabile

Marx dovrà aspettare ancora

di Pietro Bianchi*

Ritornando al suicidio del gemello Camillo, l’ultimo film di Marco Bellocchio riflette sulla morte e la responsabilità

e8d259b6 e598 11eb b02e abf05f14a13dCapita spesso nella vita di avere un alter-ego: un amico coetaneo, un fratello o magari addirittura un gemello o un coscritto nato il proprio stesso giorno e con il quale si è cresciuti. È la prossimità più assoluta che mostra in modo più nitido la distanza, quando magari la vita anche a fronte di condizioni sociali o familiari simili porta a prendere scelte diverse e a separare le proprie esistenze. È quello di cui racconta A Letter to You, l’ultimo album di Bruce Springsteen, in cui si ritorna ai tempi dei Castiles, un gruppo che a metà degli anni Sessanta calcava i palchi dei bar della riviera del New Jersey riscuotendo un discreto successo locale. Allora il leader della band era un tale George Theiss. Nell’intensa “Last Man Standing”, Springsteen prova a ricostruire il suo sguardo di allora, pieno dell’ammirazione del comprimario che guarda colui, Theiss, che sarebbe certamente diventato una star e che era capace già allora di attirare il desiderio della folla: “You take the crowd on their mystery ride”. 

Ma i Castiles si sciolsero nel 1968 e George Theiss decise di sposarsi ad appena vent’anni. Iniziò a lavorare come muratore e rimase a suonare nei bar della riviera durante i weekend per il resto della vita mentre Springsteen diventava una star planetaria. In una recente intervista per Rolling Stone la moglie di Theiss racconta che per il marito non fu sempre facile vedere l’esplosione di successo di quello che a diciotto anni era soltanto il primo chitarrista della sua band, fino a che a una festa a casa di Springsteen pochi anni fa Theiss si scoprì incapace di salire sul palco per una jam session con il Boss, tanto la situazione lo faceva soffrire. 

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machina

Appunti sulla crisi della forma-rivista

di Lanfranco Caminiti

0e99dc e0fd5a5471bb40689f7a212067b05ca6mv20. Di cosa parliamo 

0.1. alla voce «rivista» il dizionario De Mauro on line dice: a) pubblicazione periodica che intende offrire una rassegna delle conoscenze in un determinato campo e si distingue per il carattere specialistico degli interventi; b) periodico ad alta tiratura, riccamente illustrato e destinato a un pubblico non specializzato al quale offre aggiornamenti d’attualità e di costume, rubriche fisse, corrispondenza con i lettori, ecc. Qui – senza obbligatoriamente assumere una visione sfigata o elitaria delle cose – ci riferiamo con più attinenza alla prima definizione a), dove «specialistico» può essere interpretato come «punto di vista» e «approfondimento» (la seconda, è ormai invalsa l’abitudine di definirla magazine). Aggiungendovi due elementi costitutivi: un gruppo di lavoro (una redazione, per lo più volontaria) che si riunisce intorno a un «progetto di idee» (anche nel caso di una rivista «accademica» e/o universitaria) e il carattere «non convenzionale», controtempo. D’altro canto, questa precisazione comporta il riferimento a un «lettore di progetto», che è un altro elemento costitutivo. Senza necessariamente affondare nei riferimenti storici alle gazzette del Settecento, quello di cui si parla è il «processo virtuoso» – a esempio nel Novecento – tra il lavoro intellettuale di avanguardie (artistiche, letterarie, politiche) e l’interpretazione (anticipazione, formazione) di sommovimenti sociali a venire (nel gusto, nella comunicazione, nella produzione, nel fare storia). La rivista (quella della definizione a)) è stata una forma propria della relazione fra il lavoro intellettuale (in cooperazione) e lo spazio pubblico. È ancora così? 

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machina

Angelo Del Boca: uno storico in difesa dei senza voce

di Matteo Dominioni

Dalla penna di uno dei suoi principali allievi, una nota biografica sul lavoro politico ed intellettuale di un uomo e di uno storico che controcorrente ha raccontato l’indicibile e contribuito a svelare il rimosso coloniale in Italia

0e99dc 6b40bb2710124dc6a59613422fa50cb3mv2Angelo Del Boca nacque a Novara nel 1925 dove passò l’infanzia. Dalla fine della guerra, visse a Torino dove lavorò come giornalista. Inviato della «Gazzetta del popolo» di Torino, trascorse lunghi periodi all’estero. Scrisse memorabili reportage, diede un contributo fondamentale per la defascistizzazone degli studi coloniali, lasciò preziose memorie sulla lotta di liberazione.

Offriamo qualche spunto di riflessione per ricordare uno dei più importanti intellettuali contemporanei, innovatore nell’ambito giornalistico e in quello della storiografia, per la metodologia e i temi trattati.

 

L’uomo

Chi ha avuto la fortuna di conoscere Angelo Del Boca e di collaborare con le sue numerose fatiche editoriali, ha apprezzato il suo forte senso di giustizia e l’apertura mentale di stare sempre dalla parte dei deboli. Non era solamente coerenza politica la sua, ma era un modo di porsi di fronte al mondo e agli altri che maturò durante la lotta di liberazione. Crebbe in un ambiente non fascista – racconta che la madre «l’avevo vista più volte sputare sul ritratto di Mussolini, che tenevamo in cucina, ma non era un’antifascista, era soltanto una donna stanca di scucire denaro per le costose divise dei figli» – ma durante la guerra dovette arruolarsi con la Repubblica sociale italiana per evitare rappresaglie contro la famiglia. Tornato dall’addestramento in Germania, disertò e raggiunse i partigiani del piacentino.

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kabulmagazine

Le utopie del futuro

Pratiche immaginative per il mondo a venire

di Vincenzo Grasso

Lucas Cranach il Vecchio Letà delloro 1530 circa Galleria Nazionale di Oslo 1536x1101Abbiamo bisogno di nuove utopie davanti agli scenari della catastrofe? È probabile che sia così, se la produzione letteraria e filosofica degli ultimi dieci anni, da quando l’incombere del cambiamento climatico si è inasprito, ha scandagliato fino in fondo le trame della distopia. Gli scenari catastrofici sono ottimi strumenti di analisi del presente, ma al contempo anche strategie narrative impiegate dagli attori dell’Antropocene per incutere timore e per fare spazio a chi dispone di soluzioni pronte da offrire, così da farsi riconoscere come salvatore nella crisi.

Speculum! è un progetto di divulgazione filosofica a cura di: Alessandro Y. Longo, Marco Mattei, Vincenzo Grasso. Nel 2020, è andato in onda su Decamerette. Nel 2021 nasce “Filosofia dal Futuro”, una newsletter che indaga le intersezioni tra filosofia e Futuro.

Puoi iscriverti alla newsletter di Speculum! a questo link: https://speculum.substack.com/subscribe

 

Utopia come rovesciamento del presente 

L’etimo della parola “utopia” si presta a due interpretazioni, che al contempo sembrano trovare una comune declinazione: da un lato il luogo buono, mentre dall’altro il non-luogo, il luogo che non c’è. Dal titolo di More intendiamo che l’orizzonte che l’autore ci staglia davanti è proprio quello di un luogo sia buono che inesistente.

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chartasporca

Comizi d’amore 2.0 (FVG). Call for artists

di Alina Tomasella e Andrea Muni

314d9e48 8f49 41f5 ae30 44a67eeec224Se oggi domandassimo a una persona qualunque per strada, a una persona “reale”, cosa ne pensa del ruolo della donna rispetto all’uomo nella nostra società, o se ritiene corretto promuovere l’approvazione di un disegno di legge a contrasto di ogni forma di discriminazione e istigazione all’odio di genere, quale risposta ci verrebbe davvero riservata? Cosa risponderebbe, davvero, la signora seduta al bar o il ragazzo che prende il sole sul bagnasciuga? Cosa pensa la gente, fuori dai denti, dell’amore e dell’eros, ora che le grandi battaglie per la liberazione sessuale si studiano sui libri di storia?

È il 1963, Pier Paolo Pasolini imbraccia microfono e telecamera, esce dai salotti della borghesia intellettuale romana e gira l’Italia per ascoltare la gente su sesso, amore e dintorni. Ne nasce un film: Comizi d’Amore. Un esperimento di “cinema-verità” in cui coesistono naturalmente le opinioni degli “istruiti” e quelle degli “ultimi”, quelle degli intellettuali e quelle del “popolo” – spesso culturalmente rozzo, ma retto e gentile (come piaceva dire a PPP). Ne scaturisce una raccolta di facce, parole e pensieri senza filtro; il ritratto di un popolo che (specialmente al sud) è ancora totalmente ignaro dell’imminente stravolgimento di valori che inizia già a investire il Paese, che di lì a poco Pasolini denuncerà col nome di “mutazione antropologica”.

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doppiozero

Michel Foucault filosofo del secolo

di Rocco Ronchi

paul michel foucault 1Jules Vuillemin, insigne storico della filosofia che molto aveva contribuito alla elezione di Michel Foucault al Collège de France nel 1970, a distanza di appena un anno da quell’evento, nutriva più di un dubbio sulla bontà di quella scelta. Era stata ottenuta al prezzo di non poche negoziazioni con una Accademia poco incline ad accogliere tra le sue file l’autore di un libro inclassificabile come Folie et déraison (in italiano tradotto con il titolo Storia della follia nell’età classica, che era il sottotitolo francese), libro nato da una tesi dottorato che aveva consacrato il giovane studioso proveniente dalla provincia francese (Foucault era nato a Poitiers il 15 Ottobre del 1926) nell’Olimpo della cultura parigina. In Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, Feltrinelli 2021 (trad. it. Lorenzo Alunni; ed. originale 2011), Didier Eribon racconta di una telefonata preoccupata di Vuillemin a Georges Dumézil, il grande storico delle religioni, che era stato il nume tutelare della carriera di Foucault fin dagli anni del suo apprendistato filosofico all’École Normale. Sembra che gli chiedesse sgomento “Cosa abbiamo fatto? Mio Dio, cosa abbiamo fatto?” (p. 291). Sfogliando i giornali, Vuillemin vi trovava le immagini del neoletto che insieme a Sartre, al quale, però, tutto era a priori perdonato, e ai maoisti, che erano egemoni sulla scena studentesca, si faceva interprete delle rivendicazioni sociali e politiche più radicali. Non mancavano poi imbarazzanti episodi di cronaca.

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cumpanis

Che farcene del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij

di Mariano Guzzini

Schermata del 2021 06 08 14 45 30aMi si consenta di ricordare a me stesso ed al “lettore perspicace” (come lo chiama Černyčevskij) le circostanze che mi misero in contatto con l’edizione italiana del “Che fare?” di Černyševskij, edito nel febbraio 1977 dagli Editori Riuniti. Quaranta quattro anni fa.

Per me quello fu un anno di svolta.

Dal giugno dell’anno prima ero segretario – a 33 anni – della federazione provinciale del Pci di Ancona (14.300 iscritti, veri), avevo in agenda il viaggio in Unione Sovietica che spettava ai segretari di federazione dei capoluoghi di regione appena eletti, per farsi conoscere al Cremlino, e soprattutto per conoscere dall’interno la sorgente dell’ “Oro di Mosca” (Cervetti), e stavo preparando un congresso provinciale in vista del primo congresso regionale, di Pesaro, sull’onda dell’entusiasmo per l’avanzata elettorale dei comunisti del 20 e 21 giugno 1976, il migliore risultato della storia del Pci. Arrivammo al 34,37%, guadagnando oltre sette punti. La Dc si attestò sul 38,71, perdendo qualcosa (4 seggi, mentre noi ne conquistammo ben 49) e cominciando a sentire il fiato dei comunisti sul collo.

Quel libro arrivò in federazione nel solito pacco che gli Editori riuniti spedivano a tutti i componenti del Comitato centrale per far circolare tutto quello che erano in grado di stampare, grazie al sullodato “oro di Mosca” e al nostro lavoro di autofinanziamento. Non ho mai fatto parte del Comitato centrale, ma ero in grado di intercettare quei pacchi dono e di alleggerirli di qualche volume, grazie alla benevola indifferenza del destinatario, Paolo Guerrini, che proprio in quella tornata del 15 giugno era entrato in Parlamento proponendomi alla segreteria da lui tenuta fino a quel momento.

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iltascabile

Virus come metafora

Che parole usare, per questa crisi?

di Franco Palazzi*

magritte coronavirusLa metafora non è mai innocente. Essa orienta la ricerca e fissa i risultati”, scriveva Jacques Derrida. Apparentemente, non vi è nulla di più banale di una metafora: l’atto di trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro, per ricorrere alla definizione aristotelica. Un gesto che ognuno di noi compie innumerevoli volte nel corso di una giornata – il mare ci sembra una tavola, il tempo viene convertito senza battere ciglio in denaro

La leva che Derrida utilizzava per scardinare in un sol colpo il linguaggio e l’uso completamente trasparente che la filosofia voleva farne era, nella formulazione di Aristotele, la parola proprio, che rimanda alla necessità di una metafora di essere appropriata: se diciamo “il mare è una tavola” intuiamo facilmente che il richiamo è alla piattezza della sua superficie, ma cosa significherebbe una frase come “il mare è un anatomopatologo”? Il suo senso non è chiaro, ma al tempo stesso è impossibile stabilire se esso sia completamente assente – e se il mare, alla stregua dell’anatomopatologo, facesse riemergere sulla battigia i corpi dei naufraghi, riconsegnandoli alla storia proprio come fa il medico legale nell’atto di identificare un cadavere sfigurato? La metafora, ci suggerisce questo esempio, deve fare i conti con il rischio ineliminabile dell’incompletezza, della mancanza di un punto di approdo pienamente soddisfacente.

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doppiozero

1971: l’incontro tra Foucault e Sartre

di Francesco Bellusci

goutte dor 1Esattamente cinquant’anni fa è accaduto che, in un preciso momento del secolo scorso, i due “filosofi del secolo” stringessero un sodalizio inaspettato e durevole. È il 27 novembre 1971: una mattina cupa e fredda, tipica dell’autunno francese, ma anche tesa, alla Goutte-d’Or, banlieu situata al centro di Parigi, ai piedi della collina di Montmartre e connotata dalla presenza numerosa di famiglie e di lavoratori immigrati di origine maghrebina. Le tensioni razziali nel quartiere si sono acuite con l’affaire Djellali Ben Ali: un adolescente algerino che, dopo aver malmenato la portinaia del suo immobile, viene ucciso a colpi di fucile dal marito della stessa portinaia, col pretesto di un presunto tentativo di stupro perpetrato dal giovane nei confronti della moglie. La condanna lieve a sette mesi, in primo grado, all’omicida fa scattare una mobilitazione degli intellettuali di sinistra, che si affianca a quella dei comitati locali e dei militanti della Gauche prolétarienne (GP), con l’organizzazione di una manifestazione e di un “appello ai lavoratori del quartiere” , alla cui testa si pongono a sorpresa: Michel Foucault e Jean-Paul Sartre.

Così, quella mattina fredda è anche il giorno del primo incontro e del “disgelo” tra i due maîtres à penser francesi, divisi, già da alcuni anni, dalla scia di acredine che contrassegnò la polemica nata all’indomani della pubblicazione di Le parole e le cose di Foucault, nel 1966.

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paroleecose

Letteratura e impegno

A partire da "Contro l'impegno"

di Gilda Policastro

Siti2Che cos’è la letteratura? Anzi: che cos’è la letteratura oggi? E, più precisamente, che cosa fa la letteratura oggi? Intanto, chiariamo in che senso “oggi”. Oggi, 2021, ad anno pandemico extended version, un anno in cui abbiamo vissuto sempre più schermati, sulle piattaforme dove abbiamo tenuto lezioni, conferenze, dibattiti, presentato libri, finanche tentato una parvenza di socialità (“non incontro persone da mesi”; “si prenda un tè con un’amica”; “c’è il covid”; “lo faccia su Skype” – da un dialogo con l’analista, che vedo, dalla zona rossa in poi, sempre su Skype). All’inizio dell’anno pandemico gli scrittori denunciavano lo choc di non riuscire più a leggere, e dunque nemmeno a scrivere. La settimana era scandita dai programmi di informazione, con epidemiologi, immunologi e virologi assurti a nuove star televisive: Massimo Galli il martedì da Berlinguer e in contemporanea Ilaria Capua e Barbara Gallavotti da Floris, Antonella Viola il giovedì da Formigli, Roberto Burioni la domenica da Fazio. Alcuni scrittori (ad esempio Aldo Nove) si sono nettamente schierati contro la cosiddetta dittatura sanitaria, trovando inconcepibile l’isolamento cui ci costringeva (e in parte ci costringe tutt’ora) la saturazione degli ospedali e l’assenza di un vaccino per il nuovo virus (ora il vaccino c’è, con tutte le criticità del caso). Giorgio Agamben si è scagliato contro la “nuda vita”, quasi fosse una pretesa antiumana ed egoistica, quella di non volersi ammalare (il problema del virus è il contagio, e la tua libertà di ammalarti finisce dove comincia la mia di non volerlo fare, specie se appartengo alle categorie cosiddette fragili – sì, d’accordo, con Leopardi è fragile tutto il genere umano, ma ci sono momenti in cui il comune destino di fragilità è incombente più del solito, e per alcuni più che per altri).

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doppiozero

Walter Siti, la letteratura fa bene quando fa male

di Paolo Landi

Ez6rNJTWYAAajmkAvvicinarsi all'immensità di un tema come il Bene e il Male in letteratura rende subito chiaro a Walter Siti che poteva farlo solo affidandosi alla sua curiosità o alle sue incazzature, o al suo scoraggiamento. Avendo dedicato proprio alla letteratura la sua vita, prima studiandola alla Scuola Normale, poi insegnandola all'Università, poi pubblicando romanzi, non poteva scrivere questo avvincente saggio (Contro l'impegno Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli 2021) altro che componendo un mosaico con la tecnica dell'accostamento di fiction, saggi, programmi tv, incursioni nel linguaggio dei social, su testi che lo hanno di volta in volta incuriosito, innervosito, demoralizzato. Ma la pazienza e la lucidità con cui demolisce alcuni libri spesso primi in classifica, per poterci rivelare le loro "virtù" all'incontrario e trasformando quindi la forza del cestino in una formidabile occasione di conoscenza, è quella del grande critico: mentre evita i trabocchetti della superiorità morale, si interroga sul cambiamento delle modalità di lettura e di giudizio di scritti che, in nessun caso, dovrebbero mai essere cestinati, né mutilati "ma soltanto spiegati". 

L'incipit folgorante di questo libro è "l'onesta parafrasi di una delle poesie più mature del maggior poeta lirico italiano di tutti i tempi" che, riportata così, senza virgolette e senza spoiler, provoca uno choc a noi lettori, in via di assuefazione al politically correct del #metoo.

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doppiozero

Come il nazismo ha creato il moderno manager

di David Bidussa

2570080177261 0 0 0 768 75Nazismo e management di Johan Chapoutot è un libro spinoso, urticante, ma indispensabile per capire le lunghe radici del tempo presente. Non capita spesso nella saggistica storica. Un precedente illustre è Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, libro che ha stentato molto a divenire un luogo culturale. Non perché quel libro sia non compiuto, ma perché mettere in questione il senso comune è sempre un’impresa complicata e destinata all’insuccesso.

Mi spiego meglio.

Quando nel 1989 Zygmunt Bauman pubblica Modernità e Olocausto, il libro si salva perché Bauman ha ormai raggiunto una certa rispettabilità, ma non contribuisce a rovesciare significativamente il senso comune. Per questo, a differenza di altri suoi testi diventati “manifesto del nostro tempo” veri e propri hashtag, quel titolo non riesce a compiere quel salto.

Dove stava lo scandalo o l’imbarazzo suscitato da quel libro? Stava nel descrivere un tema e nel non dare un nome, ma obbligare il suo lettore a rivedere complessivamente il modo in cui era stato archiviato un passato. Dire che l’olocausto non era finito nel 1945, ma che ciò che lo aveva reso possibile non solo era sopravvissuto a quell’evento, ma costituiva un tratto essenziale della modernità e delle sue inquietudini, dopo il 1945, a meno di non sorvegliare, costituiva il centro della questione.

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Università libera, università del futuro

Dieci tesi per un manifesto

[‘Dieci tesi per un Manifesto’ è un testo redatto da un gruppo di docenti di diverse aree scientifiche dell’Università di Padova. Il gruppo è nato dal bisogno di condividere esperienze e riflessioni rispetto alla straordinaria trasformazione che sta coinvolgendo in questo periodo l’Università. La pandemia da SARS-CoV-2 ha infatti prodotto una strepitosa accelerazione di alcuni processi che erano stati elaborati e avviati al di fuori di essa e che, secondo gli estensori del Manifesto, rischiano ora sotto la spinta di una logica emergenziale di diventare prassi ordinaria senza nemmeno la possibilità di essere discussi. I materiali elaborati dal gruppo sono reperibili qui]

LSwX2a6CYKjNP7CVQswmhBxQqb4ybI Q8KnkNPlPKME1. L’università libera è l’università del futuro

Solo la tutela e la garanzia della libera manifestazione del pensiero nelle attività di ricerca e nella didattica, la promozione e la salvaguardia delle differenze culturali e scientifiche nel pluriversum dei saperi è in grado di generare avanzamento virtuoso nelle conoscenze, nelle arti, nelle tecniche, e di creare uno scarto temporale rispetto alle urgenze del contingente in grado di immaginare, pensare, prefigurare, anticipare gli scenari futuri. Ogni forma esplicita o surrettizia di standardizzazione e di uniformazione procedurale, di valutazione algoritmica dei risultati della ricerca e degli apprendimenti, di controllo tecnologico delle attività dei docenti- ricercatori, oltre ad essere negatrice della libertà accademica, mutila qualsiasi intenzione conoscitiva, ne costringe il raggio d’azione entro orizzonti ristretti, consegnando l’operosità accademica alla sola risoluzione di problemi di corto respiro dettati da Agenzie per lo più interessate all’utile immediato.

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sinistra

Una disputa italo-tedesca su Dante

di Eros Barone

dante alighieri 638x425In questo anno giubilare le acque stagnanti della cultura italiana sono state smosse da un lungo e interessante articolo del quotidiano tedesco «Frankfurter Rundschau» dedicato a Dante Alighieri e alla lingua italiana. Dare conto della disputa che ne è nata può essere opportuno per più motivi: verificare come viene considerato il “sommo poeta” in base all’ottica critica di un qualificato giornalista di un importante paese europeo; osservare come reagiscono gli esponenti ufficiali della cultura italiana a questo tipo di ottica; trarne elementi utili per un approfondimento multilaterale della poesia e della personalità di Dante, quale specchio in cui si riflette una vicenda plurisecolare che mette in gioco l’identità storica di un paese, l’Italia, che è caratterizzato dal complesso e conflittuale binomio: “nazione antica, Stato giovane”.

Ma leggiamo alcuni stralci dell’articolo che ha innescato la disputa: “Il 14 settembre 1321 il fiorentino Dante Alighieri morì in esilio a Ravenna, quindi perché un articolo su Dante oggi? L’anno scorso, il 25 marzo è stato introdotto come Dante Day1 in Italia. Il più grande poeta italiano deve essere commemorato in questa data ogni anno. Perché il 25 marzo? In questo giorno, un Venerdì Santo dell'anno 1300, si dice che abbia iniziato il suo viaggio attraverso l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Dante ama giocare con i numeri. La sua grande poesia, la Divina Commedia, inizia con le parole: ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita’. Poiché una data di nascita non è stata registrata, si è concluso presto da queste informazioni che Dante era nato nel 1265.