Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour
di Nicola Manghi
Bruno Latour (1947) è autore impossibile da assegnare stabilmente a un’appartenenza disciplinare. Sociologo, antropologo, filosofo, egli è oggi in prima linea nei dibattiti di ecologia politica: la portata teoretica ed euristica della sua opera va ricercata – questa l’ipotesi che ci ha guidati nel condurre l’intervista che segue – proprio nella sua indisciplinatezza. Tale indisciplinatezza non è, si badi, da confondersi con una mancanza di pertinenza dei suoi contributi; piuttosto, essa segnala la loro pertinenza simultanea per una serie di campi di studio abitualmente distinti.
La feconda intuizione che soggiace a tutta l’opera di Latour, saldamente ancorata a una serie di studi empirici (Latour, Woolgar, 1979; Latour, 1984; Latour, 1992), può essere riassunta così: l’immagine che si ha della scienza differisce radicalmente a seconda che la si osservi «in azione», nel suo farsi, oppure nel momento in cui essa si presenta «pronta per l’uso», ovvero come una «scatola nera» che può essere utilizzata senza che se ne conoscano storia o contenuto (Latour, 1987). Gli scienziati tendono a presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di scoperta della natura; a osservarli in laboratorio, tuttavia, li si trova alle prese con i numerosissimi passaggi di traduzione necessari per trasformare un evento sperimentale nel tassello di una conoscenza cumulabile.
Da qui la necessità di studiare le scienze etnograficamente, secondo modalità in tutto e per tutto analoghe a quelle impiegate dagli antropologi che si recano presso popolazioni lontane, interessandosi a particolari cui la sociologia classica non aveva ritenuto di attribuire importanza alcuna: «le fonti di finanziamento, il background dei partecipanti, i pattern di citazioni nella letteratura rilevante, la natura e l’origine della strumentazione, e così via» (Latour, Woolgar, 1986, 278).
Dati questi presupposti, sarebbe facile immaginare Latour come un relativista. E invece proprio nel relativismo egli ha da sempre identificato un bersaglio polemico, da cui ha cercato di distinguersi qualificando le proprie posizioni come «composizioniste» (Latour, 2010); non, dunque, opponendovi una qualunque forma di supposto realismo, quanto piuttosto mostrando come l’opposizione relativismo/realismo sia un modo insufficiente di affrontare la questione1. Certo, la scienza costruisce, e non scopre, il mondo – “fatto”, Latour ci ricorda, è prima di tutto il participio passato del verbo “fare” (Latour, 1996). Dire ciò, tuttavia, non significa negarne la scientificità, quanto invece accettare la sfida di provare a renderne conto in termini differenti, non garantiti preventivamente dalle presunte “rotture epistemologiche” che separerebbero la scienza da altre forme di sapere. Ciò che rende scienza la scienza è da ricercare, allora, nel modo specifico in cui essa costruisce il proprio sapere, e non in ciò che la distinguerebbe intrinsecamente, e a priori, da altre modalità di cono-scenza2.
I primi a essere relativisti, all’occorrenza, sono proprio gli scienziati, che, se osservati in laboratorio, si mostrano ben consapevoli delle reti socio-tecniche entro le quali si trovano ad agire – salvo poi fare ammenda in favore di un solido realismo quando si tratta di descrivere il proprio lavoro a posteriori. A contraddistinguere la scienza, così, non è, allora, il suo isolamento dalle reti sociali, quanto la sua sapiente capacità di abitarle, trasformarle, percorrerle. Insomma, non vi sarebbero, da un lato, le aspirazioni epistemiche degli scienziati e, dall’altro, la loro immersione in un mondo sociale accessorio – fatto di strumenti, denaro, credenze, relazioni, etc. Le due dimensioni sarebbero, piuttosto, coestensive: socialmente 3 la scienza persegue i suoi fini scientifici.
Sulla base di queste considerazioni sociologiche, note sotto la sigla di Actor-Network Theory (ANT), Latour sviluppa un pensiero di più ampia portata sulla civiltà occidentale – una vera e propria «antropologia dei Moderni» (Latour, 1991). Questi ultimi, i Moderni, termine che viene qui a designare il nome proprio di una popolazione, abiterebbero un mondo costruito sulla distinzione – «costituzionale», «ontologica», «cosmologica»: il gergo latouriano è in costante evoluzione – tra “natura” e “società” (o tra “natura” e “cultura”, se si preferisce). Questa distinzione cardinale sarebbe, da un lato, a fondamento della scienza moderna, poiché istituirebbe nella “natura” un suo ambito di pertinenza esclusiva; dall’altro, però, limiterebbe radicalmente il campo d’azione della politica, che si troverebbe ad avere a che fare con un mondo stabilito dalla scienza e dunque solo molto limitatamente operabile, e finirebbe reclusa nel compito di limitare i danni che la “società” crea quando s’intromette nel lavoro degli scienziati e pretende di dire la propria sulla “natura” (Latour, 1999).
La via d’uscita da questo orizzonte può essere individuata, seguendo Latour, proprio nella sociologia della scienza: l’impertinenza con la quale la sociologia, scienza della “società”, ha preso a un certo punto a interessarsi di questioni che si sarebbero tradizionalmente dette di “natura” – in particolare, con il passaggio dalla sociologia della scienza classica, di stampo mertoniano, alla più ambiziosa sociologia della conoscenza scientifica – conduce a una messa in discussione di questa distinzione capitale4. Affinché lo sguardo socio-antropologico, però, assuma la rilevanza – nuovamente: costituzionale, ontologica, cosmologica – che Latour auspicherebbe, è necessario che lo sguardo stesso modifichi alcuni dei suoi presupposti. L’obiettivo non può più essere la critica della sedicente neutralità della scienza in nome della sua presunta socialità (a cui si limitavano, in fondo, David Bloor e i sociologi del “programma forte”), ma deve piuttosto riconfigurarsi nella descrizione delle pratiche scientifiche come particolari forme di socialità, di costruzione di reti e di operazioni istituzionali. Non si tratta di negare l’accesso delle scienze alla “natura”, per controbattere che l’arbitro delle controversie siano al contrario i finanziamenti, i legami politici o le influenze culturali – insomma, la “società”; quanto invece di partire dal presupposto che la suddetta “natura” non esista affatto.
Pensare le scienze senza la natura significa pensarle come incessante avventura, prive di un territorio esclusivo sul quale esse eserciterebbero una sovranità di volta in volta misurabile, perfettibile, ma in ogni caso legalmente stabilita. Beninteso, dire che “la natura non esiste” non significa dire che non esista il mondo: ma l’esistenza – “naturale” – di questo mondo non sarebbe separabile dai tentativi – “culturali” – di conoscerlo, che risultano così immediatamente riconfigurati, simultaneamente, anche come tentativi di costruirlo.
Le stesse considerazioni, chiaramente, debbono essere mantenute valide per l’altro polo della distinzione, vale a dire la “società” – concetto del quale i sociologi farebbero bene a sbarazzarsi, secondo l’indicazione latouriana (Latour, 2005). “Natura” e “società”, così, sarebbero entrambe da pensare come prodotti di una certa modalità di oggettivare il mondo, piuttosto che come presupposti sui quali fondare la divisione del lavoro tra scienza e politica che tanto a lungo ha organizzato le modalità secondo cui la civiltà occidentale si è auto-interpretata.
Questi sviluppi ci proiettano in una dimensione che potrebbe già essere definita “ecologica” – almeno secondo l’impiego latouriano di questo termine. Per Latour, infatti, l’ecologia non ha tanto a che fare con princìpi di rispetto dell’ambiente ed eventuali modalità per implementarli politicamente, quanto con la sfida a ripensare il ruolo giocato dalle pratiche scientifiche nella costruzione del mondo comune su basi radicalmente immanentiste, vale a dire privandosi delle false garanzie che erano offerte dalla distinzione natura/società. Con le parole dell’autore: «L’ecologia […] non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della “Natura” come concetto in grado di riassumere i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli» (Latour, 2015, 50–51).
Da qui l’interesse sviluppato da Latour, a partire dal libro Politiche della natura5, nei confronti dell’ipotesi Gaia elaborata da James Lovelock e Lynn Margulis. Anche Gaia, come quello latouriano, è infatti un mondo costituito dei tanti tentativi (non-umani ancor prima che umani, in questo caso) di conoscerlo e abitarlo – senza che tra le due azioni sia possibile tracciare una netta distinzione. Infatti, erroneamente volgarizzata come idea secondo cui la terra sarebbe un organismo vivente, l’ipotesi Gaia postula piuttosto che l’attività della vita partecipa del mantenimento delle condizioni di esistenza della vita stessa sul pianeta: «gli organismi contribuiscono a meccanismi ricorsivi di auto-regolazione che hanno mantenuto l’ambiente della superficie terrestre stabile e abitabile per la vita» (Lenton, 1998, 439). Le varie forme di vita che abitano/animano il pianeta sono, insomma, ambiente le une per le altre, e artefici tutte assieme, almeno in una qualche misura, delle condizioni di vivibilità della terra.
Così intesa, l’ecologia non necessita di essere aggettivata come “politica”: lo è intrinsecamente. Non c’è vita che non sia convivenza, si potrebbe dire6: ogni distinzione tra organismo e ambiente è trattabile, discutibile, negoziata – in una parola, politica. Ogni politica, dunque, è a sua volta un’ecologia – ha il suo mondo7, insomma, che deve in qualche modo farsi compatibile con i mondi degli altri, su un piano che, a seconda dei fenomeni ai quali si guardi e dell’inclinazione dell’osservatore, può essere visto come una conversazione o come una guerra8. Questa è la Gaia di Latour, ad un tempo presupposto e prodotto del confronto-scontro tra i mondi che la compongono, e nome della loro possibile pace (Latour, 2015).
Latour è da considerarsi come uno tra i maggiori promotori delle scienze sociali nel mondo del pensiero contemporaneo, se è vero che la sua opera può interamente leggersi come una valorizzazione delle conquiste teoriche della sociologia della conoscenza scientifica9 (Mazanderani, Latour, 2018). Grazie al lavoro di Latour, questo campo di studi è divenuto, per usare un concetto interno alla disciplina stessa, un «punto di passaggio obbligato» (Callon, 1984; cfr. Latour, 1987) nel dibattito contemporaneo su temi cruciali quali, tra gli altri, il cambiamento climatico, la agency non-umana e il ruolo politico delle scienze sociali (cfr. de Vries, 2016). Esso custodisce – a patto che abbandoni l’atteggiamento critico e relativista che l’ha forgiato, per assumere una postura composizionista – la più elevata intensità politica a disposizione per chi voglia smettere di pensarsi moderno, nonché gli strumenti più efficaci per pensare il mondo di oggi e di domani.
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