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Responsabilità di Piergiorgio Bellocchio

di Eugenio Gazzola

bellocchioUn principio di responsabilità ha orientato il lavoro di Piergiorgio Bellocchio lungo tutta la sua esistenza. Un passo ulteriore, credo, rispetto al profilo del moderno intellettuale moralista richiamato dopo la sua improvvisa scomparsa, il 18 aprile scorso a Piacenza. Si intende la responsabilità dell’intellettuale disposto a testimoniare con la militanza diretta i principi etici e morali nei quali si riconosce e quindi a “pagare di persona” questa sua testimonianza, cioè a rischiare l’isolamento, l’incomprensione, così come in passato si rischiava il bando, il carcere o la vita. E tanto maggiore è il peso di una militanza vissuta, quanto più è attuata al di fuori dei partiti politici e delle schermaglie giornalistiche, cioè «al di sotto della mischia» (il titolo della sua raccolta Scheiwiller del 2007). Conservare la chiarezza dello sguardo.

In un saggio pubblicato ormai più di venti anni fa, poche righe che non riesco più a individuare nei vecchi libri, Bellocchio indicava alcune figure eccellenti del Novecento sul piano della responsabilità, e alcune le ricordo: George Orwell, Simone Weil, Céline, persino Bernanòs, forse Karl Kraus. Mentre conosciamo, del pari, la sua dedizione a scrittori come Fenoglio, Ginzburg, Bianciardi; a una figura come Danilo Montaldi, l’intellettuale marxista cremonese maestro dell’inchiesta sociale, di cui Bellocchio elogia la naturalezza con cui sapeva essere a un tempo intellettuale e politico senza separazione (quella separazione criticata negli intellettuali italiani dal suo maestro Franco Fortini), come due lati del medesimo lavoro.

Ha scritto Bellocchio che Montaldi, «nato proletario, aveva scelto di restarlo», che il prestigio pubblico non lo allettava, né gli agi o il potere che avrebbero potuto derivarne: «non valeva certo la pena, per quei risibili vantaggi, di perdere il lusso dell’indipendenza, la libertà di fare il lavoro che preferisci, nel modo e per lo scopo che ritieni più giusti.

La sua vita è stata anche una lunga lotta per sottrarsi alla trappola di un lavoro e di una sistemazione “normali”. A cominciare dall’abbandono della scuola, a sedici anni». E conclude con certezza: «Non credo di esagerare dicendo che Montaldi rappresenta il miglior esempio di libertà e coerenza che io abbia incontrato nel mondo degli intellettuali».

Tiriamo in lungo con le parole su Montaldi – tratte dalla prefazione all’edizione Bompiani del 2012 della celebre Autobiografia della leggera – perché in esse troviamo rispecchiate, e con precisione, la visione di Bellocchio dell’intellettuale impegnato e la ragion pratica del principio di responsabilità di cui abbiamo parlato fin qui. Un giorno gli venne di confidare a Raniero Panzieri (1921-1964, il fondatore dei «Quaderni rossi», un altro raro esempio di intellettuale socialista coerente fino alla sconfitta) una certa vergogna per la sua agiatezza, cioè per il fatto di non essere costretto a lavorare per vivere avendo così la piena disponibilità della propria vita: «Avevo già pensato, non so quanto seriamente, di cedere tutto, di liberarmi dal peso del patrimonio. Ma lui disse con fermezza: per carità di Dio! I soldi servono sempre… E aveva ragione».

E difatti il benessere economico gli serve per finanziare il lavoro intellettuale. E la rivista che lo identifica nel tempo – «Quaderni piacentini» – diventa la traduzione dei suoi principî. Una sua personale versione di «volontariato» che ebbe occasione di esprimere in un incontro pubblico dei primi anni Novanta, rispondendo a una sollecitazione di Fabio Milana: lavoro volontario, cioè non retribuito, speso per far vivere, in un luogo aperto come la rivista, le idee e le opere in cui si crede.

Fin dall’esordio, in un 1962 segnato dal ritorno delle lotte operaie, «Quaderni piacentini» mira a essere presidio di indipendenza nel momento di massimo trionfo dell’industria culturale in Italia, ovvero mentre si afferma il principio che niente di quanto sia “prodotto dell’ingegno umano” sfugga alla pianificazione e alla distribuzione organizzata delle grandi imprese del settore: libri, televisione, cinema. I «piacentini» fondatori, Bellocchio e Grazia Cherchi (1937-1995), svolgono le atività connesse alla vita della rivista: Grazia è in redazione e coordina i collaboratori fino alla stampa; Piergiorgio assolve alla contabilità, agli abbonati, alla distribuzione automunita: fino a non molti anni fa alcuni librai del Nord ancora ne ricordavano l’arrivo con i nuovi numeri. Era l’autogestione.

«Autogestione vuole dire fare a meno di protezioni economiche politiche o anche semplicemente culturali» – ha spiegato Bellocchio in un brano del film I quaderni piacentini (2019 – che si legge anche nel volume che raccoglie le dieci ore degli “atti” di quel film: Il quaderno dei quaderni piacentini, 2020, edito da Scritture per l’Istituto di Storia contemporanea di Piacenza).

«Oppure avere un editore che si occupa della parte “pratica” della faccenda lasciando alla redazione solo il compito di una redazione: scrivere, correggere, coordinare i collaboratori, cercarne di nuovi, eccetera. Noi invece facevamo tutto internamente, fino addirittura alla consegna nelle librerie, alla fatturazione, alla contabilità, alla raccolta dei crediti». Così sarà fino al 1980, quando riparte una nuova serie per l’editore Franco Angeli.

Bellocchio lo aveva già scritto nel numero 17/18 della rivista (1964): «Non ci sembra che esistano altre scelte oltre a quella dell’«autogestione» proposta da Fortini su queste pagine (n. 14). L’organizzazione dell’opposizione si pone anzitutto a livello politico (lotta di classe, attuazione del comunismo: fini ai quali la poesia e la narrativa possono dare solo un contributo indiretto, secondario). Ma se il sistema, il capitalismo sono anche le grandi case editrici, una casa editrice gestita da chi vi pubblica, una rivista che è di chi la fa, sono già opposizione organizzata».

Nell’intervista del film torna fuori quell’originaria “vergogna” per il guadagno: «Sussisteva un principio di non-guadagno che derivava dalla nostra formazione – confessa Bellocchio. – Un principio abbastanza borghese, mi rendo conto, o meglio: antiborghese da parte di due borghesi, cioè di persone che la borghesia la conoscevano bene. Era il principio che la rivista non dovesse essere un’impresa lucrativa. Avere un successo notevole, rischiare di guadagnare, significava per noi tenere bassi i prezzi… Quanto più aumentavano le vendite, tanto più abbassavamo il prezzo di copertina».

Più che un borghese, un aristocratico separato dalla sua classe come certi illuministi di duecento anni prima.

Serve, a questo punto, ricordare la sua biografia: Piergiorgio Bellocchio nasce a Piacenza il 15 dicembre del 1931 da una famiglia di possidenti terrieri originaria di Bobbio, in Val Trebbia. È il terzo di otto fratelli – tra i quali, più giovani, il regista Marco e il poeta Alberto. Il padre è un avvocato versato negli affari immobiliari; la madre cresce i figli secondo l’educazione religiosa del tempo («nostra madre era “scrupolosamente” cattolica», dice Marco nel film). L’ambiente a cui i giovani Bellocchio si ribellano è appunto il mondo della buona borghesia rurale ora urbanizzata, è il suo orizzonte culturale e professionale – è infatti Piergiorgio non terminerà gli studi di Legge preferendo coltivare interessi letterari.

L’insegnante piacentino Gianni D’amo, amico e collaboratore di Bellocchio per lungo tempo, ne ha disegnato in poche parole un fedelissimo ritratto: «Piergiorgio è un intellettuale di provincia laddove questa accezione dovrebbe essere considerata non un diminutivo ma un accrescitivo. Nel corso della sua vita è riuscito a ricavarsi una sorta di enclave protetta in cui ha continuato a studiare, leggere, andare al cinema; a coltivare le sue passioni e a fare molte cose senza avere vincoli. Quindi, in un modo che mi pare sempre più raro. Anche quando ha avuto incarichi da riviste, settimanali o quotidiani, ha saputo tenersi sempre i suoi tempi. Diciamo che Piergiorgio è uno che ha avuto dalla vita, un po’ per fortuna e un po’ per scelta, la possibilità di dedicarsi molto alla sua formazione culturale».

I «Quaderni piacentini», la rivista per la quale Bellocchio è stato (e tuttora è) in massima parte ricordato e gratificato di omaggi, nascono nel 1962, quando Piergiorgio e Grazia Cherchi, dopo l’esperienza di una serie di «Incontri di cultura» a Piacenza, prendono la strada di Milano («la strada lungo la quale si diventa grandi», dice un verso del fratello Alberto) dove incontrano Franco Fortini; e la via di Torino per conoscere Raniero Panzieri. I due lati sempiterni dell’impegno letterario e politico provano a intrecciarsi di nuovo sulle pagine di una rivista, ma solo il primo partecipa alla nuova esperienza; il secondo, Panzieri, scompare già nel ’64. Poi arriva in redazione Goffredo Fofi; e tra i collaboratori verranno Renato Solmi, Luca Baranelli, Elvio Facchinelli, Giovanni Jervis, Michele Salvati, Bianca Beccalli, Sebastiano Timpanaro, Francesco Ciafaloni, Edoarda Masi, Federico Stame, Alfonso Berardinelli, Sergio Bologna, Marcello Flores, e tanti che dimentichiamo. Li elenchiamo per dire il livello di una rivista oggi neppure immaginabile e che per venti anni è stata produzione di idee, di dibattito, luogo di formazione per una generazione di intellettuali e, soprattutto, di lettori del pari indipendenti.

Non solo: sul piano strettamente politico, almeno fino agli anni Ottanta la rivista è stata il cantiere una «nuova sinistra» affrancata dalle derive burocratiche e governative dei partiti storici della sinistra, quindi estranea alle trasformazioni conservatrici dei partiti comunista e socialista. Anche per questa ragione, la rivista raggiunge il massimo della vendita e della notorietà nel triennio 1968-1970 della rivolta giovanile e operaia.

Ma intanto, nel 1969, Bellocchio diventa il primo direttore responsabile della rivista «Lotta continua», espressione dell’omonimo movimento politico costituitosi l’anno prima tra Torino, Milano, Firenze e Roma. Componente libertaria, per così dire, della sinistra extraparlamentare che aveva in Potere Operaio l’altro caposaldo. Bellocchio: «Una certa rigidità ideologica di Potere operaio ci sembrava paralizzante. Certo, Lotta continua correva il rischio dello spontaneismo e del caos, ma era riuscita a mantenere vive diverse anime del movimento, compresa una certa parte del movimento cattolico; e gli anarchici, i marxisti come Sofri, e poi la parte radicale che comprendeva una certa sinistra liberale». La direzione del giornale di Lc, che per principio stabilito fu assunta in successione da vari esponenti del mondo culturale e politico italiano, nel 1970 causò al piacentino una condanna a quindici mesi di carcere (che la condizionale gli risparmia) per varie apologie di reato.

I «piacentini» vanno avanti fino al 1984 (e l’anno vorrà pur dire qualcosa, per uno dei migliori esegeti che George Orwell abbia avuto). È un primato di durata per l’Italia, per quanto già negli anni Settanta Bellocchio avesse volontà di chiudere per stanchezza o per senso di esaurimento della funzione. E in entrambi i casi sia la Cherchi che i principali collaboratori riuscirono a fargli cambiare idea.

Bellocchio: «L’esperienza io la davo esaurita già negli ultimi anni Settanta. E poi non è un caso che nel 1985 io e Alfonso facciamo “Diario”. Ma l’avrei fatta anche da solo se Alfonso non fosse stato d’accordo. Perché era necessario cambiare: era il momento di dire “io”, lasciare il “noi” per l’“io”. Non per esibizionismo, ma per responsabilizzazione».

«Diario» esce quindi a ruota della rivista storica e non passa inosservata, benché si sia nel cuore del decennio più “stupido” della storia. È infatti una rivista anomala, forse il primo caso di rivista “personale” cui attendono solo i due fondatori: Bellocchio e Alfonso Berardinelli. Essi sottopongono a critica l’esistente letterario e politico e ospitano a complemento di lusso i saggi di alcuni autori significativi del passato. Sostiene D’Amo, a questo proposito: «Credo che a Piergiorgio interessi una cosa della forma rivista – e l’espressione la rubo a lui o ad Alfonso Berardinelli quando hanno chiamato “Diario, un’opera a puntate” – cioè l’idea che la rivista è un’opera che va avanti, che si autocorregge, un’idea di movimento che rende anche il movimento del pensiero e della realtà. Credo che questa idea gli sia sempre piaciuta perché io la riconosco anche nella sua modalità di scrivere».

«Diario» esce per dieci numeri, due numeri l’anno, e poi chiude all’inizio degli anni Novanta. Nel medesimo tempo Bellocchio collabora a diverse testate nazionali («Panorama», per esempio, e partecipa al rilancio de «L’Illustrazione italiana»). Nel frattempo, alcuni editori gli chiedono di riordinare in volume la sua produzione saggistica dispersa sulle riviste. Ne vengono alcuni libri spesso citati e molto presto introvabili: Dalla parte del torto, Einaudi, 1989; L’astuzia delle passioni, Rizzoli, 1995; Al di sotto della mischia, Scheiwiller, 2007; il recente Un seme di umanità, Quodlibet, 2020.

Va detto che Piergiorgio Bellocchio ha scritto poco. O meglio: non ha scritto abbastanza. In compenso ha letto molto e studiato molto (film, mostre d’arte e di fotografia), e di moltissime esperienze ha lasciato traccia in saggi di grande maestria e precisione. Che il saggio sia la misura ideale per la sua scrittura è provato, per quanto io credo che vada precisata, all’interno della forma del saggio, una decisa inclinazione per la scrittura d’esperienza, cioè scrittura in prima persona di un’esperienza di lettura, di visione, d’incontro, di lotta, di convivio, insomma di conoscenza. Saggi nei quali troviamo, incastonati, alcuni brevi e fulminanti episodi narrativi di grandissima presa – e penso ai testi che aprono Dalla parte del torto: macchie alla Dossi, per dire, nel senso della figurina che fila via, dello sketch, del ritratto abbozzato.

Saggismo, per Bellocchio, è precisamente la chiave espressiva di quella responsabilità vissuta nella quale deve inquadrarsi il lavoro intellettuale. E responsabilità è anche il principale dovere per la classe intellettuale di ogni Paese e in primis dell’Italia. Classe alla quale Bellocchio ha appartenuto, se non con imbarazzo, con una certa qual diffidenza. Rileggiamo un giudizio sferzante, definitivo, in un saggio del 1988 sull’epistolario di Pasolini ora ristampato in Un seme di umanità: «La classe intellettuale, complessivamente, ha dato alla Resistenza un contributo mediocre, molto inferiore a quanto il suo grado di consapevolezza e responsabilità avrebbe comportato, per non parlare della libertà di scelta derivante dal privilegio economico. Il maggior peso della lotta armata fu sostenuto dalla classe operaia, che ne pagò il prezzo più alto».

A conti fatti, credo che la responsabilità degli scrittori fosse in Bellocchio ricerca della verità, cioè di una letteratura chiamata a raccontare il vero e a mostrare la realtà dei corpi. Non c’è che la qualità della vita a testimoniare in favore dell’intellettuale.

«Parlando di letteratura del dopoguerra – dice a proposito di letteratura italiana – mi interessa, inevitabilmente, Italo Calvino, sul quale ci sarebbe da discutere, soprattutto sul “secondo” Calvino, ma il primo, l’autore di racconti come La giornata di uno scrutatore, L’entrata in guerra, Ultimo viene il corvo: insomma, in quel periodo che va dal romanzo d’esordio ai racconti, è un autore straordinario.

«Poi attribuisco molta importanza a Beppe Fenoglio e a Luigi Meneghello, per esempio. Con tutto il rispetto, io non sono uno dei devoti di Gadda, di cui certo riconosco la grandezza, ma che non mi interessa. Venendo un po’ più in giù nel tempo, farei i nomi di Paolo Volponi, di Goffredo Parise, ma poi mi fermo: intanto mi interessano di più i diari, le memorie, che non l’invenzione letteraria.

Certamente un poeta che mi aveva molto colpito quand’ero giovane era stato Eugenio Montale. Ma anche la poesia inglese, Eliot è stata una lettura decisiva, nonché Auden e i poeti degli anni Trenta. Io non sono un joyciano, perlomeno per quanto riguarda l’Ulisse, che certamente è un capolavoro, ma secondo me Joyce è già un grande autore e I dublinesi e Dedalus gli sarebbero bastati. Della letteratura francese sarebbe inutile parlare, tanti sono gli autori necessari. Personalmente ho sempre valorizzato Céline, nonostante il fascismo e l’indubbio antisemitismo. Ma l’ho difeso perché è un grande scrittore e la crisi del suo tempo l’ha sentita e ha saputo trasmetterla. Ho sostenuto che in realtà il suo grande nemico era la borghesia e la letteratura borghese, contro cui aveva dichiarato una guerra già sul piano stilistico».

E infine, sulla letteratura americana: «Leggi un autore come Philiph Roth e hai l’impressione che dietro ci sia una responsabilità dello scrittore più “larga” di quella che si avverte in un narratore italiano che non si sa bene di che cosa parla… Questa impressione ce l’hai subito. Pensa a Hemingway, a Faulkner, Steinbeck, Mailer… la letteratura americana non ha mai cessato di dare grandi prodotti». Così, mettendo a confronto due diverse, diversissime condizioni letterarie, Bellocchio fissa i punti di una lezione di letteratura contemporanea: «Ogni tanto mi sembra che in Italia non ci sia nulla di paragonabile alle grandi letterature della storia moderna. Grandi figure solitarie, come Leopardi, Manzoni, Belli e Porta, ma è poco rispetto alla grande fioritura della letteratura inglese dal Settecento in avanti; della letteratura francese e russa dell’Ottocento; e americana: il rinascimento americano, Melville, Hawthorne. Io credo ci sia sempre un corrispettivo tra le grandi letterature e le grandi nazioni: inglese, americana, francese, russa…».

E dunque è sempre una testimonianza di verità, quella che interessa a Bellocchio, ed è la ricerca di una scrittura rigorosa e essenziale, chiara, nella quale la parola definisca la cosa con precisione: quindi uno stile umile in opposizione alle forme della retorica e dell’idealismo – persino l’antifascismo, sempre più, gli appariva una vuota formalità di parole. Dunque uno stile concreto e terreno contro ogni deriva intellettualistica e idealistica, e certo, anche contro l’avanguardia e le sue costruzioni formali, in cui vede da subito la lingua del neocapitalismo in parata, il cui vero fine era far sembrare tutte le vacche nere.

Credo che l’amore per la dimensione del vero e del concreto gli venisse proprio dalla sua radice provinciale, che fosse cioè un portato della storia famigliare di possidenti terrieri con i piedi ben piantati negli affari. Guardiamo la provincia piacentina, così messa al centro di un intrico di strade e perciò da tempi immemori terra di scambi e piazza d’affari. Un tempo erano i banchi genovesi, poi l’agricoltura diffusa e la trasformazione industriale dei suoi prodotti; e ora le centrali logistiche: geometrici enigmatici mondi nei quali transitano tutte le merci conosciute. I piacentini convivono da secoli con la mediazione, e dalla tradizione dello scambio giunge loro quella determinazione che talvolta rasenta la grettezza. Chi nasce in questo incrocio d’imprese personali cerca raramente la formula per non dire, poiché predilige il dire senz’altro, senza abbellimenti: la realtà contro l’apparenza e contro l’ambiguità degli addobbi. Il dovere di ciascuno, l’opera, il fare, corrispettivi locali del beruf weberiano: un compito ben eseguito è utile e remunerativo, oltre che giusto. E persino un certo puritanesimo che non disdegna il lavoro in solitudine, lo abbiamo visto.

Ora si aspetta un libro cui Bellocchio ha atteso per moltissimi anni: sorta di “diario in pubblico” (Vittorini era presente nel suo pantheon personale) composto da innumerevoli pagine assemblate giorno dopo giorno tra testo e immagine. Giova sapere che l’autore era un acuto lettore di fotografie e un profondo conoscitore del cinema e delle arti e che il materiale di base di questi ultimi diari è appunto composto di immagini fotografiche prelevate da giornali e riviste per essere commentate da un breve testo critico che ne allunga o contraddice il senso.

Un’opera che conclude la parabola di Piergiorgio Bellocchio e in un certo senso la contempla nella sua interezza: dalle lotte collettive degli anni Sessanta alla rivolta personale degli anni Ottanta, fino alla solitudine felice dell’individuo di fronte alla società dell’immagine.

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