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minimamoralia

L’importanza dell’ideologia: a proposito del rapporto tra Rossana Rossanda e il Pci

di Nazareno Galiè

00057E59 rossana rossandaNon è una Rossana Rossanda “eretica” quella che viene fuori dalle belle pagine di Rossana Rossanda e il Pci: Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica 1956 -1966 (Carocci editore) di Alessandro Barile, semplificazione finora ampiamente abusata che l’autore disfa collocando nella dimensione che le è propria l’attività politico culturale della dirigente comunista. Prendendo in considerazione gli anni in cui Rossanda è stata dapprima responsabile della Casa della cultura di Milano e in un secondo decisivo momento a capo della Sezione culturale del Pci, Barile indaga le ragioni del conflitto tra la ragazza del secolo scorso e gli altri funzionari di punta del partito, in quegli anni impegnati ad organizzare le masse sulla via italiana al socialismo. Occorre, tuttavia, precisare che nel libro di Barile coesistono molti temi di carattere storico-culturale, che non rimandano ad un unico filo conduttore. Nondimeno, i molteplici snodi problematici vengono riflessi dal caleidoscopio della politica culturale del Pci, l’altro vero argomento del libro oltre che Rossanda. In ogni modo, attraverso il volume è possibile seguire, in controluce, l’evoluzione delle vicende politiche italiane (l’egemonia politica democristiana dopo il 18 aprile del 1948, la crisi del fronte popolare, l’avvio, a tratti contrastato, del centrosinistra) e soprattutto quelle svolte, innescate in ultima analisi dal miracolo economico – presupposto logico di quel “neocapitalismo” che tanto spazio trova nel libro – che hanno cambiato radicalmente la società italiana rispetto a come si era strutturata alla fine della guerra. È un libro, potremmo dire, che tematizza i cambiamenti, o meglio le crisi che mettono in discussione l’ideologia e, quindi, la prassi nella sostanza riformista del Pci. È anche una riflessione sul nesso tra politica e cultura, che richiama, ovviamente, anche l’attualità.

Sullo sfondo, emergono i grandi dirigenti del Pci: Amendola, Alicata, Scoccimarro, Chiaromonte, Longo (per citarne alcuni) e soprattutto Palmiro Togliatti, l’artefice e lo stratega del partito nuovo. Anche Rossanda ne fu partecipe e beneficiò, in una certa misura, della fiducia del segretario comunista, che mostrò, è bene ricordarlo, un profondo e sofisticato interesse culturale, benché tese quasi sempre a subordinare la cultura agli obiettivi perseguiti dalla prassi politica. Giustamente Barile pone l’accento sulla differenza tra Togliatti e tanti (ma non tutti) suoi epigoni, ossia sullo scarto tra Togliatti e il togliattismo, che di lì a poco, più che di doppiezza, divenne sinonimo di realismo o, come si sarebbe detto allora, di opportunismo. Tuttavia, il tema del libro non è politico stricto sensu. Inoltre, credo che sia da mettere l’accento anche sul valore interdisciplinare del testo, in quanto consente di rivisitare una serie dibattiti letterari, storiografici e perfino filosofici, di cui, immaginiamo, si è persa non tanto la memoria quanto piuttosto sia i termini che la posta in gioco allorché furono formulati. Per inciso, è un libro che può interessare studiosi di differenti discipline, come l’italianistica, la storia della filosofia, la sociologia, la politologia etc., oltre che, ovviamente, gli storici. Infatti, nel testo si troveranno, per fare qualche esempio, le polemiche e discussioni letterarie sul neorealismo, su Pasolini, su Il Gattopardo, così come gli sviluppi della celebre polemica su «Il Politecnico» tra Vittorini e Togliatti e il caso editoriale, prima ancora che letterario, Pasternak. Non è in ogni caso un libro su questi temi, tuttavia ne restituisce la dimensione e l’impatto che ebbero tanto sul dibattito del partito quanto, per osmosi, più in generale sulla cultura italiana. Ancora a livello letterario, ad esempio, sono presenti le riflessioni sui nessi e gli scarti tra le vecchie e le nuove avanguardie. Trovano spazio anche le discussioni sul cinema e la cultura musicale degli italiani, in quegli anni sbilanciata sul melodramma. Sono presenti le aperture e più spesso le inquietudini provocate dalla diffusione della cultura di massa. Molti naturalmente i temi di carattere filosofico: Gramsci, lo storicismo e la sua crisi, il marxismo “in combinazione”, la recezione, naturalmente contrastata dal partito, della scuola di Francoforte con Marcuse, Horkheimer e Adorno. Una vera e propria miniera utile a contestualizzare i movimenti e in definitiva la crisi della cultura italiana da quel punto di osservazione privilegiato che è stata la Sezione culturale del Pci guidata da Rossanda. Col tempo quest’ultima venne percepita malgré soi un corpo estraneo dalla dirigenza del partito. Barile ne indaga a fondo i motivi.

Come rileva l’autore, infatti, se le strada tra Rossanda e Pci si separò (anche se il libro non si attarda sulla nota vicenda de il manifesto) non fu tanto, come si è detto, per la presunta “ereticità” o peggio ancora per un malinteso estremismo, da cui la dirigente comunista era sicuramente immune, ma per una inconciliabile maniera di leggere la società entrata nel frattempo in fibrillazione. Un tema quantomeno attuale, se si pensa alla crisi che vive la sinistra, si potrebbe dire da allora, anche a causa dell’incapacità di sistematizzare i fenomeni a partire da un nucleo concettuale che, spesso, è rimasto indifferente all’evolversi non solo del capitalismo ma anche delle sue configurazioni ideologiche, cui si è dato il nome di industria culturale. Non è una “eretica”, quindi, ma forse una revisionista, benché quel termine nel dibattito politico-filosofico marxista abbia un preciso significato che male si adatta a Rossanda, giacché presuppone un moderatismo e un riformismo di principio che fu sempre estraneo alla dirigente istriana. Nondimeno, Rossanda poneva in discussione non tanto la politica del partito – in effetti la dirigente comunista non propose compiutamente una strategia alternativa alla linea della democrazia progressiva da raggiungere attraverso opportune riforme di struttura, senonché tese a mettere l’accento sul significato di quest’ultime, che nella visione di Rossanda avrebbe dovuto essere innanzitutto politico e trasformativo e quindi teso al superamento (perlomeno tendenziale) del capitalismo. Al contrario, la dirigente istriana chiedeva una revisione delle basi culturali del Pci con il fine di renderlo più adatto a situarsi di fronte a fenomeni inaspettati, vale a dire estranei alle previsioni storiciste teleologicamente orientate proprie dell’ideologia del Pci, ancorché dirompenti: il neocapitalismo, la cultura di massa, l’integrazione della classe operaia – sul punto è notevole il dibattito tra Rossana e Calvino discusso nel libro -, il ribellismo giovanile e l’incipiente contestazione. Tutte articolazioni che in qualche modo resero incerte quelle magnifiche sorti e progressive che lo storicismo marxista gramsciano del partito nuovo non solo, come era naturale che fosse, non aveva previsto, ma che perfino si rifiutava anche di studiare e capire. Il partito le subiva sminuendone il significato e rimanendo fermo nella tattica impostata sui principi della modernizzazione e le riforme. D’altronde, come nota Barile (p.181), «Che il Pci fosse una forza politica d’alternativa sistemica era però un punto di confusione forse presente nella stessa Rossanda».

Nodi che, tuttavia, vennero al pettine negli anni ’70, allorché si configurò una frattura insanabile se non una vera e propria inimicizia tra il Pci, che nel frattempo aveva imboccato la via indicata dalla “destra” amendoliana con l’appoggio decisivo del “centro” longhiano, e la composita galassia della Nuova sinistra, che sulla base di diverse e, a tratti, confliggenti interpretazioni del marxismo indicava pratiche del tutte aliene e, sovente, inconciliabili alla prassi del Pci. Esito forse non scontato di cui Barile ricostruisce bene le cause.

Il libro si struttura in tre parti di differente ampiezza. Alla fine del testo, inoltre, il libro contiene un’appendice di interessanti interviste realizzate dallo stesso autore ad alcuni protagonisti del dibattito politico, filosofico e culturale di quegli anni, tutti gravitanti a sinistra e con passaggi più o meno lunghi – se non unici – nel Pci e che sono stati a stretto contatto con Rossanda: Giuseppe Vacca, Luciana Castellina, Aldo Tortorella, Filippo Maone e Mario Tronti.

La prima parte, che segue l’introduzione in cui l’autore offre una densa panoramica dei temi che poi troveremo nel libro, è quella più incentrata su Rossanda, in quanto è attraverso di lei che vengono riflessi molti degli assunti che verranno comunque ripresi e ampliati nella seconda parte, dove protagonista diviene la Sezione culturale del Pci sotto la direzione sempre di Rossanda. In questo modo viene reso intelligibile lo scarto tra gli intenti maturati dalla dirigente istriana nel campo delle politiche culturali e la loro recezione, che, come si è accennato, fu contrasta dalla dirigenza del Pci, benché non tanto nel merito ma per le possibili ricadute sulla linea politica.

Nella prima parte viene ricostruita l’esperienza animata da Rossanda nell’alveo della Casa della cultura milanese, che la giovane comunista diresse fino a quando non venne chiamata a Roma nel 1962 a guidare la Sezione culturale del partito su invito abbastanza tacito di Togliatti. Che probabilmente, riflette Barile, era consapevole della necessità di uno scarto. In questa sezione del libro, l’autore delinea anche il profilo culturale di Rossanda, sicuramente diverso – se non distante – da quello degli altri dirigenti del partito nuovo, legati alla dimensione nazionale e, dunque, già predisposti ad accogliere la cosiddetta “operazione Gramsci”. In quegli anni, invece, Rossanda era a contatto con importanti maître de pensée del marxismo europeo, tra cui Lukacs, Brecht e Sartre. Era, quindi, naturalmente più aperta anche a suggestioni non storiciste. L’autore ricorda l’apprendistato di Rossanda con il filosofo Antonio Banfi e, quindi, tutte quelle esperienze che le avevano dato modo di interagire con filoni differenti e, a tratti, alternativi del marxismo. Sono temi che Barile ricostruisce con perizia e che vengono sottratti da qualsiasi riduzione schematica. Sempre in questa prima parte è presente il tema centrale del rapporto tra intellettuali e partito, o tra cultura e classe operaia. In questo senso, il 1956 è l’anno decisivo e Barile lo rileva come svolta, senonché giustamente non ne amplifica a dismisura il significato, come, soprattutto per polemica politica, è stato un po’ sbrigativamente fatto. Anche Rossanda comprende la necessità di un ripensamento del nesso tra politica e cultura e comincia contestualmente a riflettere sulle insufficienze del paradigma storicista, ancorché con le consuete cautele tipiche dei dirigenti comunisti del periodo. Altri temi presenti in questa sezione sono quelli della riflessione comunista dinanzi all’avvio del centrosinistra e, più in generale, la questione del neocapitalismo, cui l’autore dà giustamente grande risalto. Su questo tema, interessante è lo scambio di analisi, se non la maturazione di differenti e inconciliabili chiavi interpretative tra Rossanda e la dirigenza del Pci, epitomata quasi sempre da Amendola. Se per la dirigente istriana il neocapitalismo è uno scarto qualitativo, con cui fare i conti, e che in definitiva chiama ad un aggiornamento dell’ideologia del Pci, per il dirigente romano, chiaro e coerente nel ribadire la linea riformista del partito, benché attento a non chiamarla mai in quel modo, il neocapitalismo è un concetto che non trova giustificazioni. Secondo Amendola, il capitalismo italiano, nel suo complesso, continua ad essere arretrato e incapace di modernizzare il paese. Non è, dunque, in grado di integrare (almeno in parte) la classe operaia, cioè a rimuovere quella contraddizione che sola può inverarne il superamento. Con il senno di poi, è evidente una certa miopia di Amendola, ma allora la sua posizione appariva realistica e anche più spendibile per la dirigenza del partito.

La seconda parte del libro tratta il periodo in cui Rossanda dirige la Sezione culturale, dopo essere stata nominata, come si è accennato, contro i desiderata della dirigenza romana e con l’appoggio sotterraneo di Togliatti. Ritroveremo ancora i riferimenti e le problematiche collegate all’emergente cultura di massa, funzione del neocapitalismo. Fenomeni riflessi anche dalla critica francofortese, che non convince perlomeno nella pars construens Rossanda, allorché spiega (p. 181) «il semplice rifiuto, la negazione totale della realtà politico-sociale, quando non è accompagnata da processi organizzativi che sedimentano la critica e la strutturino, “si rivela come l’altra faccia dell’integrazione, come lo hippie è l’altra faccia dell’uomo dell’organizzazione, l’uno e l’altro prodotti da un meccanismo sociale che nessuno dei due riesce a scalfire». Barile pone, quindi, in evidenza come Rossanda non prenda mai le distanze dal partito, giacché (idem) «anche, dunque, nella fase più critica del rapporto tra Rossanda e il Pci, sembra non venire mai meno nella (ex) dirigente comunista la convinzione di fondo della necessità non solo, o non tanto, di un partito – qualsiasi esso sia -, ma del Pci come soggetto politico in grado potenzialmente di realizzare contenuti presenti nella protesta, sia essa operaia o studentesca (che, per Rossanda, sono la stessa cosa: anche questa è un’altra intuizione fondamentale). Un partito che, però – prosegue Barile – non ceda alla cogestione riformista del governo, ma acceleri nella transizione al socialismo». Su questo punto, la dirigenza del Pci e Amendola mai avrebbero potuto essere d’accordo. Eppure, quella di Barile, è una Rossanda tutta interna alla storia del Pci.

Senonché (pp. 181-183) «la battaglia di Rossanda in favore di un aggiornamento dei presupposti teoretici del partito» incontrò grandi resistenze. Innanzitutto, il partito temeva di perdere il controllo sulla linea politica a favore dell’elaborazione degli intellettuali, che, a giudizio di Rossanda, non doveva essere pedissequamente vincolata alla direzione politica. Eppure, ribadisce Barile, in lei «mai è presente un astratto problema di “libertà” della cultura nei confronti della politica. Sempre, invece, vi è un tentativo di stimolare un effettivo aggiornamento del marxismo in seno al corpo intellettuale». Si trattava, però, di un problema ampio se (idem) «il problema della dismissione dei rapporti era più generale e investiva il Pci al di là della contingente linea politica».

La terza parte presenta, infine, un titolo molto eloquente: Verso il non essere (p. 123). Un titolo che riteniamo assai indovinato, soprattutto se si guarda all’eredità del Pci. Questione che Barile non problematizza direttamente, anche se lascia comprendere le ragioni della sua dismissione. Ad un certo punto, il Pci non fu più capace, nonostante gli avvertimenti di alcuni, tra cui Rossanda, di comprendere la società e le trasformazioni in seno al capitalismo. Quindi, il “non essere” non fu tanto del partito, che continuò al contrario ad esistere e a mietere grandi successi elettorali. Piuttosto, a venire meno fu il nesso della riflessione, che la dirigente istriana cercava di mantenere in piedi, tra momento culturale e politico. La Sezione culturale non sparì – infatti (p. 25) coloro che la diressero dopo Rossanda furono comunque sempre dirigenti di peso (Bufalini, Napolitano, Tortorella) -, ma dileguò la sua funzione di pungolo e critica politica. Infatti, spiega l’autore, «il Pci pensa ad altro e di fatto abbandona il terreno, ritagliandosi un compito più circoscritto […] La politica culturale, intesa come direzione culturale, tramonta perché a ridursi è la contesa ideologica. Sembrerebbe, e in parte lo è, un fisiologico processo di crescita e di adeguamento ai caratteri liberali della società italiana. Eppure, c’è anche un’ammissione di impotenza e forse un cambio di pelle mai pienamente esplicitato: da partito della trasformazione a partito della buona amministrazione (idem)». Secondo Barile (p. 213), «la morte di Togliatti e la fine della doppiezza sanciscono anche la sconfitta di Rossanda». Infatti, è quella stessa eredità a frammentarsi. Certamente Rossanda ne può rivendicare una parte – conclude l’autore – l’altra parte, quella che dal migliorismo declinò nell’ineffabilità delle successive formazioni postcomuniste, poteva essere raccolta da altri.

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AlsOb
Tuesday, 27 June 2023 15:34
La questione che dovrebbe essere posta, da rappresentare una riflessione minima e ineludibile, prima di pensare a una minima ripresa o riarticolazione di un punto di vista e prospettiva autenticamente di sinistra, è capire come sia stato possibile che la sinistra storica sia stata completamente catturata dalla classe dominante e convertita nei più zelanti propagandisti del neoliberalismo fascista e del cretinismo lobotomizzante.
Gli anni settanta costituiscono indubbiamente un momento di apogeo per il capitalismo: la crisi astutamente letta dai sicofanti della classe dominante in modo acritico e ideologico, per indurre e rafforzare il passaggio all’irrazionalismo e al mutamento paradigmatico di stampo neoliberale fascista, fu di fatto un effetto del successo del capitalismo. Così come marxianamente lo furono le conflittualità e istanze di cambiamento culturale e sociale che emersero, pur nei loro tratti di confusione, ingenuità e facilità di manipolazione.
La teoria dell’esaurimento del modello fordista non dovrebbe significare automaticamente la irrevocabile spiegazione della necessità di accettare il freno all’aumento del reddito, l’imposizione di più intenso sfruttamento e precarietà per i più, il superamento all'indietro del capitalismo minimamente regolamentato e democraticizzato della golden age, la negazione delle premesse scientifiche e teoriche sulla natura e gestione del capitalismo del dopoguerra e l’adesione incondizionata al paradigma anti-scientifico del neoliberalismo fascista, avente come unico scopo una radicale ristrutturazione del potere, l’accentuazione dell'imperialismo e la feudalizzazione regressiva del capitalismo, peraltro finanziarizzato e reso sensibilmente più instabile.
Tristemente e a prescindere dalle categorie utilizzate, appare essere stato profeta e avere avuto ragione Marcuse, che prevedeva uno sbocco fascista, anche se forse (o forse sì) non si aspettava che la sinistra abbracciasse da prima della classe tali sorti antidemocratiche e regressive.
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Franco Trondoli
Tuesday, 27 June 2023 21:35
Gentile AlsOb,
Secondo me, bisogna cercare di capire che nelle Società Capitalistiche (Industrializzate) Occidentali e anche a mio parere nelle Società Contadine passate nella forma Industrializzata di Sviluppo con una " Rivoluzione Socialista", prima l'Urss, poi la Cina, non possono esserci Inversioni di Sistema che aboliscano il modo di produzione basato sulla Merce, sul Denaro, sul Valore, sul Lavoro Salariato e sul Mercato delle Merci; senza che, contemporaneamente, e per lungo tempo, non si manifestino altresì delle forme di collasso del Sistema complessivo. Natura compresa. Questo, per la semplice ragione, che codesti sistemi integrano totalmente e progressivamente , nelle loro relazioni, tutta la vita umana nella sua totalità. Non si può agire " contro", perché letteralmente, non si può vivere fuori dal contesto delle relazioni automatiche obbligatorie per poter campare. Sempre più male, ma campare. Credo che Marx stesso lo abbia scritto, il Capitalismo è un modo di produrre ( e vivere ) Impersonale.
DAS CAPITAL è il soggetto. Non le Classi Sociali. Quindi questo modo di produrre e vivere, che si modifica in continuazione, basato sul Capitale, deve arrivare fino alla fine dei suoi limiti storici complessivi. È determinismo questo ?. Non credo.
Non possiamo prevedere quello che succederà, tutto però deve fare i conti con la Realtà , con la Potenza, con la Forza delle azioni umane, per poter essere fatto. Anche l'estinzione della vita umana sulla terra potrebbe diventare un fatto. Chi la può escludere ?.
Nelle fasi Fordiste del Capitalismo, comprese Russia e Cina, le Classi Lavoratrici ed il Capitale erano e sono due facce della stessa medaglia che si integravano ( integrano) a vicenda , rendendo possibile uno sviluppo progressivo produttore di profitti anche da poter ridistribuire, in un contesto dove il mercato era semivergine e le merci potevano essere allocate. Non potevano esserci crisi di sovraproduzione. Ovviamente anche le forme politiche di mediazione in questo contesto produttivo di relazioni interclassiste hanno guadagnato spazio. La stessa parabola del Capitalismo Occidentale segue e seguirà la Cina. Ha ed Avrà gli stessi problemi di base. Per quello che mi pare evidente come siano problemi "economici" di tipo mondiale ormai, anche se ovviamente su scale differenziali di tempi di sviluppo. C'è un unico modo di produrre Capitalistico nel Mondo, con diversi gradi di intensità anche territoriali, si formano delle Elites in lotta tra di loro per l'appropriazione di maggior denaro e potere possibile. I Dannati della terra non hanno gli strumenti per tenere il passo del Capitale. Non possono averli, se no non esisterebbe il Capitale stesso. Qua' e là riescono a difendersi un pochino, sperando un po' nella buona sorte, e nella " bontà" di lor signori, fino a quando, nessuno lo sa. Ma anche lor signori devono riflettere, la natura naturante comincia a essere stufa.
Cordialmente
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AlsOb
Wednesday, 28 June 2023 15:20
Gentile F Trondoli i tuoi spunti sono in generale sempre interessanti.
Ma uno dei rischi nell’assumere una astratta posizione assimilabile a una prospettiva escatologica mondanizzata e fatalismo, (o sorta di replica della malintesa mano invisibile), è soprattutto quello di giustificare disimpegno, ignoranza, incompetenza e ciarlataneria. Automaticamente diventerebbe accettabile e indifferente che la sinistra propagandi il neoliberalismo fascista e il fascismo tout court, che collabori alla creazione dei maggiori disastri sociali, dato che il sistema capitalistico nella sua impersonalità percorrerebbe comunque il suo irrevocabile cammino fino al collasso finale, apparentemente inconclusivo e aperto alle possibilità o dell’emancipazione o dell'autoannichilimento.
È una lettura che presenta gradi di pericolosità e equivocità e che non rispecchia lo spirito di Marx, che non è determinista, sebbene sia teologicamente e soteriologicamente ottimista e psicologicamente avverso ai sentimenti di angoscia e disillusione e fallimento.
I conflitti di classe, i rapporti di forza e sociali e le contrapposizioni ideologiche determinano di volta in volta la dinamica delle situazioni relazionali a livello istituzionale, economico e politico. Ovviamente il capitale e i capitalisti mirano sempre allo stesso scopo nei termini spiegati da Adam Smith con la sua legge fondamentale: radicale abbruttimento morale e fisico degli schiavi sfruttati e massima appropriazione di reddito e ricchezza nelle loro mani. Persino un intellettuale estetizzante, sofisticato e disincantato come Keynes approdò a posizioni staliniane, per la necessità di disciplinare rigorosamente il capitale.
Invece dagli anni settanta in poi con il trionfo incontrastato del neoliberalismo fascista, della istituzionalizzazione delle fake news, della pseudo-metafisica e irrazionalismo la moda è diventata bastonare e disciplinare le classi socialiinferiori, per marciare, parafrasando Marcuse, verso la civiltà del fascismo e della stupidità con il supporto della sinistra.
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Franco Trondoli
Thursday, 29 June 2023 21:46
Grazie Gentile AlsOb per la Tua attenzione e risposta.
Leggo sempre volentieri le Tue osservazioni.
La Tua Cultura è Profonda e Classica.
Credo di capirti.
La Storia del Militante di Sinistra Novecentesco per me è finita alla fine degli anni '70. Il 15 agosto 1971 Nixon ha stoppato la convertibilità del dollaro in oro. Un mese dopo , io iniziavo a lavorare...per 40 anni..!
Il Mondo cambiava di colpo, quanto tempo dopo ce ne saremo accorti..?
Il lungo '68 non sarebbe stato il contemporaneo..in atto.
Vedo delle cose sottotraccia..ma deboli..molto deboli.
Un Caro Saluto
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Franco Trondoli
Saturday, 24 June 2023 15:25
Il 68' non era l'inizio di una apertura qualitativamente nuova dei processi sociali di critica al Capitalismo. Ma era la fine del progressismo Fordista. Durato come tutti sanno circa dal 1945 al 1975.
Quindi una visione storica sbagliata da parte di tutta la cosiddetta sinistra attiva. Piuttosto ingenua ed opportunista nelle sue varie sfaccettature.
Come conoscenza prima, ancora adesso ovviamente, sono del tutto inadeguati i riferimenti e i concetti filosofici con i quali poter realizzare una prassi.
Per chi può, ne ha voglia, ne ha l'intuizione, studiare le due linee della Filosofia. Quella maggiore e quella minore.
In caso contrario, niente da fare, si sta a vedere..e basta.
Buona Fortuna
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Alessandro
Monday, 26 June 2023 14:55
La sua è una visione piuttosto meccanica degli eventi. A partire dal 1956 e lungo tutti gli anni Sessanta si accresce una tensione politica che sfocerà nel 1968 e, in Italia, in un decennio di lotte di classe politicamente radicali e ideologicamente trainate da un marxismo ancora egemone nella protesta e in larga parte della cultura progressista italiana. E' questo che rende il lungo Sessantotto un'occasione storica: consenso di classe su una lotta per il potere ispirata dal marxismo. Ragionare del capitalismo solo in base alla sua strutturazione interna è vedere solo un corno del problema e non la realtà nella sua completezza. Poi si può ragionare su quanto la sinistra, negli anni Settanta, avesse una compiuta idea di dove si stava andando, delle trasformazioni in atto nella produzione e composizione di classe, della direzione di queste verso una frantumazione del soggetto sociale. Possiamo dirci, cinquant'anni dopo, che quello che veniva individuato come "apogeo" fosse, in realtà, il tramonto di una certa idea di rivoluzione, da cui in effetti non ci è più ripresi. Ma questo è un altro discorso.
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Franco Trondoli
Tuesday, 27 June 2023 01:31
Guardi che è la sua una visione piuttosto meccanica degli eventi.
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