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Spiritualizzare il neoliberalismo

di Mimmo Cangiano

A proposito della cultura di destra: ecco come si è aperta alla possibilità di esaltare ogni forma di sviluppo capitalistico considerandolo un viatico per il rafforzamento della comunità e dell'identità nazionale

D44ACB10 0CF2 4A8D A2D2 8BA7D15840F7 1536x560Si può cominciare da quattro cose che la cultura di destra non è. La cultura di destra non è incultura, ma un preciso sistema di pensiero che, con molte varianti interne, ruota intorno a una serie riconoscibile di tematiche economiche, sociali, politiche e filosofiche. Come tale la cultura di destra ha i suoi intellettuali e partecipa, tramite prassi e tramite teoria, alla battaglia per l’egemonia e per la conquista del senso comune.

In secondo luogo, la cultura di destra non è eterna, non è un fenomeno a-storico e men che meno è un’attitudine psicologica, ma è una delle risposte ai processi di democratizzazione e di prima nazionalizzazione delle masse che seguono al tracollo di feudalesimo e Ancien Régime. In tal senso la cultura di destra è una reazione al progressivo instaurarsi del sistema capitalistico e alla formazione delle istituzioni liberali, esattamente come lo è la cultura di sinistra.

In terzo luogo, la cultura di destra non è immobile, ma reagisce costantemente alle trasformazioni sociali (rivoluzioni industriali, irruzione delle masse nello Stato, emancipazione femminile, passaggio alla società dei consumi, globalizzazione, ecc.) riformulandosi per non morire. In ultimo, la cultura di destra non ha un preciso alveo culturale di nascita e non è legata per la vita a nessuna temperie filosofica (non è figlia del nazionalismo romantico, del metodo scientifico positivista o della Kulturkritik) ma, esattamente come fa rispetto alle trasformazioni socio-economiche, instaura continuamente relazioni dialettiche con le logiche culturali dominanti.

Ciò detto, è comunque possibile individuare una serie di tropi che, pur con le dovute eccezioni, rappresentano la spina dorsale di ogni cultura di destra.

 

Il mito della comunità

Di contro allo sradicamento individualistico che si sviluppa nella competizione generalizzata che il capitalismo introduce, la cultura di destra risponde presupponendo l’esistenza (e la resistenza) di gruppi sociali non regolati dallo scambio concorrenziale di merci e denaro, ma articolati sulla base di un ethos che fa della comunità (etnica e/o sociale) un modello di vivere estraneo ai meccanismi disgreganti che caratterizzano la società moderna. La comunità, aliena al darwinismo economico capitalista (organicismo), rimarrebbe così al riparo dai fenomeni a questo connessi, a cominciare dall’individualismo per finire con la disgregazione valoriale, vale a dire col crollo di verità e valori condivisi e collettivi (relativismo).

Va però inteso che, all’interno di questo schema, il concetto di comunità cambierà costantemente, allargandosi progressivamente da un iniziale microcosmo rurale/artigianale verso, man mano che la nazionalizzazione delle masse risulterà necessaria, la nazione e l’orizzonte industrial-cittadino, spingendosi in alcuni casi fino al trans-nazionale (La Rochelle, Jünger, ecc.), fino cioè al mito di una società civile (di solito europea o occidentale) naturalmente altro dai sintomi biopolitici che il capitalismo sta creando.

Va aggiunto che il concetto di comunità si attiverà costantemente anche nella critica alla lotta di classe, in quanto esso presuppone sì una società divisa (la comunità da un lato, la società capitalistica e/o collettivistica dall’altro), ma non secondo il principio del fare bensì seguendo quello dell’essere. Se infatti nella visione marxista la decisiva faglia sociale è correlata a ciò che un soggetto fa nel mondo (lavorare possedendo o no i mezzi di produzione, dover vendere o meno la propria forza-lavoro, ecc.), nella visione comunitarista la divisione è istituita seguendo principi etnici (la tua razza), sociali (l’ambiente in cui sei nato) o etici (lo scegliere per quale modello di vita parteggiare). Proprio per tale ragione il capitalismo riuscirà a servirsi costantemente dei principi comunitaristi, tanto a scopo di profitto e di rafforzamento del comparto industriale nazionale («comprate prodotti italiani!») quanto a scopo militare. Non mancheranno infatti esperienze in cui (si può fare l’esempio del Werner Sombart di Mercanti ed eroi) le caratteristiche anti-comunitarie del modo di vita capitalistico saranno assegnate in blocco a interi popoli stranieri. E gli stessi progetti di «rivoluzione antropologica», o i costanti appelli (vivi e vegeti tutt’oggi) alla necessità di una rigenerazione o di un risveglio di un determinato gruppo socio-nazionale, saranno appunto tesi alla riattivazione di una comunità che si immagina dormiente ma esistente. Lo Stato fascista si assumerà, ad esempio, appunto il compito di educare gli italiani a quelle che sono le presupposte caratteristiche della comunità-Italia, quelle che il Partito ha già implicitamente riattivato. In tal senso la sovrapposizione fra Italia e fascismo sarà uno straordinario frutto ideologico, centrale nella costruzione dell’egemonia.

 

L’identità culturale

Strettamente collegato al mito della comunità organica è infatti la presupposizione di una Kultur (di un’identità culturale), vale a dire di un complesso di fattori capace di racchiudere in un limite circoscritto tutto l’insieme dei valori in cui risiederebbe la realtà profonda di un gruppo sociale o nazionale: un immaginario comune, una serie di tradizioni condivise che si esprimono in simboli caratteriali e culturali (architettura, arte, linguaggio, ecc.). La presupposizione di un carattere socio-nazionale, cioè di una serie di caratteristiche archetipiche del gruppo comunitario, permette da un lato di dare forma al gruppo stesso (così evitando, secondo principi appunto identitari, polarizzazioni interne), dall’altro di istituire distinzioni all’esterno, vale a dire di separare il gruppo in oggetto da tutta una serie di figure che vengono intese come appartenenti a una Kultur differente. In questo modo, ad esempio, non solo gli ebrei potranno essere intesi – stante il loro presunto «cosmopolitismo» – come elementi interni a quella cultura capitalistica (che è non-cultura dal momento che non poggia su un materiale comunitario organico) che si va espandendo, ma anche altri soggetti sociali potranno essere assegnati (traditori del loro carattere) a identità estranee: i liberali anglicizzanti, i socialisti filo-sovietici, ecc.

Ma se è vero che siamo qui ancora nei pressi di un principio di ascendenza romantica, vale a dire nei pressi dell’idea di ricreare, mediante una magnificazione simbolica, un’unità socio-nazionale che è avvertita come sotto attacco, allo stesso tempo alla realtà sociale corrente (diversamente che nel romanticismo) è di fatto negata… realtà. Dal momento infatti che questa non corrisponde alla Kultur identitaria (Mino Maccari affermerà che gli italiani che credono nel valore del denaro stanno tradendo la loro anima più profonda, il loro vero essere), essa scadrà ad apparenza, perché solo una società che funziona secondo quei principi archetipali che definiscono la sua gente può assurgere al rango… di vera realtà.

Se cioè tale postura intellettuale può certo essere riferita a una particolare interpretazione del discorso romantico, è chiaro altresì che qui non stiamo più parlando del possibile «ritorno degli dei» annunciato da Novalis, perché in tale concezione mitico-archetipale gli dei non se ne sono mai andati. Ciò, nel campo politico-economico, significa appunto negare realtà alla situazione corrente (cioè alla società divisa), affermando invece come reale un’immagine archetipale della società stessa (ed ecco gli appelli alla necessità di rigenerazione e risveglio), e dunque presentando il principio che riporta la frammentazione a unità non come un atto d’accusa verso ciò che la modernità (capitalista) ha fatto al mondo, ma come proiezione di una soggettività che si crede intatta, estranea ai sintomi del funzionamento capitalistico, perché parte del modello archetipico della Kultur.

 

La naturalizzazione della storia

Compare qui in controluce uno dei gangli centrali della cultura di destra: la naturalizzazione della storia. Tutto ciò che della società presente non corrisponde al presunto carattere della società stessa, decade al rango di degenerazione e corruzione, parte di una lotta (in autori come Evola o Guénon addirittura millenaria) fra una reale organicità sociale e ciò che prova a porla in crisi.

È questa un’altra fondamentale differenza con la critica della società divisa che proviene dal marxismo. In questo solo un movimento verso il futuro potrà portarci a una società non-divisa, mentre per la cultura di destra tale società è comunque sempre esistente e operante, anche se sotto la cenere di quella realtà coesa solo a partire dall’ostilità dei membri che la compongono che è la società capitalista. Persiste insomma il presupposto di un’omogeneità interna, vale a dire di una serie di nessi (il portato della tradizione che si esprime in linguaggio, arte, architettura, letteratura, modo di vivere, ecc.) in grado di ribadire la forma della comunità stessa, secondo un principio platonico-emanativo, vale a dire intendendo il carattere della società come emanazione, quando non-corrotto, da un nucleo originario che ha indicato da sempre e per sempre le direzioni del suo sviluppo. Chiaro che, di conseguenza, la stessa educazione sarà intesa come obbedienza a ciò che quel nucleo definiva: l’obbedienza verso lo Stato fascista potrà così diventare, ad esempio, obbedienza alla Kultur italica.

 

Modernismo e anti-modernismo

E conta relativamente poco, in tale ottica, se la cultura di destra sviluppi tali propositi di ritorno alla Kultur mediante una marcia indietro (anti-modernismo) o una in avanti (modernismo), perché anche in questo secondo caso il movimento progressivo, negata la dialettica dei propositi politici col funzionamento della società corrente (altra enorme differenza col marxismo che si intende come un sintomo del capitalismo), verrà comunque inteso come ritorno ai principi che la modernità sta negando.

In questo modo la cultura di destra potrà però superare le opzioni minoritarie che l’avevano caratterizzata fino al 1914 (difesa della società rurale, dell’artigianato, del valore d’uso, dell’aristocrazia, dei circoli elitari, ecc.), cominciando a servirsi (o a piegarsi se si preferisce) di/a tutti i portati della modernità stessa. Le masse, ad esempio, da qui potranno diventare (come in Curzio Malaparte) agenti delle Kulturen nazionali; nuovi modelli economici (come il corporativismo) andranno a rappresentare non solo una «terza via» fra capitalismo e socialismo, ma il ritorno a quelle modalità di funzionamento economico che rispecchiano il carattere della società stessa; addirittura la produzione industriale potrà essere esaltata, in un progressivo fare spazio a modalità capitalistiche (ma ora in teoria controllate dallo Stato) come emanazione della potenza dell’identità culturale nazionale. Allo stesso modo Hitler potrà continuare a esaltare la campagna quale luogo principe dell’anima tedesca (spirituale, naturale, gerarchica, ecc.), ma saranno le sue nuove autostrade a portare i cittadini del Terzo Reich a quella natura che li definisce. Non è dunque un principio anti-moderno a fare la cultura di destra, ma è l’inserimento di elementi non-dialettici (archetipici, mitici, ecc.) a cui sistematicamente piegare i portati della modernità, così rafforzando l’illusione di un’autonomia da questi.

 

Il rifiuto della dialettica

Su solo due tematiche, infatti, gli intellettuali di destra mostrano un volto uniforme: l’anti-materialismo e il rifiuto della dialettica. Addirittura Charles Péguy, uno dei pochissimi a sostenere l’idea di una relazione dialettica fra materiale e spirituale, considera il dominio dell’economia (e di un approccio economicista) tanto più vero quanto più in relazione a un decadimento qualitativo del reale: «la dominazione dell’economico è pesantemente vera in tutto ciò che è volgare». Il rifiuto del materialismo serve naturalmente, a un primo livello, ad allontanare le interpretazioni di tipo strutturale subordinandole ad altri elementi (nazionali, etnici, spirituali, ecc.), ma serve anche a inquadrare il primato dell’economico appunto come degradazione, cioè come allontanamento da un corretto funzionamento del sociale che deve porre invece il politico in posizione di superiorità.

Il materialismo viene poi inteso come correlato alla trasformazione dello Stato in semplice strumento di servizio, incapace di modellare la comunità nazionale fuori dall’azione disgregante del capitalismo. Si sostiene solitamente come correttivo (soprattutto a fine Ottocento) la necessità di una marcia indietro verso un potere a gestione elitaria (ideologicamente puntellato da considerazioni circa una diseguaglianza naturale che implica il ritorno ad antichi modelli di direzione gerarchica: quello greco, quello feudale, ecc.), oppure si difende la necessità di un assorbimento delle masse nel sistema valoriale (e amministrativo) delle vecchie élites, al fine di evitare la loro caduta nel materialismo, o infine si individua uno strato sociale in ascesa – intellettuali, piccola borghesia, ecc. – da porre alla direzione delle istituzioni in quanto espressione di un sentire immune dagli aspetti più anti-nazionali del capitalismo. Se infatti a dominare la società è un principio politico e non economico, lo Stato può cominciare a essere visto come elemento armonizzatore fra gli interessi del capitale (nazionale) e quelli della comunità.

 

Spiritualizzare il moderno

Il capitale però, solo in rarissimi casi viene inteso nel suo essere primariamente un modo di produzione, ma, stante la pregiudiziale anti-materialista, le modalità della produzione sono solitamente lette come elemento di secondo grado rispetto a una modifica delle attitudini etiche, psicologiche o spirituali. È cioè, a destra, sempre un cambiamento valoriale a dettare quelle modifiche sul piano della prassi che conducono alla formazione del modo di produzione capitalista. Ciò è fondamentale perché, da questo standpoint, la battaglia anti-capitalista della destra potrà subordinare la lotta di prassi per modificare il modo di produzione ad altri tipi di lotta (spirituale, valoriale, etica, razziale, ecc.), e potrà impostare una critica al capitalismo (ad esempio quella tipica alla società dei consumi, tutt’ora viva in molti intellettuali di destra contemporanei, si pensi a Botho Strauß) mettendo in secondo piano proprio il cambiamento del sistema produttivo. Da qui la prassi capitalista avrà buon gioco a servirsi del pensiero di destra per operare ogni genere di “rivoluzione passiva”.

Progressivamente, del resto, come già accennato, la cultura di destra si troverà sempre più costretta ad abbandonare i suoi modelli sociali di riferimento (la campagna, l’artigianato, la natura, ecc.) per passare a leggere proprio nelle conformazioni della modernità (la metropoli, l’industria, le masse, ecc.) un alveo adatto alla propagazione di quell’insieme dei valori nazional-comunitari che determinano come Kultur, dal suo punto di vista, lo sviluppo storico di un popolo. Si tratterà cioè, da questo punto in avanti, di spiritualizzare il moderno. Qui si svilupperà, ad esempio, il bi-frontismo fascista (rivoluzionario e contro-rivoluzionario, modernista e antimodernista ecc.), veicolando un tipo di modernità che, alternativa a quella liberale, vuole mantenerne intatti i criteri di efficienza economica, inquadrandoli però in funzioni ideologiche e amministrative differenti, perché tendenti ad accogliere in sé tanto i tratti della modernità (per esempio i miti della maggior efficienza produttiva dei sistemi fascisti) quanto quelli dell’anti-modernità (le idee di sistemi politico-economici alieni dagli effetti atomizzanti e disgreganti del capitalismo e legati ad antiche e identitarie strutture di produzione e rappresentanza – per esempio, le corporazioni medievali).

Il fascismo italiano, col suo duplice sviluppo cittadino e agrario e con la sua base di consenso piccolo-borghese, è certo all’avanguardia in questo processo, perché offre l’immagine di una società di massa in grado di avallare «lo sviluppo economico senza mettere a rischio i confini sociali e le tradizioni nazionali» (Ruth Ben-Ghiat), vale a dire dando ai luoghi deputati della modernità (l’industria, la metropoli ecc.) un carattere di tradizione che li separa dallo sviluppo incontrollato del capitalismo liberale, per connetterli invece alla concreta struttura di un popolo che si esprime mediante i suoi valori archetipici (e, viceversa, la romanità sarà una strada diretta verso il futuro). La spiritualizzazione del moderno inquadra nell’operato dello Stato un’azione pragmatica atta a dirigere le forze di sviluppo per dare agli individui la sensazione di un nuovo livello di autonomia, finalizzata a permettere di cambiare il sistema economico che li sta cambiando. Tale dinamica consentirà al regime di mantenere costantemente in piedi due posizionamenti ideologici apparentemente alternativi, che andranno continuamente a controbilanciarsi non solo mediante le manifestazioni culturali del «fascismo di sinistra», ma anche ai vertici della politica medesima, dove i processi effettivi di modernizzazione (mercato sempre più globalizzato, immissione di prodotti dall’estero, immissione di differenti stili di vita così come presentati dal cinema ecc.) potranno essere arginati in molteplici modi, e con riferimenti tanto al passato (per esempio, gli appelli ai valori rurali della società italiana) quanto al futuro (per esempio, il mito della rivoluzione antropologica che sta creando l’uomo fascista o il mito palingenetico della gioventù): critica dell’individualismo, difesa di principi socio-religiosi di tipo gerarchico, esaltazione dell’industrializzazione come mezzo per esportare i principi archetipici nazionali e, soprattutto, critica non della modernità tout court ma di una modernità… degenerata, in quanto non in grado di modificare la società nell’ordine di quel primato della politica che è garante dell’unità della compagine nazionale nel quadro di una resistenza agli effetti disgregatori del sistema economico internazionale.

Tale modello ideologico sarà del resto raddoppiato proprio nel mito della rivoluzione antropologica, la cui prassi però si rivelerà assolutamente materialista, diretta cioè alla militarizzazione esteriore delle dinamiche sociali nelle quali il cittadino si forma. Ciò darà luogo a quel cortocircuito fra un fascismo macchina mitopoietica ad altissimo livello di produzione ideologica e un fascismo macchina propagandistica (soprattutto per ciò che concerne la cultura di massa) tesa a premiare le vecchie attitudini conformiste nobilitandole, appunto, col marchio della trasformazione antropologica.

 

Ideologia fascista e sviluppo capitalista

Bisogna in conclusione chiedersi se queste prospettive, che tendono a immobilizzare – secondo il principio emanativo – le direzioni del processo storico mediante il riferimento a determinati tropi culturali (ad esempio l’italianità), non abbiano in realtà qualcosa a che fare con la stessa cultura razionalistico-strumentale che pongono a proprio bersaglio. Già Gramsci, nelle pagine su Americanismo e Fordismo, sosteneva del resto che la cultura gentiliana, proprio nel suo esaltare l’affermarsi della filosofia nella pratica, finiva col de-ideologizzare i processi di sviluppo, rischiando così continuamente, pur mentre parlava di tradizione, di sovrapporre ideologia fascista e sviluppo industriale di tipo capitalista (Confindustria era del resto uscita completamente intatta dalla lotta ideologica per il corporativismo).

In modo solo apparentemente dissimile, pochi anni prima Lukács aveva assegnato al solo proletariato la possibilità di arrivare a comprendere il funzionamento dell’intero della struttura sociale. Questo perché, fra i vari soggetti sociali, solo il proletariato si avvertiva immediatamente nella condizione di soggetto e oggetto (reificazione), al tempo stesso, dell’accadere sociale. Tale condizione, secondo Lukács, gli negava l’illusione di arrivare a dominare col pensiero l’intero della struttura sociale (come invece fanno appunto concetti quali quello di comunità e di Kultur), costringendolo a spostare tale possibilità in un’operazione connessa alla prassi. Gli altri soggetti sociali, invece, non avvertendosi reificati, continuano a ritenere possibile una visione culturalista della totalità del reale, appunto perché non riescono a comprendere la relazione dialettica fra quanto accade a livello sociale (razionalizzazione, specializzazione, strumentalizzazione) e lo sviluppo del loro stesso pensiero. Qui si sviluppava l’anti-materialismo: le posizioni filosofiche tese ad afferrare la realtà fuori da questa relazione dialettica diventavano espressioni astratte di un pensiero che poteva immaginarsi autonomo (poteva cioè pensare di dominare il reale nella forma della totalità, dell’archetipo) solo perché si immaginava separato da quanto accadeva sul piano concreto (la prassi) dell’essere-sociale.

Ma in tal senso alla base di tali opzioni ideologiche tese a postulare un orizzonte di verità fuori dalle continue modifiche storiche (esattamente come accade a destra tanto per il concetto di comunità quanto per quello di identità culturale), risiederebbe proprio lo stesso principio di razionalizzazione strumentale (la stessa che sta dominando il mondo materiale della produzione) che tende ad approdare alla verità eliminando gli elementi che non si adattano al quadro dell’interpretazione: cercare i mezzi più adatti allo scopo e dichiarare il fine prefissato come verità (privilegiare sempre il mezzo al fine). Di conseguenza le medesime funzioni della Kultur si caratterizzerebbero come razionalizzazioni.

Siamo cioè nell’ottica di un utilizzo strumentale (tecnicizzato) della stessa Kultur, e che è poi la totale sussunzione del materiale ideologico nella forma di una merce, come diceva Furio Jesi, da utilizzare strumentalmente. Da qui, almeno a livello teorico, la via a una cultura di destra tesa a esaltare ogni ristrutturazione materiale del capitalismo come via a un rafforzamento della comunità e della cultura identitaria nazionale, pur mentre parla di tradizione, era di fatto già aperta.


*Mimmo Cangiano è ricercatore in critica letteraria e letterature comparate presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Si è addottorato negli Stati uniti, dove ha poi insegnato per anni (Colgate University e Harvard University), con una parentesi presso la Hebrew University of Jerusalem. È studioso del modernismo, del marxismo e della cultura di destra primonovecentesca: tra i suoi saggi The Wreckage of Philosophy. Carlo Michelstaedter and the Limits of Bourgeois Thought, Toronto, University of Toronto Press, 2019; La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922), Macerata, Quodlibet, 2018; Il presente di Gramsci. Letteratura e ideologia oggi, Galaad, Culture di destra e società di massa (nottetempo, 2022).

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