Grandezza, limiti e attualità della Resistenza
di Eros Barone
1. Da dove viene il termine “Resistenza”?
Un quesito interessante, da cui può prendere avvìo il presente discorso, è quello riguardante la genesi storica del termine “Resistenza”. Ebbene, con questo termine si intende indicare un’azione armata condotta da formazioni partigiane per frenare l’avanzata dell’invasore nazista, laddove è palese che l’origine del significato della parola “Resistenza” è strettamente collegata con l’aggressione all’Unione Sovietica da parte delle forze armate hitleriane (22 giugno 1941) e con la Grande Guerra Patriottica che fu la risposta data dal popolo e dallo Stato socialista a tale aggressione. L’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica fu infatti la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi e il fronte orientale fu il più grande e importante teatro bellico della seconda guerra mondiale, ove si svolsero alcune tra le più grandi e sanguinose battaglie di tale guerra.
Nei quattro anni che seguirono (1941-1945) decine di milioni di militari e civili morirono o patirono terribili sofferenze. La Germania schierò 2 milioni e mezzo di uomini, l’Unione Sovietica 4 milioni e 700 mila soldati, di cui 2 milioni e mezzo sul fronte occidentale. Può essere allora opportuno ricordare che durante la seconda guerra mondiale sono state complessivamente soppresse attorno ai 50 milioni di vite umane.
Dal punto di vista meramente comparativo, l’ordine di grandezza dei caduti italiani fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 è invece piuttosto esiguo: 44.720 partigiani caduti e 9.980 uccisi per rappresaglia, ai quali vanno sommati 21.168 partigiani e 412 civili mutilati e invalidi. In totale dopo l’armistizio si ebbero 187.522 caduti (dei quali 120.060 civili) e 210.149 dispersi (dei quali 122.668 civili). Fra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943 le forze armate italiane avevano avuto 92.767 caduti (cui vanno aggiunti 25.499 civili), mentre i dispersi erano stati 106.228. Complessivamente le perdite italiane nel secondo conflitto hanno dunque raggiunto (morti e dispersi, militari e civili, maschi e femmine) le 444.523 unità.
Altri paesi hanno avuto esperienze ben più sanguinose: l’Unione Sovietica 20 milioni di morti, dei quali 7 milioni di civili (complessivamente, il 10 per cento della popolazione); la Jugoslavia 1.690.000; la Polonia 6 milioni (il 22 per cento della popolazione, la percentuale più alta nel mondo); la Germania ha subìto circa 5 milioni di perdite umane; il Giappone 1.800.000. 1
2. Resistenza, guerriglia e guerra di popolo
A partire dal 1943, il movimento di Resistenza assume in tutta Europa una caratteristica offensiva e si trasforma in vera e propria lotta di liberazione. Qui cade una distinzione importante: quella fra la guerriglia partigiana condotta nelle città e nelle campagne da formazioni di volontari numericamente poco consistenti (è il caso dell’Italia) e la guerra di popolo vera e propria condotta da un esercito di liberazione nazionale (è il caso della Jugoslavia, dove la soglia numerica della brigata partigiana non era mai inferiore ai 2.000 uomini).
Il modello militare della Resistenza europea è la guerra di Spagna condotta dalle forze repubblicane contro la sedizione franchista (1936-1939), in cui l’esercito regolare è affiancato da formazioni ‘irregolari’ composte da volontari (le Brigate internazionali). Il modello politico è la strategia dei fronti popolari elaborata nel VII Congresso del Komintern (1935). 2 A partire dalla cosiddetta “svolta di Salerno” (marzo 1944), nella politica comunista diretta da Togliatti si andò sempre più accentuando, insieme al fronte unico contro il fascismo, l’aspetto nazional-popolare che finì col diventare prevalente nel periodo della Resistenza armata.
Determinante fu, comunque, il ruolo svolto dalla alleanza militare tra Unione Sovietica e democrazie occidentali nel corso della guerra mondiale: ciò contribuì in parte a subordinare l’azione militare della guerriglia partigiana alla strategia delle forze armate alleate. In tal modo l’aspetto insurrezionale con finalità rivoluzionarie fu mortificato sino a sfociare in tragedia nel caso della Grecia (1944).
Ben diversa fu la vicenda delle guerre di popolo antigiapponesi e anticoloniali che portarono alla vittoria del comunismo in Cina e in altre zone dell’Asia; ma, chissà perché, tutta questa vicenda, pur essendo partita da analoghe premesse politiche (VII Congresso del Komintern), non viene compresa nel concetto di Resistenza, che rimane rinchiuso nell’àmbito europeo.3
3. Terrorismo urbano e Resistenza
Dal punto di vista geografico, i combattimenti più importanti della guerriglia partigiana si svolsero in Piemonte e nel Friuli Venezia Giulia, ma in realtà tutto l’arco alpino può considerarsi il vero e proprio terreno della guerriglia partigiana. Le azioni di sabotaggio e di terrorismo svolte nei centro urbani erano organizzate invece dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica).
Ci sono voluti settant’anni affinché i GAP trovassero nel saggio di Santo Peli, intitolato Storie di GAP, la collocazione storiografica che spetta ad una delle forme di lotta – quella terroristica – che, insieme con le azioni armate delle bande partigiane operanti sulle montagne, nelle campagne e nelle pianure, la Resistenza pose in atto contro il nazifascismo. In sostanza, ci sono voluti settant’anni affinché il gappismo passasse dalla dimensione della letteratura (Uomini e no, scritto da Elio Vittorini nel 1944, fu il primo romanzo sul terrorismo resistenziale) o dalla memorialistica (come non ricordare la ‘mitica’ testimonianza autobiografica di Giovanni Pesce in Senza tregua. La guerra dei GAP?) alla dimensione della storiografia e dalla dimensione della storia locale alla dimensione della storia generale. E, sebbene sia difficile, per ovvie ragioni connesse al carattere clandestino delle loro azioni, ricostruire in modo preciso e completo la storia dei GAP, occorre riconoscere la funzione determinante che ebbe questa forma di lotta sia rispetto alla dinamica dei conflitti sindacali (1943-1944) sia rispetto alla capacità di controllo del territorio urbano nei suoi nodi nevralgici – politici, militari e amministrativi – da parte delle forze di occupazione naziste e dei loro alleati repubblichini. La durezza delle rappresaglie, avendo come posta in gioco il controllo dei centri urbani, risultò così direttamente proporzionale all’incidenza della pratica del terrorismo urbano.
Non meno rilevanti furono i dilemmi politici ed etici che segnarono tale pratica: basti pensare alla difficile decisione di uccidere a sangue freddo, al problema delle rappresaglie e alla tortura. Sennonché occorre anche riconoscere che senza i GAP la Resistenza avrebbe perso la duplice possibilità di contrastare l’attesismo predicato dalle componenti moderate della stessa Resistenza e di neutralizzare la “zona grigia”, ossia quella parte ampia della popolazione che non stava con i partigiani e non era ostile ai nazifascisti. 4
4. Una rivoluzione ininterrotta per tappe
Del resto, l’interpretazione che caratterizza la Resistenza come un intreccio complesso di tre guerre (di liberazione nazionale, di classe e civile) è ormai depositata in un’opera che, proprio perché fornisce una ricostruzione della Resistenza italiana che va al di là delle interessate liquidazioni, così come dei miti agiografici, è una pietra miliare della storiografia dell’età contemporanea: Claudio Pavone, Una guerra civile (1943-1945) (1990). 5 A questa opera fondamentale si affiancano le ricerche di storici come Peli, di cui ho citato poc’anzi Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e di cui merita di essere segnalata la Storia della Resistenza in Italia (2006). Da questi lavori storiografici emerge il quadro di una guerra civile, poiché tale fu quella combattuta fra il 1943 e il 1945: una guerra all’ultimo sangue fra classi e masse contrapposte.
Eppure quei venti mesi costituiscono, nella storia del nostro paese, il punto più alto mai raggiunto dal proletariato nella sua lotta per il potere. In questo senso, è doveroso sottolineare che il ruolo dei partiti operai, della classe lavoratrice e delle masse popolari fu l’elemento decisivo della vittoria nella Resistenza e che quest’ultima era concepita, in quanto rivoluzione antifascista, come la prima tappa di una rivoluzione ininterrotta orientata verso il socialismo. Certo, “caduti per la libertà” è la dizione con cui vengono definiti quei 45.000 partigiani morti nella Resistenza, ma una parte grande di essi – anche questo va ricordato – caddero per conquistare la libertà più alta che possa esistere: quella che coincide con una società senza classi.
5. Perché la Resistenza italiana è stata una “rivoluzione interrotta”?
La domanda posta quale titolo del presente paragrafo è riaffiorata più volte negli oltre settant’anni che sono intercorsi dalla conclusione della Resistenza. Provo a indicare quella che, a mio avviso, è la risposta corretta.
Quando, il 27 marzo 1944, torna in Italia dall’esilio nell’URSS come massimo dirigente del PCI, Palmiro Togliatti ribalta la posizione politica del partito riassunta da Mauro Scoccimarro nella parola d’ordine: “non vi è possibilità di compromesso con il governo Badoglio”. Togliatti rovescia infatti come un calzino tale politica e nella riunione del 30-31 marzo del Consiglio Nazionale del partito a Napoli, ove sono convenuti tutti i quadri del Sud, abbandona ogni pregiudiziale classista ed auspica un governo di larga unità nazionale per la guerra ai tedeschi: un governo che unisca gli italiani dai comunisti ai monarchici.
Tale presa di posizione comunista scavalca a destra i due partiti alleati (socialista ed azionista) e consente la formazione di un governo Badoglio che comprende i monarchici ed i sei partiti antifascisti, accantonando la questione istituzionale che dovrà essere risolta solo alla fine della guerra. Come è noto, la validità di tale svolta è ancora oggi contestata da una parte della storiografia, perché l’aiuto dei comunisti al governo Badoglio arrivò quando la situazione era per quel governo senza sbocco, privo come era di ogni séguito, screditato agli occhi di tutti e vicino ad essere ‘scaricato’ anche dagli alleati anglo-americani che da vari mesi ne chiedevano inutilmente un allargamento. D’altra parte va rilevato che anche i partiti antifascisti nel Sud erano in una situazione senza sbocco: nel gennaio del 1944, in effetti, il Comitato di Liberazione dell’Italia meridionale si era riunito a congresso, ma, diviso tra sinistra e conservatori, non era riuscito né a costituirsi, su un terreno rivoluzionario, come governo dell’Italia libera né a inserirsi nel governo del re, ed era rimasto in una posizione sterile di rifiuto esigendo l’abdicazione del re e lasciando le masse senza prospettive.
In una situazione come questa la mossa di Togliatti rafforzò il governo del re, mise in crisi l’unità del CLN e soprattutto impedì, dando luogo ad un compromesso di classe, che la guerra di liberazione guidata dai Comitati fosse una vera e propria rivoluzione. È anche vero che la svolta di Togliatti sbloccò la situazione, aprì nuove possibilità alla lotta contro il fascismo e mise in moto le energie popolari al Sud e al Nord. In sintesi, si può affermare che la nuova politica, abile e politicamente incisiva, poteva costituire l’inizio di un’azione a largo raggio per battere i nemici di classe, isolandoli a volta a volta dalle altre forze, a partire dal fascismo e dai tedeschi. La critica va quindi incentrata sul fatto che tale svolta non costituì l’inizio e il primo anello di un ampio disegno politico di classe (come allora la maggior parte degli amici e dei nemici credettero), ma fu, invece, quello che del resto Togliatti affermò ed ha sempre ribadito che fosse, e cioè un inserimento, che voleva essere strategico e permanente, della classe operaia nella società borghese e nella sua direzione di governo.
In altri termini, quando Togliatti affermava che il dovere nazionale era quello di combattere il tedesco e che, dopo la liberazione della patria, obiettivo del partito era quello di creare “un regime democratico e progressivo”, egli era giunto alle conseguenze ultime del lungo viaggio che dal marxismo-leninismo l’aveva portato al revisionismo. Togliatti intendeva, cioè, operare per una evoluzione gradualista di stampo piccolo-borghese e non più per una prospettiva rivoluzionaria. Pertanto, lo stesso obiettivo del socialismo si scoloriva e si annullava sino ad essere sostituito dalla “democrazia progressiva”.
Un siffatto disegno, che per la verità fu sempre espresso e teorizzato con chiarezza da Togliatti, venne inteso come una “manovra tattica” del tutto contingente dai quadri intermedi e soprattutto dalla base proletaria del partito e dalle masse che si andavano sempre più radicalizzando nella lotta (donde la c.d. “politica del doppio binario”): manovra tattica che si riteneva avvalorata dal grande patrimonio ideale e di lotta che il partito aveva accumulato in un ventennio. Tale visione dei quadri intermedi e della base proletaria sembrava del resto confermata dalla concezione che del partito comunista avevano gli avversari di classe. Hanno scritto acutamente gli autori di una storia del PCI: «La borghesia italiana e i suoi interpreti politici avevano del comunismo un’idea imprecisa e un timore generale, per cui ritennero per tutto un periodo che questo manovrare corrispondesse a un machiavellico disegno dal quale occorreva guardarsi, e poiché altrettanto imprecisa era la conoscenza del loro partito e altrettanto grande la speranza e la fiducia di coloro che ne ingrossavano le file nella primavera del 1944, entrambe le classi protagoniste di quella fase della storia italiana giudicarono il PCI e la sua linea politica non quale essa era in realtà, ma come essa si pensava dovesse essere. Più Togliatti diceva la verità, e meno veniva creduto». 6
D’altra parte, in questa involuzione della linea del partito ebbe un ruolo anche la linea politica dell’URSS, in cui prevalse, rispetto alle finalità rivoluzionarie, la “Realpolitik” connessa ad uno sforzo bellico estenuante, e fondata sugli accordi diplomatici e sull’alleanza con le democrazie occidentali. In questo senso, il riconoscimento, da parte dell’URSS, del governo Badoglio (che non era stato ancora formalmente riconosciuto dagli anglo-americani), posto in atto alcuni giorni prima (14 marzo 1944), rafforzava la borghesia italiana e rientrava oggettivamente nello stesso disegno di Togliatti. 7
6. Perché ancora e sempre Resistenza?
Il significato del discorso che ho qui inteso riproporre è allora riconducibile a tre fondamentali motivazioni: a) contribuire, sul piano storico-politico, a riaffermare la verità della (e sulla) Resistenza; b) dissipare le cortine fumogene (neoliberismo e/o populismo) con cui il potere dominante cerca di nascondere il galoppante processo di fascistizzazione 8 ; c) non allentare la vigilanza antifascista, il cui nerbo infrangibile è, così oggi come nel biennio 1943-1945, la mobilitazione della classe operaia e delle masse popolari nella lotta per difendere la democrazia e avanzare verso il socialismo. Non arretrare è infatti una condizione necessaria per avanzare.
In questa sede ho già avuto modo di tratteggiare la formazione politica e intellettuale di un giovane capo partigiano, comandante dei GAP di Genova e della Brigata “Liguria”. 9 Naturalmente, si tratta di un esempio che, vivendo in questa zona, ho trascelto dalla storia del movimento di liberazione nel Genovesato fra i tanti che hanno illuminato, con l’azione, con il pensiero e con un estremo sacrificio, la Resistenza armata contro il nazifascismo: un esempio che, per la profondità degli echi e il potere suggestivo delle risonanze che suscita ancor oggi, ritengo, dal punto di vista politico e ideologico, particolarmente significativo e rappresentativo.
Qui vorrei fissare la personalità di Buranello (1921-1944), per chi non la conosca affatto o la conosca solo a grandi linee, attraverso due testimonianze eccezionali: una diretta e personale (quella del partigiano Mario Carrassi) 10 e l’altra indiretta e retrospettiva (quella della scrittrice e poetessa Elena Bono). 11
* * * *
Testimonianza di Mario Carrassi 12
L’eroe nazionale Giacomo Buranello sarà ricordato soprattutto come un uomo d’azione: così lo presenta, giustamente, la motivazione della medaglia d’oro al valor militare.
Sotto questa luce la biografia di Buranello si può ridurre ad una scarna serie di fatti che lo pongono inequivocabilmente tra i grandi Eroi del nostro Risorgimento e della Guerra di Liberazione.
Ancora studente, prima del servizio militare, costituisce un movimento comunista di operai e studenti, organizza il soccorso rosso, mette in opera una tipografia clandestina. Nel 1942, seguito il corso allievi ufficiali e trasferito a Chiavari continua nell’esercito la sua azione di propaganda. L’11 ottobre 1942, all’età di ventun anni, viene arrestato assieme a Walter Fillak e agli altri membri del Comitato di Sampierdarena. Il suo comportamento durante l’inchiesta suscita l’ammirazione del commissario che conduce le indagini. Alla fine dell’agosto 1943 viene liberato dal carcere Regina Coeli, a Roma, dove era stato trasferito e riprende immediatamente la lotta.
L’8 settembre raccoglie armi e distribuisce indumenti ai militari che cercano di sfuggire ai tedeschi. Subito dopo è comandante di Gruppi di Azione Patriottica di Genova. In appoggio a uno sciopero dei pubblici trasporti fa saltare le rotaie del tram a Cornigliano. Il 28 ottobre attacca la caserma dei fascisti di Sampierdarena: due fascisti sono uccisi. Ormai individuato, sul suo capo è posta una taglia di mezzo milione, portata subito dopo a un milione, ma egli risponde abbattendo un altro fascista a Sestri Ponente.
Il 12 dicembre incontra in piazza Tommaseo l’agente dell’OVRA Fiorellino, già responsabile del suo primo arresto, che lo segue fino in piazza Portello: nell’attuale galleria G. Garibaldi, Buranello lo attacca sparando e riesce a dileguarsi nei vicoli della Maddalena. In gennaio attacca due ufficiali tedeschi in via XX Settembre.
Frattanto all’Università prende contatto con i professori antifascisti, organizza gli studenti comunisti e crea i C:L.N. dell’Università.
Il 1° gennaio 1944 sfugge per caso ad un agguato teso dai fascisti in una latteria di via Madre di Dio. Ormai la sua vita è in continuo pericolo. Il partito comunista decide che egli si allontani dalla città. Diventa così comandante di uno dei primi distaccamenti partigiani alle Cabanne di marcarolo, poi successivamente alla Cascina Lombardo. Ma alla fine di febbraio, è di nuovo in città per sostenere, anche con azioni militari, lo sciopero di marzo. La mattina del 2 marzo è con Neda Fiesoli al bar De Lucchi. Tre agenti fascisti lo riconoscono e tentano di arrestarlo. Ne uccide uno, ne ferisce un altro, poi si dà alla fuga; un’auto della polizia, poco oltre, gli blocca la strada: i proiettili sono finiti.
Coì è arrestato e dopo un giorno e una notte di tortura fucilato il 3 marzo 1944.
Queste le gesta eroiche di Giacomo Buranello. Tuttavia egli non era il giovane ventenne (quando fu fucilato non aveva ancora compiuto 23 anni) intrepido e generoso che nella foga della battaglia si fa trascinare dai suoi stessi tumultuosi sentimenti per compiere quelle gesta fuori del comune che rimangono poi scolpite nella storia.
Buranello era un uomo maturo, maturato attraverso la sofferenza, l’ingiustizia, lo studio. Egli era un uomo di vastissima cultura, che il carcere aveva ulteriormente arricchito, e di ferma volontà. Era sempre cosciente, istante per istante, delle proprie azioni, del rischio che esse comportavano, della necessità di questo rischio. Ed è per questo che quanti lo conobbero, nel rievocare le sue gesta sono presi da viva commozione, quasi rivivessero ad ogni episodio, ad ogni impresa la paura di allora, la paura di perderlo, di non vederlo più tornare. Perché per noi era soprattutto un amico e un maestro e solo per necessità un combattente.
Di origine operaia divenne ben presto cosciente delle ingiustizie sociali esasperate dal fascismo. La naturale esigenza di rigore logico, di coerenza morale, la molteplicità di interesse, l’intelligenza viva lo spinsero ad approfondire teoricamente mediante studi impegnati e un piano organico di letture i problemi che la situazione del paese naturalmente poneva. In questo suo impegno egli aveva arricchito con spirito critico le sue conoscenze storiche e filosofiche ed aveva sentito il bisogno di allargare sempre più, per comprendere meglio la realtà di ieri e di oggi, la sua cultura letteraria e umanistica in genere. Buranello era sotto questo aspetto un autentico intellettuale comunista. E questo suo travaglio culturale unitamente alle sue idee egli travasava in quanti lo circondavano. Perfino il suo amore per la correttezza formale, per l’espressione pregnante. Alcuni di noi ricordano di aver trascorso ore ed ore a correggere e ricorreggere insieme con Buranello due paginette che s’erano gettate giù o per un giornale o per un manifestino; non andava mai bene: troppi aggettivi, ripetizioni, forme pleonastiche, imprecisioni sintattiche.
Questa sua passione era non solo dovuta ad una esigenza di rigore e di coerenza, ma soprattutto a un profondo rispetto per gli altri e in particolare per coloro cuil l’ingiustizia sociale aveva negato la cultura. Così Buranello era, in ogni circostanza, un aiuto per tutti, amici, compagni, conoscenti. Era una fonte di idee, non si stancava mai di discutere, di fornire documentazioni, di spronare a pensare, di proporre iniziative o temi di studio. Ma sempre in ogni istante era chiaro che la sua mente e al sua cultura erano al servizio della lotta antifascista, erano tutt’uno con l’azione. Anche quando discuteva ed aiutava a raggiungere una maggiore chiarezza d’idee egli sempre in realtà spingeva a partecipare, con sempre maggiore consapevolezza, alla lotta, chiedendo a ciascuno ciò che ciascuno poteva dare. Sotto questo profilo Buranello era un organizzatore instancabile che si muoveva secondo una linea politica ben precisa: quella dell’unità, nella lotta, delle forze antifasciste. Ed egli che a questa lotta aveva deciso di dedicare tutte le sue azioni di guerra sapeva che esse si sarebbero concluse con la sua morte. Non aveva ancora compiuto i diciotto anni quando nel suo diario scriveva: «Ieri ho concluso che occorre sacrificarsi, che il sangue dei Martiri segna la strada più sicura alle idee; il nostro risorgimento era fatto inevitabile già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia, perché la nostra eventuale morte debba lasciar il minor lutto possibile: niente moglie, niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione; questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia maggiore efficacia.
È questo impegno, questa consapevole scelta che attribuisce più importanza al sacrificio della propria vita che non a tutte le opere future della sua intelligenza, della sua volontà, della sua tenacia; è questa decisione di rinunciare a una vita intera di lotta, di passioni e di soddisfazioni, a favore di un attimo che dovrà servire di esempio e di guida all’azione di migliaia e migliaia di sconosciuti; è questa terribile scelta tra la vita e la morte che fa di Buranello un eroe particolare. Questa è la sua grandezza. Questa è anche la sua colpa. Perché ancora oggi noi che lo abbiamo conosciuto, se dovessimo su una bilancia pesare il suo eroico sacrificio da una parte e il suo ingegno dall’altra, non sapremmo, con profondo smarrimento, da quale parte far pendere la bilancia. 13
Testimonianza di Elena Bono 14
Vengono i giorni
Vengono i giorni
Che il cuore è una terra bruciata,
polvere e fumo
nuvole basse di piombo.
Voi divenuti
nomi di piazze e di strade:
corso Gastaldi 15
largo Cesare Crosa
via Buranello
giardini pubblici C. Talassano.
Ma il tempo è una casa
di innumerevoli stanze
sorvegliate e severe
dove tutto è per sempre;
chi ne possiede le chiavi
può ritrovare ogni cosa:
gesti e parole
di un giorno qualunque.
I vostri giorni di prima,
il vostro andare e venire
in queste piazze e strade
divenute ora voi
per ricordare la scelta
che voi avete fatta
a quelli che vengono e vanno
con gesti e parole qualunque
dove sta chiusa la scelta
che anch’essi hanno fatta
in queste stanze severe
che non consentono fuga, ma tutto è per sempre.
I vostri giorni di prima.
Cesare Crosa 16
il suo passo di vento e la musica dentro:
Vivaldi. “Le quattro stagioni”,
l’elettrico “Inverno”
quegli aghi di ghiaccio e di gioia.
Buranello che parla a un compagno
battendo il giornale sul dorso a un leone
del grande scalone di marmo
dell’ateneo genovese.
Aldo Gastaldi
la fronte tranquilla
più su della folla,
quegli occhi di spada.
Talassano il biondino
di mento appuntito
sempre piegato dal riso
sul banco di scuola;
fu allegro davanti alla morte,
e tenne allegri i compagni.
Di tutti il più fortunato
biondino di lungo viso,
tu divenuto un giardino
di foglie aria bambini gridanti
che rinverdiscono il cuore
quando è terra bruciata.
Comments
Due precisazioni: una di metodo e l'altra nel merito. E' vero, come afferma Galati, che il discorso di chiusura di Togliatti al VII Congresso dell'Internazionale non fu oggetto di critiche da parte della direzione comunista e di Stalin, ma questo non significa che esso, accanto ai molti elementi validi, non recasse i primi segni premonitori del successivo cedimento opportunista, ossia della tendenziale conversione di una tattica di azione politica (il "fronte popolare") in una strategia di lungo periodo (la "società intermedia"). E' proprio questo aspetto che ho sottolineato commentando i passi di quel discorso in cui Togliatti giunge a negare il rapporto di inseparabilità tra la guerra e il capitalismo. Infatti, anche per l'opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Parimenti, il medesimo processo di corrosione degenerativa delle basi del marxismo-leninismo porterà Togliatti, vent'anni dopo, a teorizzare la c.d. "via italiana al socialismo" e, a quel punto, come si può osservare ancor oggi tra i suoi attuali epigoni, la sigla PCI stingerà il suo significato in quello di "partito costituzionale italiano". Sennonché, quando si discute di Togliatti e della politica semi-opportunista da lui perseguita a partire dalla "svolta di Salerno", è opportuno rammentare anche il suo atteggiamento nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese, che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform. Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il "New Deal" rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla "grande crisi" del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo "fronte popolare" e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una "Communist Political Association", dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in 'associazione' significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel 'melting pot' dell'esperienza 'radical' del "New Deal" e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna - 'sit venia verbis'! - abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della 'sinistra' nostrana). Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. "Diario politico. 1943-1948", Rusconi, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al leader italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose "che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale" e che "gli sembrava che l'indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l'amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia". Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l'accompagnava: "Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po' oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che avrebbe compiuto, per gradi, un vero e proprio salto di qualità]... Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato... Ricordò che in questo spirito s'era sciolto il Komintern, che era stato l'organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione". In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l'intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all'uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una "trasformazione democratica e socialista" della società. Ma, come solevano dire gli antichi Romani e come riconosce anche l'ottimo Mario Galati, "extrema de antefactis judicant".
Però vorrei sottolineare che mi riferivo alla relazione di Togliatti al VII congresso del Comintern quando ho sostenuto che non mi risultano contrasti con la linea da lui proposta. E, in effetti, a rileggere la sua relazione non risulta il minimo cedimento all’opportunismo, ma solo un’analisi dettagliata dei rapporti di forza, dei contrasti interimperialistici e della giusta tattica da adoperare per sfruttarli e proteggere la patria dei soviet e il mondo dalla guerra e dal fascismo.
Altra cosa è, invece, la politica del PCI nel dopoguerra italiano e la direzione togliattiana da me asserita sostanzialmente approvata dalla dirigenza comunista internazionale, “anche se non senza contrasti o critiche”, come scrissi espressamente. E infatti non ho mai sostenuto che i contrasti o le critiche non vi fossero. Ciò che invece non è esistita è la contrapposizione tra una linea insurrezionale del PCUS o del Cominform e la linea parlamentarista di Togliatti. Le critiche di Zdanov riportate da Eros Barone non contrappongono queste due linee, ma rimproverano, anche giustamente, al PCI di aver fatto troppo affidamento e di essere stato troppo timido e collaborativo con le altre forze borghesi, che ne hanno approfittato, consentendo agli avversari di riorganizzarsi ed estendere la loro influenza, sottraendola ai comunisti e ponendo gli americani in una situazione più favorevole, con rapporti di forza più sbilanciati verso il blocco capitalistico.
Infine, evidenzio nuovamente un indiscutibile dato di fatto: la sconfitta dell’insurrezione greca.
Eugenio Reale “riassume il durissimo atto di accusa pronunciato dai vari delegati (Quali? Quelli Jugoslavi, forse?)” e poi riassume a modo suo la posizione del Cominform e del PC(b), arrivando a sostenere che “Il Comitato Centrale [del PC(b) dell'URSS] vorrebbe una situazione greca in Francia e in Italia, ciò sarebbe un colpo serio all'imperialismo anglo-americano”.
Giudichiamo cosa possa significare volere per l’Italia una situazione “greca”, dopo che conosciamo la durissima sconfitta da noi ivi subita. In tal caso si sarebbe dimostrata giusta e avveduta la linea di Togliatti e non quella del PC(b). Ma io non darei questa autorevolezza alla ricostruzione di Eugenio Reale. E' la sua ricostruzione, ricordiamolo.
Non è mia abitudine copiare e incollare lunghi brani nei commenti, ma stavolta lo faccio e, pur con tutte le riserve che comportano articoli usciti sulla nostrana stampa borghese, riproduco un articolo uscito su Repubblica il 23.09.1994 (ma non è mia intenzione trasformare in sede di commenti questo articolo in una discussione sulla politica del PCI del tempo. Il materiale a favore o contro le varie tesi sarebbe tanto e richiederebbe uno spazio a parte e gente più esperta di me).
MA STALIN DISSE DI NO
Un incontro ufficiale tra Stalin e Togliatti da tenersi nella primavera del 1948, alla vigilia delle elezioni in Italia? Ma non se ne parla neppure lontanamente: questi italiani devono esser proprio matti. Certo Andrej Zdanov, homo sovieticus esemplare nella sua rigidezza, temutissimo generale dell' Armata Rossa a Leningrado, non avrebbe mai immaginato di dover dare lezioni di autonomia italiana al compagno italiano Pietro Secchia. Siamo a Mosca, nel dicembre del 1947. La proposta che gli ha appena formulato Secchia - una proposta nata da Togliatti - lo lascia di stucco: un colloquio con i crismi dell' ufficialità tra il segretario del Pci e il vertice del Pcus, Stalin o Molotov, nel quale i sovietici avrebbero dovuto promettere aiuti economici all' Italia in caso di vittoria delle sinistre. Ma con un simile passo, obietta Zdanov a Secchia, i sovietici si sarebbero messi sullo stesso piano degli americani, dando luogo a una violazione dell' indipendenza nazionale e della sovranità del paese. Niente da fare: Stalin non vuole dare l' impressione di ingerire sugli affari italiani. Zdanov più ' democratico' di Secchia? Stalin più accorto di Togliatti? Dopo quarantasette anni, le segrete carte del Cominform - il segretissimo Ufficio internazionale nato il 22 settembre del 1947 a Szklarska Poreba, in Polonia - riscrivono in modo singolare anche la storia dei rapporti tra Pci e Pcus tra il 1947 e il 1948. Un nuovo film in cui sfila un prudentissimo Stalin, tenacemente contrario alla insurrezione armata nel nostro paese e ben attento a non sfidare l' avversario Usa sul terreno italiano. E poi l' ' ambiguo' Secchia che, nel corso del suo viaggio a Mosca, nelle sedi ufficiali interpreta fedelmente il verbo togliattiano (no all' insurrezione in Italia) ma poi s' infiamma per la lotta armata. E ancora i tanti compagni italiani che cedono alle pressioni estremistiche degli jugoslavi (sì all' insurrezione in Italia, su modello greco) più di quanto finora si sospettasse. Queste nuove carte fanno parte di un archivio più ampio che la Fondazione Feltrinelli sta per pubblicare in prima edizione mondiale bilingue (The Cominform. Minutes of the three Conferences 1947/ 1948/ 1949, a cura di Giuliano Procacci, Anna Di Biagio, Francesca Gori, Silvio Pons e i russi Adibekov e Leonid Gibjanskij). Con quali vantaggi per la conoscenza storica? "Oggi", spiega Silvio Pons, "siamo in grado di costruire con maggiore sicurezza l' impostazione data dai sovietici alla prima Conferenza del Cominform, con qualche sorpresa sul fronte della politica estera staliniana tra il 1947 e il 1948: la controffensiva verso la sfera d' influenza occidentale venne ridimensionata e rimandata a tempi migliori". In che cosa consista questa ' sfida mancata' lo spiega diffusamente lo stesso Pons nella relazione che leggerà stamane al Convegno di Cortona, L' Unione Sovietica e l' Europa nella guerra fredda, promosso sempre dalla Fondazione Feltrinelli. Innanzitutto la grande cautela di Stalin nei confronti dell' ipotesi insurrezionale in Italia, sostenuta invece dagli jugoslavi. E qui occorre introdurre il viaggio di Secchia a Mosca (dicembre 1947), a cui si faceva riferimento all' inizio. "Il dirigente italiano", spiega Pons, "incontrò due volte Zdanov (12 e 16 dicembre) e una volta Stalin, alla presenza di Zdanov e Malenkov (14 dicembre). Da un appunto su quest' ultimo incontro, conservato nel fondo personale di Zdanov, risulta evidente che nella sua esposizione Secchia aveva chiesto il parere dei sovietici sulla prospettiva insurrezionale, riferendo che Togliatti si rifiutava di porre l' alternativa secca tra insurrezione e pacifico sviluppo parlamentare. Stalin in persona prese atto del messaggio politico inviato da Togliatti e dell' inopportunità di porre all' ordine del giorno l' ipotesi dello scatenamento di una guerra civile in Italia". I toni di Secchia si fanno assai più infiammati quando s' avvia alla sezione di Politica Estera del Comitato centrale del Pcus. Lo stenogramma del discorso rivela un suono diverso dalla campana di Togliatti. "Secchia", continua Pons, "criticò le illusioni parlamentaristiche dei compagni italiani in una chiave retrospettiva, riecheggiante le critiche di matrice jugoslava. E nelle conclusioni egli ricordò che la lotta per la estensione della democrazia si svolgeva pur sempre in un paese dove le posizioni della reazione sono ancora forti e che il partito doveva comunque esser pronto a passare alla lotta armata in caso di necessità". Ai sovietici non dovette sfuggire la diversità d' accento, ma la soluzione cui erano pervenuti sul fronte italiano consisteva nella formula né autonomia né insurrezionismo, non avendo alcuna intenzione di esporsi fino in fondo. "Questa scelta era implicita anche nel rifiuto secco alla proposta, che Secchia presentò a nome di Togliatti, di preparare un incontro ufficiale tra i due partiti alla vigilia delle elezioni in Italia". Prima s' è accennato a una nutrita minoranza del Pci che, in opposizione a Togliatti, confidava in una soluzione armata. "Quanto sia stata consistente è difficile dirlo", conclude Pons. "Ma certamente in molti erano sensibili alle critiche che venivano da Belgrado. C' è poi la testimonianza di Matteo Secchia, fratello di Pietro e segretario di Togliatti, il quale riferì all'ambasciatore Kostylev che le pressioni degli jugoslavi erano addirittura cresciute dopo le elezioni del 18 aprile. Ed egli stesso fece ammenda per aver guardato alla Jugoslavia come la nostra retrovia in caso di scontro con gli americani".
SIMONETTA FIORI
Mi sembra che se Togliatti, secondo i suoi critici, trasformava la tattica in strategia (stessa critica mossa da Lukàcs a Stalin), i critici di Togliatti trasformano ogni posizione e affermazione di Togliatti legata alle condizioni concrete del tempo, e da esse determinate, in sentenze definitive e assolute, esaminate più con acribia filologica che con riferimento al contesto concreto.
Concordo sul fatto che, evidentemente, se la deriva del PCI è stata quella che è stata, non possiamo non individuare i germi della sua dissoluzione nella sua intera storia (e quinidi anche in Togliatti, atteso che una gran parte dei revisionisti si appoggiano alle posizioni di Togliatti), ma questi hanno operato solo in presenza di una certa evoluzione del contesto generale. Non credo che l'esito fosse necessario e predeterminato in sè stesso da uno sviluppo patogeno interno autonomo.
E fa veramente strano che ancora oggi a distanza di oltre 70 anni dei militanti che si definiscono di sinistra o addirittura comunisti non si rendono conto dell'abbaglio preso.
Ma come: rivoluzione tradita in Italia alla fine di una guerra imperialista che prometteva uno straordinario sviluppo per la ricostruzione e un'accumulazione da doppia cifra in un modo di produzione che espandeva a macchia d'olio? Che modo di ragionare è questo. Perché non ammettere umilmente che non s'era capita la forza di un modo di produzione in fase ascendente? E' - o dovrebbe essere - l'umiltà comunista a spingerci a capire l'errore di analisi e adeguarsi ad approfondire meglio le circostanze oggettive che prescindono dai nostri desideri?. Non possiamo più arroccarci a un'ideologia che s'è dimostrata essere metafisica.
Diciamola tutta: Togliatti rappresentò l'impotenza, la frustrazione del proletariato in uno scontro che lo vedeva privo di ruolo. E' questa verità storica, teorica e politica che non abbiamo la forza di ammettere e ci rimpiattiamo le responsabilità come i polli di Renzo perché non vogliamo ammettere che Marx si era sbagliato sul ruolo soggettivo del proletariato nel modo di produzione capitalistico, Successe la stessa cosa in Russia con Lenin prima e Stalin poi. Successe in Cina con il povero Mao che sognava le Comuni ad occhi aperti. Successe con Fidel Castro che sognava una Cuba socialista.
Perché non smettiamo di sognare e guardiamo in faccia la realtà, proprio ora che il modo di produzione capitalistico ha imboccato la via che lo porterà - come previsto dall'Aquila Reale - all'implosione?
Michele Castaldo
Su questo aspetto c'è varia letteratura (per es., si narra di una richiesta di sostituzione di Togliatti, da parte di Secchia, che non trovò ascolto a Mosca).
A me sembra che sotto il motto de "la rivoluzione tradita", per molti aspetti vero (cioè, sul piano social-politico e di classe. Diverso, invece, è il piano di lettura quasi politico-complottista), si trovi una sopravvalutazione della forza rivoluzionaria e una sottovalutazione del contesto internazionale del tempo e della posizione dell'Italia in esso. Non mi sembra casuale che in nessun paese dell'area di influenza occidentale si instaurò un regime socialista e nemmeno si riuscì a vincere le elezioni borghesi. Dove si tentò la rivoluzione, in Grecia, si subì una grave sconfitta e un arretramento per molti decenni. In Grecia non fu possibile neppure una lotta democratico-riformista e si rimase per molto tempo sotto un regime militare fascista.
Che la rivoluzione in Italia sia stata impedita perché tradita da una repentina scelta revisionista di Togliatti (come spiegare questa improvvisa virata del rivoluzionario collaboratore di Stalin?) somiglia più a un mito che ad una situazione reale. Su ciò, tra i tanti, concorda anche un aspro critico di Togliatti, come era Costanzo Preve.
Sgombrare il campo da questo mito non significa rimuovere la discussione e la critica della linea politica del PCI e di Togliatti, dei limiti e degli esiti cui è pervenuta.
Quando si produce questa particolare condizione in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e con finalità rivoluzionarie, si verifica allora il fenomeno della “putrefazione" del processo storico di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è il frutto più velenoso. Resta solo da aggiungere che ciò avviene su scala mondiale (= spazio), per poi articolarsi in ogni singola realtà nazionale secondo le condizioni specifiche (= luogo). Dopodiché dovrebbe risultare palese anche alle più dure cervici esistenti nel movimento di classe perché la Resistenza antifascista correttamente intesa, cioè orientata nella direzione del socialismo/comunismo, è più attuale che mai.
E' esattamente quello che si attagliava perfettamente al popolo italiano ieri - 1943-1945 e che si attaglia oggi nei confronti dell sovranismo di Salvini e del ribellismo pentastellato,
Ripeto il concetto e la mia tesi di fondo: parlare di «fascistizzazione» dello Stato in Italia in questa fase è sbagliato innanzitutto perché siamo in presenza di una fase del modo di produzione capitalistica completamente diversa: allora era in crescita, oggi è calante; allora le potenze occidentali dominavano mezzo mondo (e con esse ovviamente l'Italia) mentre oggi sono in declino.
Pertanto se scrivo che la storia non si ripete mai allo stesso modo mi riferisco alle due fasi del modo di produzione. Sicché la "Resistenza" - perlomeno per come si espresse allora - non ha nessun motivo di essere riproposta come valore attuale, visto che non abbiamo truppe straniere sul nostro territorio e che gli unici stranieri presenti sono immigrati fatti venire per abbassare il costo complessivo della forza lavoro e aiutare il nostro capitalismo a risollevarsi in questa crisi.
Domando: a che pro la parola d'ordine «Ora e sempre resistenza»?
«L'impersonalità del modo di produzione» sarebbe solita solfa? Si, è un ritornello che dà molto fastidio al soggettivismo teorico e politico. In modo particolare a quanti si offrono al capezzale del capitalismo per proporre integratori per umanizzarlo piuttosto che aiutarlo a morire.
Ripeto: il Comunismo è n'ata cosa, è innanzitutto la consapevolezza che il capitalismo come movimento storico nasce cresce e muore come ogni movimento storico, come il vento, tanto per stare alla fisica. Sappiamo perciò «quello che non vogliamo» più che delineare i menù per l'osteria della storia (come diceva ancora l'Aquila Reale) di quello che vogliamo. Chi volge lo sguardo al passato rischia continuamente di inciampare perché non guarda avanti.
Ripeto il concetto: La memoria, per quanto necessitata a essere chiarita e ribadita, non ha futuro, proprio perché ....la storia non si ripete mai allo stesso modo.
Le nostre difficoltà - di chi si richiama agli ideali del Comunismo - risiedono nel fatto che non vogliamo riflettere sulla nostra storia; siamo un pò pigri, ci siamo adagiati su alcune parole d'ordine che con la fase della crisi del modo di produzione non possono in alcun modo entrare in sintonia; basta guardare alla realtà di questi anni in Occidente.
Umiltà impone - viceversa - di riflettere, di capire meglio e di rimuovere quanto di metafisico c'è nella nostra impostazione ideale, come seppe fare Engels a proposito della sua visione sulla classe operaia in Inghilterra.
Con affetto
Michele Castaldo
chi guarda per trovare le ragioni del futuro rimane sconfortato perché la storia non torna indietro e non si ripete mai allo stesso modo. Continui pure l'Ernesto a credere nei "valori" della resistenza, chi glielo può impedire. Ma il Comunismo è n'ata cosa dal capitalismo con governi democratici.
Buona fortuna caro compagno.
a) La Germania aveva occupato l'Italia o era un'alleato dell'Italia durante la seconda guerra mondiale?
b) Perché l'Italia cambiò alleanza da un giorno all'altro?
c) A quale comando obbedivano la stragrande maggioranza dei gruppi partigiani?
d) Perché erano democratici quelli che ci avevano bombardati fino a un giorno prima al punto di essere accolti poi come liberatori?
A queste domande - ammesso che ce le si voglia porre - l'antifascismo non risponde. Ma che vuol dire realmente antifascismo? Democrazia repubblicana, quella che ha bombardato la Serbia o quella francese e angloamericana che hanno seminato morte e distruzione in mezzo mondo? O quella che per impossessarsi del petrolio venezuelano sta suscitando un guerra civile in Venezuela?
La memoria - cari compagni - non ha futuro e chi cerca il futuro nella memoria storica non capisce che la storia non si ripete mai allo stesso modo. La dimostrazione la possiamo riscontrare nel cosiddetto fascismo odierno, cioè quello di Salvini, una vera e propria bufala storica, teorica e politica per due semplici motivi: a) il fascismo mussoliniano ambiva a occupare i paesi del nord Africa e impossessarsi delle materie prime a costo zero, mentre Salvini teme di essere occupato dagli immigrati; b) il fascismo mussoliniano rappresentava la grande industria che era in via di espansione, mentre Salvini rappresenta il livore del ceto medio, quel ceto medio che in Francia si sta esprimendo nel movimento dei Gilret gialli.
La verità è che non si vuole affrontare il toro per le corna: il capitalismo, ovvero un movimento storico dell'uomo con i mezzi di produzione e si cincischia sulla sovrastruttura proponendosi di modificare il capitalismo sostituendosi ai "dittatori fascisti". I risultati sono sotto i nostri occhi.
Il comunismo, per chi ancora si richiama ad esso, è un'altra cosa, è l'antitesi del capitalismo comunque gestito, è l'antitesi alle sue leggi che sono impersonali e lo sono anche quando sono state interpretate dal fascismo; una cosa molto complicata da capire perché c'è l'illusione del libero arbitrio nonostante che Marx abbia speso un intero Capitale per dimostrare l'impersonalità del Modo di Produzione Capitalistico. Pazienza.
Michele Castaldo
Vedi caro Franco e caro Paolo, quì vale la logica di Goffman, Voi credete di essere umani e in quanto tali uguali agli altri, non è così. L'Umanità inizia il suo percorso come famiglie, queste sono composte da persone che si sposano tra loro, fino a creare clan e villaggi e popoli, occupando un corrispondente territorio ed usando una specifica tecnica o sistema, non solo tecnologico ma anche culturale, fatto di regole e leggi, dove in quanto funzionante il sistema gli consente di vivere e dominare un certo territorio; determinando un economia nel senso aristotelico... Questa dimensione non può essere più grande di un villaggio perchè esiste il limite di controllare anche solo l'aspetto geografico, mediante la capacità mnemonica di raffigurare il territorio, come astrazione nella mente. Riuscire ad allargare il territorio è già guerra con le unità baronali limitrofe, oppure legare un contesto provinciale o contado, tramite la politica, sempre come concetto aristotelico. Quindi il barone, o Re, o Sire, ovvero il Padre di tutti, rimane ormai simbolico, se non per la quantità di gocce di sangue che, ogni nobile può vantare del capostipite vincente. Ormai barone dei Baroni o Conte, ossia un Re di ordine superiore. Un ulteriore passo avviene fino allo stremo della possibilità astrattiva che la memoria consente, ed avremo il passaggio al Ducato, con a capo il Conte dei Conti, questa unità nuova è il massimo che si possa concepire come un controllo ancora possibile da un umano. Il passaggio allo Stato Nazionale, che si può osservare nella formazione dello Stato francese, avviene come Duca fra i Duchi e torna l'apposizione di Re e rimane ancora la risonanza di Sire, il Padre di tutti, da tutti amato e a cui Lui a tutti tiene... Dopo 200 anni di dominio di Carlo Magno, non ci sarà neanche un solo nobile che non potrà vantare almeno una goccia di sangue di Carlo. Questi fattori di equilibrio economico extra casato sarà il frutto della - Politica -, che risolve le guerre e la gestione extra-economica, extra-casato di una zona vastissima, da metà Spagna fino ai Paesi Bassi. Tenuto conto che una carta geografica, nel 1500 era ancora un'arma segreta è davvero un risultato eccezionale. Il percorso geografico e antropologico è rappresentato dalla sequenza di Duby :"Re dei Franchi, Re dei francesi, Re di Francia"... Quì iniziano i problemi, non si riesce ad andare oltre per via dei limiti tecnologici che non consentono, alla Francia di inglobare il resto dell'Europa, la quale resterà sostanzialmente divisa in Ducati. Questo dunque il limite che consente di trasformare il Politico in Economico, la Francia, una sola casa, che gestisce la propria economia... Mentre è costretta a rapportarsi politicamente con gli altri casati. Nel frattempo, al seguito della caduta dell'Impero Romano che controllava le rive del Mediterraneo, cessando dunque i commerci, mentre il mare è ormai in mano agli arabi. Saranno i borghesi o banditi, a formare le città capaci di riprendere i commerci con l'Oriente, usando in primis i mezzi navali arabi. Man mano la borghesia, raggiungerà un livello di ricchezza, superiore a quello nobiliare, anche perchè non solo riuscirà a mettere in moto un valore superiore ma anche a rappresentarlo. La moneta era in metallo e possibilmente in oro o argento, per il semplice motivo che manteneva inalterata la memoria del titolo. Dove un pesce marcisce in tre giorni e questo ne determina il valore discendente sino all'azzeramento, la moneta non marciva... Grosso problema questo! Inizia quì un limite, il numerario, i borghesi lo risolvono con i Titoli cartacei, segnati a registro e non da poco, una capacità di umana lealtà che gli permetteva di riconoscerlo, questo è un altro punto a favore della nuova famiglia, che nasce, quella borghese. I legami di parola, onore e commerciale, vengono a concentrarsi tra borghesi, mentre quelli abramitici, ormai tendono sempre più a svanire... La lotte dunque tra borghesi e aristocratici ormai è aperta, finirà con la Rivoluzione Francese, preceduta dall'accordo della Grande Rivoluzione inglese, fino al favorire quella Russa; che solo in questo modo poterono sentirsi al sicuro, da un altrimenti inevitabile ritorno aristocratico. I borghesi dunque, riescono a mantenere la parola tra di loro e a perseguire obiettivi molto lungimiranti, tanto da passarsi persino il testimone, di generazione in generazione. Il processo potrà considerarsi concluso con la caduta dell'URSS. Mentre l'assestamento definitivo si avrà già con la II Guerra Mondiale, culminante nell'Unione Europea, che sarà uno strumento di definitivo accordo ed equilibrio tra le Forze Unite Borghesi. Il Popolo ne sarà in realtà sempre più escluso, non vi è un legame di sangue, non vi è un legame ancestrale, nessun riconoscimento legato al micro territorio che componeva il concetto di "Casa". Non vi è più bisogno di una Politica, la "Casa" è solo borghese e gli Stati solo un ingombrante retaggio del passato, con tutti i loro occupanti, vissuti come estranei.Regna dunque l'Economia, la Politica tra gli Stati non ha più senso... In contemporanea a questi sviluppi, in maniera più ritardata, la borghesia europea, ha creato e suscitato un intero apparato borghese, in Cina, in Russia, in India, ovunque... Anche negli USA. La "Casa" è la medesima, gli attori, primari, secondari, spalle e comparse, agiscono secondo un unico copione della medesima rappresentazione. Chi fa parte della Casa borghese è dentro, gli altri son meno degli uccelli del cielo... La Cina non potrebbe nulla che non gli sia stato conferito volontariamente dai borghesi "europei", segnati come tali anche se americani. Non avrebbe la tecnologia, la preparazione culturale, la finanza e soprattutto... Una Classe Borghese. Un'unica classe borghese globale. Ora però è presente un ultimo passo, legato all'aspetto ecologica, le materie prime sono finite, l'energia pure, le bestie umane tante e inutili. L'urbanizzazione o incivilimento del Terzo Mondo, lascerà queste persone nel "Nostro" stesso stato, che io chiamo quello dell'eschimese, soggetto etnologico, che sussite dandogli la casa, il cibo, il riscaldamento e i mezzi; senza non saprebbero più rirodurre un igloo e vivere ecologicamente, ovvero con una data tecnologia al Polo Nord. Al momento opportuno imbarcati sull'Arca Borghese i sogetti adatti, per cultura e capacità anche armigera; basterà a costoro, chiudere i rubinetti e ucciderci tutti, per incapacità a sopravvivere, proprio in quanto urbani, un vero day-after, che comporterà la riduzione ad "uccello di fuori", di quei pochi che rimarranno, fino alla loro completa estinzione tramite caccia di divertimento borghese. Mentre così i nuovi umani, potranno in pochi continuare a vivere meglio di prima e onestamente, senza scassacoglioni filosofici anche ad aggredire i pianeti per le materie prime. Altro che se conviene il treno o la nave, non importa se la spesa non è congrua, quando mai lo è stata? Quando prestavano soldi nell'800 post-unitario, ai nascenti industriali, che col tempo, ovvero la svalutazione le rate divenivano ridicole? O quando pur di non passare alla casa popolare, fecero lo stesso? I Borghesi partirono da banditi e capovolgeranno la situazione, trasformando in banditi, tutti i famigli antichi, mentre Loro si ritroveranno Unica Corona Unita dell'impero Planetario.
(= diminuzione programmata dei salari reali e, quindi, smantellamento del sistema di protezione sociale, formidabili salti di qualità nella centralizzazione finanziaria, atomizzazione e crescente subordinazione dei lavoratori nel quadro dell’accumulazione flessibile).
In tal senso, occorre prendere coscienza, come comunisti, del fatto che la Chiesa cattolica, quale centro ideologico reazionario e quale potente organizzazione in grado di orientare larghe masse popolari (formate sia da strati piccolo-borghesi sia da strati di lavoratori salariati), è, indipendentemente dalle contraddizioni che può generare l'attuale, transitorio, orientamento del papa, un importante vettore della fascistizzazione. Da ciò deriva una conseguenza decisiva, che è costituita dalla elevata convertibilità (e dalla reciproca permeabilità) fra le forze clerico-fasciste e le forze clerico-capitaliste, laddove la funzione esplicata dalla Chiesa consiste nel realizzare quella mediazione fra istanze pre-moderne e istanze
post-moderne che per la borghesia è una necessità vitale nella presente congiuntura, segnata, per un verso, dalle crescenti contraddizioni del processo di mondializzazione dell’economia capitalistica (vero contenuto della globalizzazione) e, per un altro verso, dal compromesso tra la borghesia e le vecchie forze reazionarie, con cui quella traduce in atto una tendenza già rilevata da Marx: la tendenza a restaurare, nella gestione di un potere sempre più dispotico, quelle strutture feudali (o di tipo feudale) che la borghesia aveva combattuto nella fase in cui lottava per la conquista del potere.
Vi è, inoltre, da osservare che la ricomposizione, all’insegna di un indirizzo duramente antiproletario e virtualmente anticomunista, delle contraddizioni che dividono la Lega dal M5S, nella misura in cui, almeno per ora, rivela l’accordo tattico stretto fra la piccola borghesia liberista del Nord e la piccola borghesia assistenzialista del Sud, esprime il raggiungimento di un livello di unità fra le forze reazionarie che non può non accelerare il ritmo della fascistizzazione. Non è un caso che, ancora una volta, per quella coazione a ripetere che è intrinseca al meccanismo dell’estrazione e al conflitto territoriale per la distribuzione del plusvalore, Milano e la Lombardia, il Lazio e Roma svolgano la funzione di culle del fascismo (e, perciò, di vettori territoriali della fascistizzazione): è lì, oltre che nel Veneto, che viene forgiato (secondo una definizione che risale al VI Congresso dell’Internazionale Comunista) il cerchio di ferro che deve rimettere assieme la botte sfasciata del capitalismo. Sempre alla medesima coazione va ascritto, su un piano politico più generale, il ruolo di incubatrice del fascismo svolto dai riformisti
social-liberali del Pd (d’altronde, qualcuno si è forse dimenticato che non mancarono, nel primo dopoguerra, liberali disposti a reggere la scala al fascismo? e qualcun altro si è forse dimenticato che la socialdemocrazia tedesca ha votato per Hitler?).
La trasformazione in senso autoritario di tutte le istituzioni statuali: dalla scuola alle forze armate, in cui la eliminazione della leva di massa, favorita dagli stessi riformisti, ha posto le premesse della trasformazione dell’apparato militare in un corpo di pretoriani integralmente al servizio del potere della borghesia monopolista, rafforzando la connotazione imperialista dello Stato come strumento delle guerre di aggressione all’esterno e della controrivoluzione preventiva all’interno (e non si citi come controesempio la posizione di Salvini, che invece rientra nella categoria della "pseudomorfosi di sinistra", per la quale si veda su questo stesso sito il seg. articolo: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/12904-eros-barone-salvini-e-la-pseudomorfosi-di-sinistra.html); dallo svuotamento dello stesso parlamento e delle altre assemblee rappresentative alla distruzione dei partiti di massa e alla degenerazione burocratica dei sindacati) è organicamente connessa, nel quadro della crisi di sovrapproduzione assoluta di merci, di capitale e di
forza-lavoro, alla ristrutturazione, interna e internazionale, del sistema del capitalismo monopolistico e del suo nucleo costituito dal capitale finanziario, che è la vera forza motrice della fascistizzazione.
Da questo insieme micidiale di contraddizioni discende l’inevitabilità dello sbocco fascista della crisi del capitalismo: tale previsione trova conferma, da un lato, nel famoso teorema di Kalecki, per cui non è possibile combinare tra di loro più di due dei tre termini costituiti dalla terna ‘capitalismo-piena occupazione-democrazia’ (nel Nord-Italia il teorema si presta ad essere espresso con la formula ‘capitalismo + piena occupazione = fascismo’…) e, dall’altro, nella drammatica mancanza di un partito comunista armato di teoria, disciplina, iniziativa, quadri e saldi collegamenti con la classe operaia e con gli strati intellettuali antagonisti.
In conclusione, è vero che, fin quando esiste un regime politico che non abolisce formalmente i tre fondamentali diritti da cui dipendono gli spazi di agibilità del
proletariato, cioè il diritto di sciopero, il diritto di riunione e il diritto di associazione, non è possibile definire il regime esistente, per quanto possa essere orientato in senso
reazionario, come fascista; ma è anche vero che esistono strategie più sottili e indirette, meno evidenti e altrettanto efficaci, con cui la borghesia monopolista può realizzare in forme nuove, se la situazione generale della crisi del capitalismo e dei rapporti di forza tra le classi lo richiede, quella concentrazione di forze reazionarie e quell’isolamento, schiacciamento e integrazione del proletariato che, attraverso il fascismo e il nazismo, furono realizzati dalla borghesia italiana e tedesca nel secondo ventennio del ’900.
ZOLAR - (il più grande astrologo del mondo). La singolarità dell'approccio di questo studio è dovuto alla divisione giorno per giorno, e non tanto per mesi, ovvero per segni che restano caratteristiche più generali, dunque la teoria è che i gradi sono 360 e quindi corrispondono giorno per giorno, anche se in verità questi sarebbero 365... Vabbè non sono mica cosa scientifiche che stanno lì col metro e righello! Per cui, le caratteristiche dei soggetti riportate sono più precise e nette, di quelle riferibili ai singoli segni zodiacali. Ho controllato il giorno di nascita di Marx, di Lenin, di mio nonno; quel che conta è che si trovano delle caratteristiche, sempre diverse le una dalle altre, ma... Solo il 13 Dicembre il giorno della mia nascita, recita:"potreste avere tendenze politiche spiccatamente socialiste e siete molto tolleranti nei vostri punti di vista politici... Di Socialismo eccetera, negli altri 359 gradi non ne parla affatto; Visalli ho le prove bibliografiche e le posso citare, che l'unico socialista quì sono io! Il resto come già detto, una massa di fascisti, opportunisti, attendisti... Insomma fascisti!
Il problema sta in ciò, che il concetto storico di fascismo non può essere disgiunto da quello di concezione fascista dello Stato (organico-corporativo, retto da un "duce" e basato su un compromesso di classe che presuppone una certa configurazione di classe nel paese interessato). Oggi il "fascismo" non mi sembra un progetto possibile da parte della classe dominante, nemmeno da parte delle sue frazioni sub-dominanti (per esempio il ceto medio-alto messo in difficoltà dalla "globalizzazione" e dal dominio del capitale finanziario). Tantomeno mi sembra negli interessi del capitale finanziario. La forma di autoritarismo che si va affermando è nuova, orwelliano-distopica, e a mio avviso occorre chiamarla in modo diverso da "fascista". Anche i nostri oppressori liberal-capitalisti temono le concezioni stataliste forti, organico-corporativiste, mentre il "neocorporativismo" oggi purtroppo in auge è di tipo "tedesco-occidentale", del tutto compatibile con forme di democrazia parlamentare, nondimeno dittatoriali nei confronti della classe lavoratrice.