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sinistra

Grandezza, limiti e attualità della Resistenza

di Eros Barone

101931. Da dove viene il termine “Resistenza”?

Un quesito interessante, da cui può prendere avvìo il presente discorso, è quello riguardante la genesi storica del termine “Resistenza”. Ebbene, con questo termine si intende indicare un’azione armata condotta da formazioni partigiane per frenare l’avanzata dell’invasore nazista, laddove è palese che l’origine del significato della parola “Resistenza” è strettamente collegata con l’aggressione all’Unione Sovietica da parte delle forze armate hitleriane (22 giugno 1941) e con la Grande Guerra Patriottica che fu la risposta data dal popolo e dallo Stato socialista a tale aggressione. L’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica fu infatti la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi e il fronte orientale fu il più grande e importante teatro bellico della seconda guerra mondiale, ove si svolsero alcune tra le più grandi e sanguinose battaglie di tale guerra.

Nei quattro anni che seguirono (1941-1945) decine di milioni di militari e civili morirono o patirono terribili sofferenze. La Germania schierò 2 milioni e mezzo di uomini, l’Unione Sovietica 4 milioni e 700 mila soldati, di cui 2 milioni e mezzo sul fronte occidentale. Può essere allora opportuno ricordare che durante la seconda guerra mondiale sono state complessivamente soppresse attorno ai 50 milioni di vite umane.

Dal punto di vista meramente comparativo, l’ordine di grandezza dei caduti italiani fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 è invece piuttosto esiguo: 44.720 partigiani caduti e 9.980 uccisi per rappresaglia, ai quali vanno sommati 21.168 partigiani e 412 civili mutilati e invalidi. In totale dopo l’armistizio si ebbero 187.522 caduti (dei quali 120.060 civili) e 210.149 dispersi (dei quali 122.668 civili). Fra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943 le forze armate italiane avevano avuto 92.767 caduti (cui vanno aggiunti 25.499 civili), mentre i dispersi erano stati 106.228. Complessivamente le perdite italiane nel secondo conflitto hanno dunque raggiunto (morti e dispersi, militari e civili, maschi e femmine) le 444.523 unità.

Altri paesi hanno avuto esperienze ben più sanguinose: l’Unione Sovietica 20 milioni di morti, dei quali 7 milioni di civili (complessivamente, il 10 per cento della popolazione); la Jugoslavia 1.690.000; la Polonia 6 milioni (il 22 per cento della popolazione, la percentuale più alta nel mondo); la Germania ha subìto circa 5 milioni di perdite umane; il Giappone 1.800.000. 1

 

2. Resistenza, guerriglia e guerra di popolo

A partire dal 1943, il movimento di Resistenza assume in tutta Europa una caratteristica offensiva e si trasforma in vera e propria lotta di liberazione. Qui cade una distinzione importante: quella fra la guerriglia partigiana condotta nelle città e nelle campagne da formazioni di volontari numericamente poco consistenti (è il caso dell’Italia) e la guerra di popolo vera e propria condotta da un esercito di liberazione nazionale (è il caso della Jugoslavia, dove la soglia numerica della brigata partigiana non era mai inferiore ai 2.000 uomini).

Il modello militare della Resistenza europea è la guerra di Spagna condotta dalle forze repubblicane contro la sedizione franchista (1936-1939), in cui l’esercito regolare è affiancato da formazioni ‘irregolari’ composte da volontari (le Brigate internazionali). Il modello politico è la strategia dei fronti popolari elaborata nel VII Congresso del Komintern (1935). 2 A partire dalla cosiddetta “svolta di Salerno” (marzo 1944), nella politica comunista diretta da Togliatti si andò sempre più accentuando, insieme al fronte unico contro il fascismo, l’aspetto nazional-popolare che finì col diventare prevalente nel periodo della Resistenza armata.

Determinante fu, comunque, il ruolo svolto dalla alleanza militare tra Unione Sovietica e democrazie occidentali nel corso della guerra mondiale: ciò contribuì in parte a subordinare l’azione militare della guerriglia partigiana alla strategia delle forze armate alleate. In tal modo l’aspetto insurrezionale con finalità rivoluzionarie fu mortificato sino a sfociare in tragedia nel caso della Grecia (1944).

Ben diversa fu la vicenda delle guerre di popolo antigiapponesi e anticoloniali che portarono alla vittoria del comunismo in Cina e in altre zone dell’Asia; ma, chissà perché, tutta questa vicenda, pur essendo partita da analoghe premesse politiche (VII Congresso del Komintern), non viene compresa nel concetto di Resistenza, che rimane rinchiuso nell’àmbito europeo.3

 

3. Terrorismo urbano e Resistenza

Dal punto di vista geografico, i combattimenti più importanti della guerriglia partigiana si svolsero in Piemonte e nel Friuli Venezia Giulia, ma in realtà tutto l’arco alpino può considerarsi il vero e proprio terreno della guerriglia partigiana. Le azioni di sabotaggio e di terrorismo svolte nei centro urbani erano organizzate invece dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica).

Ci sono voluti settant’anni affinché i GAP trovassero nel saggio di Santo Peli, intitolato Storie di GAP, la collocazione storiografica che spetta ad una delle forme di lotta – quella terroristica – che, insieme con le azioni armate delle bande partigiane operanti sulle montagne, nelle campagne e nelle pianure, la Resistenza pose in atto contro il nazifascismo. In sostanza, ci sono voluti settant’anni affinché il gappismo passasse dalla dimensione della letteratura (Uomini e no, scritto da Elio Vittorini nel 1944, fu il primo romanzo sul terrorismo resistenziale) o dalla memorialistica (come non ricordare la ‘mitica’ testimonianza autobiografica di Giovanni Pesce in Senza tregua. La guerra dei GAP?) alla dimensione della storiografia e dalla dimensione della storia locale alla dimensione della storia generale. E, sebbene sia difficile, per ovvie ragioni connesse al carattere clandestino delle loro azioni, ricostruire in modo preciso e completo la storia dei GAP, occorre riconoscere la funzione determinante che ebbe questa forma di lotta sia rispetto alla dinamica dei conflitti sindacali (1943-1944) sia rispetto alla capacità di controllo del territorio urbano nei suoi nodi nevralgici – politici, militari e amministrativi – da parte delle forze di occupazione naziste e dei loro alleati repubblichini. La durezza delle rappresaglie, avendo come posta in gioco il controllo dei centri urbani, risultò così direttamente proporzionale all’incidenza della pratica del terrorismo urbano.

Non meno rilevanti furono i dilemmi politici ed etici che segnarono tale pratica: basti pensare alla difficile decisione di uccidere a sangue freddo, al problema delle rappresaglie e alla tortura. Sennonché occorre anche riconoscere che senza i GAP la Resistenza avrebbe perso la duplice possibilità di contrastare l’attesismo predicato dalle componenti moderate della stessa Resistenza e di neutralizzare la “zona grigia”, ossia quella parte ampia della popolazione che non stava con i partigiani e non era ostile ai nazifascisti. 4

 

4. Una rivoluzione ininterrotta per tappe

Del resto, l’interpretazione che caratterizza la Resistenza come un intreccio complesso di tre guerre (di liberazione nazionale, di classe e civile) è ormai depositata in un’opera che, proprio perché fornisce una ricostruzione della Resistenza italiana che va al di là delle interessate liquidazioni, così come dei miti agiografici, è una pietra miliare della storiografia dell’età contemporanea: Claudio Pavone, Una guerra civile (1943-1945) (1990). 5 A questa opera fondamentale si affiancano le ricerche di storici come Peli, di cui ho citato poc’anzi Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e di cui merita di essere segnalata la Storia della Resistenza in Italia (2006). Da questi lavori storiografici emerge il quadro di una guerra civile, poiché tale fu quella combattuta fra il 1943 e il 1945: una guerra all’ultimo sangue fra classi e masse contrapposte.

Eppure quei venti mesi costituiscono, nella storia del nostro paese, il punto più alto mai raggiunto dal proletariato nella sua lotta per il potere. In questo senso, è doveroso sottolineare che il ruolo dei partiti operai, della classe lavoratrice e delle masse popolari fu l’elemento decisivo della vittoria nella Resistenza e che quest’ultima era concepita, in quanto rivoluzione antifascista, come la prima tappa di una rivoluzione ininterrotta orientata verso il socialismo. Certo, “caduti per la libertà” è la dizione con cui vengono definiti quei 45.000 partigiani morti nella Resistenza, ma una parte grande di essi – anche questo va ricordato – caddero per conquistare la libertà più alta che possa esistere: quella che coincide con una società senza classi.

 

5. Perché la Resistenza italiana è stata una “rivoluzione interrotta”?

La domanda posta quale titolo del presente paragrafo è riaffiorata più volte negli oltre settant’anni che sono intercorsi dalla conclusione della Resistenza. Provo a indicare quella che, a mio avviso, è la risposta corretta.

Quando, il 27 marzo 1944, torna in Italia dall’esilio nell’URSS come massimo dirigente del PCI, Palmiro Togliatti ribalta la posizione politica del partito riassunta da Mauro Scoccimarro nella parola d’ordine: “non vi è possibilità di compromesso con il governo Badoglio”. Togliatti rovescia infatti come un calzino tale politica e nella riunione del 30-31 marzo del Consiglio Nazionale del partito a Napoli, ove sono convenuti tutti i quadri del Sud, abbandona ogni pregiudiziale classista ed auspica un governo di larga unità nazionale per la guerra ai tedeschi: un governo che unisca gli italiani dai comunisti ai monarchici.

Tale presa di posizione comunista scavalca a destra i due partiti alleati (socialista ed azionista) e consente la formazione di un governo Badoglio che comprende i monarchici ed i sei partiti antifascisti, accantonando la questione istituzionale che dovrà essere risolta solo alla fine della guerra. Come è noto, la validità di tale svolta è ancora oggi contestata da una parte della storiografia, perché l’aiuto dei comunisti al governo Badoglio arrivò quando la situazione era per quel governo senza sbocco, privo come era di ogni séguito, screditato agli occhi di tutti e vicino ad essere ‘scaricato’ anche dagli alleati anglo-americani che da vari mesi ne chiedevano inutilmente un allargamento. D’altra parte va rilevato che anche i partiti antifascisti nel Sud erano in una situazione senza sbocco: nel gennaio del 1944, in effetti, il Comitato di Liberazione dell’Italia meridionale si era riunito a congresso, ma, diviso tra sinistra e conservatori, non era riuscito né a costituirsi, su un terreno rivoluzionario, come governo dell’Italia libera né a inserirsi nel governo del re, ed era rimasto in una posizione sterile di rifiuto esigendo l’abdicazione del re e lasciando le masse senza prospettive.

In una situazione come questa la mossa di Togliatti rafforzò il governo del re, mise in crisi l’unità del CLN e soprattutto impedì, dando luogo ad un compromesso di classe, che la guerra di liberazione guidata dai Comitati fosse una vera e propria rivoluzione. È anche vero che la svolta di Togliatti sbloccò la situazione, aprì nuove possibilità alla lotta contro il fascismo e mise in moto le energie popolari al Sud e al Nord. In sintesi, si può affermare che la nuova politica, abile e politicamente incisiva, poteva costituire l’inizio di un’azione a largo raggio per battere i nemici di classe, isolandoli a volta a volta dalle altre forze, a partire dal fascismo e dai tedeschi. La critica va quindi incentrata sul fatto che tale svolta non costituì l’inizio e il primo anello di un ampio disegno politico di classe (come allora la maggior parte degli amici e dei nemici credettero), ma fu, invece, quello che del resto Togliatti affermò ed ha sempre ribadito che fosse, e cioè un inserimento, che voleva essere strategico e permanente, della classe operaia nella società borghese e nella sua direzione di governo.

In altri termini, quando Togliatti affermava che il dovere nazionale era quello di combattere il tedesco e che, dopo la liberazione della patria, obiettivo del partito era quello di creare “un regime democratico e progressivo”, egli era giunto alle conseguenze ultime del lungo viaggio che dal marxismo-leninismo l’aveva portato al revisionismo. Togliatti intendeva, cioè, operare per una evoluzione gradualista di stampo piccolo-borghese e non più per una prospettiva rivoluzionaria. Pertanto, lo stesso obiettivo del socialismo si scoloriva e si annullava sino ad essere sostituito dalla “democrazia progressiva”.

Un siffatto disegno, che per la verità fu sempre espresso e teorizzato con chiarezza da Togliatti, venne inteso come una “manovra tattica” del tutto contingente dai quadri intermedi e soprattutto dalla base proletaria del partito e dalle masse che si andavano sempre più radicalizzando nella lotta (donde la c.d. “politica del doppio binario”): manovra tattica che si riteneva avvalorata dal grande patrimonio ideale e di lotta che il partito aveva accumulato in un ventennio. Tale visione dei quadri intermedi e della base proletaria sembrava del resto confermata dalla concezione che del partito comunista avevano gli avversari di classe. Hanno scritto acutamente gli autori di una storia del PCI: «La borghesia italiana e i suoi interpreti politici avevano del comunismo un’idea imprecisa e un timore generale, per cui ritennero per tutto un periodo che questo manovrare corrispondesse a un machiavellico disegno dal quale occorreva guardarsi, e poiché altrettanto imprecisa era la conoscenza del loro partito e altrettanto grande la speranza e la fiducia di coloro che ne ingrossavano le file nella primavera del 1944, entrambe le classi protagoniste di quella fase della storia italiana giudicarono il PCI e la sua linea politica non quale essa era in realtà, ma come essa si pensava dovesse essere. Più Togliatti diceva la verità, e meno veniva creduto». 6

D’altra parte, in questa involuzione della linea del partito ebbe un ruolo anche la linea politica dell’URSS, in cui prevalse, rispetto alle finalità rivoluzionarie, la “Realpolitik” connessa ad uno sforzo bellico estenuante, e fondata sugli accordi diplomatici e sull’alleanza con le democrazie occidentali. In questo senso, il riconoscimento, da parte dell’URSS, del governo Badoglio (che non era stato ancora formalmente riconosciuto dagli anglo-americani), posto in atto alcuni giorni prima (14 marzo 1944), rafforzava la borghesia italiana e rientrava oggettivamente nello stesso disegno di Togliatti. 7

 

6. Perché ancora e sempre Resistenza?

Il significato del discorso che ho qui inteso riproporre è allora riconducibile a tre fondamentali motivazioni: a) contribuire, sul piano storico-politico, a riaffermare la verità della (e sulla) Resistenza; b) dissipare le cortine fumogene (neoliberismo e/o populismo) con cui il potere dominante cerca di nascondere il galoppante processo di fascistizzazione 8 ; c) non allentare la vigilanza antifascista, il cui nerbo infrangibile è, così oggi come nel biennio 1943-1945, la mobilitazione della classe operaia e delle masse popolari nella lotta per difendere la democrazia e avanzare verso il socialismo. Non arretrare è infatti una condizione necessaria per avanzare.

In questa sede ho già avuto modo di tratteggiare la formazione politica e intellettuale di un giovane capo partigiano, comandante dei GAP di Genova e della Brigata “Liguria”. 9 Naturalmente, si tratta di un esempio che, vivendo in questa zona, ho trascelto dalla storia del movimento di liberazione nel Genovesato fra i tanti che hanno illuminato, con l’azione, con il pensiero e con un estremo sacrificio, la Resistenza armata contro il nazifascismo: un esempio che, per la profondità degli echi e il potere suggestivo delle risonanze che suscita ancor oggi, ritengo, dal punto di vista politico e ideologico, particolarmente significativo e rappresentativo.

Qui vorrei fissare la personalità di Buranello (1921-1944), per chi non la conosca affatto o la conosca solo a grandi linee, attraverso due testimonianze eccezionali: una diretta e personale (quella del partigiano Mario Carrassi) 10 e l’altra indiretta e retrospettiva (quella della scrittrice e poetessa Elena Bono). 11

* * * * 

Testimonianza di Mario Carrassi 12

L’eroe nazionale Giacomo Buranello sarà ricordato soprattutto come un uomo d’azione: così lo presenta, giustamente, la motivazione della medaglia d’oro al valor militare.

Sotto questa luce la biografia di Buranello si può ridurre ad una scarna serie di fatti che lo pongono inequivocabilmente tra i grandi Eroi del nostro Risorgimento e della Guerra di Liberazione.

Ancora studente, prima del servizio militare, costituisce un movimento comunista di operai e studenti, organizza il soccorso rosso, mette in opera una tipografia clandestina. Nel 1942, seguito il corso allievi ufficiali e trasferito a Chiavari continua nell’esercito la sua azione di propaganda. L’11 ottobre 1942, all’età di ventun anni, viene arrestato assieme a Walter Fillak e agli altri membri del Comitato di Sampierdarena. Il suo comportamento durante l’inchiesta suscita l’ammirazione del commissario che conduce le indagini. Alla fine dell’agosto 1943 viene liberato dal carcere Regina Coeli, a Roma, dove era stato trasferito e riprende immediatamente la lotta.

L’8 settembre raccoglie armi e distribuisce indumenti ai militari che cercano di sfuggire ai tedeschi. Subito dopo è comandante di Gruppi di Azione Patriottica di Genova. In appoggio a uno sciopero dei pubblici trasporti fa saltare le rotaie del tram a Cornigliano. Il 28 ottobre attacca la caserma dei fascisti di Sampierdarena: due fascisti sono uccisi. Ormai individuato, sul suo capo è posta una taglia di mezzo milione, portata subito dopo a un milione, ma egli risponde abbattendo un altro fascista a Sestri Ponente.

Il 12 dicembre incontra in piazza Tommaseo l’agente dell’OVRA Fiorellino, già responsabile del suo primo arresto, che lo segue fino in piazza Portello: nell’attuale galleria G. Garibaldi, Buranello lo attacca sparando e riesce a dileguarsi nei vicoli della Maddalena. In gennaio attacca due ufficiali tedeschi in via XX Settembre.

Frattanto all’Università prende contatto con i professori antifascisti, organizza gli studenti comunisti e crea i C:L.N. dell’Università.

Il 1° gennaio 1944 sfugge per caso ad un agguato teso dai fascisti in una latteria di via Madre di Dio. Ormai la sua vita è in continuo pericolo. Il partito comunista decide che egli si allontani dalla città. Diventa così comandante di uno dei primi distaccamenti partigiani alle Cabanne di marcarolo, poi successivamente alla Cascina Lombardo. Ma alla fine di febbraio, è di nuovo in città per sostenere, anche con azioni militari, lo sciopero di marzo. La mattina del 2 marzo è con Neda Fiesoli al bar De Lucchi. Tre agenti fascisti lo riconoscono e tentano di arrestarlo. Ne uccide uno, ne ferisce un altro, poi si dà alla fuga; un’auto della polizia, poco oltre, gli blocca la strada: i proiettili sono finiti.

Coì è arrestato e dopo un giorno e una notte di tortura fucilato il 3 marzo 1944.

Queste le gesta eroiche di Giacomo Buranello. Tuttavia egli non era il giovane ventenne (quando fu fucilato non aveva ancora compiuto 23 anni) intrepido e generoso che nella foga della battaglia si fa trascinare dai suoi stessi tumultuosi sentimenti per compiere quelle gesta fuori del comune che rimangono poi scolpite nella storia.

Buranello era un uomo maturo, maturato attraverso la sofferenza, l’ingiustizia, lo studio. Egli era un uomo di vastissima cultura, che il carcere aveva ulteriormente arricchito, e di ferma volontà. Era sempre cosciente, istante per istante, delle proprie azioni, del rischio che esse comportavano, della necessità di questo rischio. Ed è per questo che quanti lo conobbero, nel rievocare le sue gesta sono presi da viva commozione, quasi rivivessero ad ogni episodio, ad ogni impresa la paura di allora, la paura di perderlo, di non vederlo più tornare. Perché per noi era soprattutto un amico e un maestro e solo per necessità un combattente.

Di origine operaia divenne ben presto cosciente delle ingiustizie sociali esasperate dal fascismo. La naturale esigenza di rigore logico, di coerenza morale, la molteplicità di interesse, l’intelligenza viva lo spinsero ad approfondire teoricamente mediante studi impegnati e un piano organico di letture i problemi che la situazione del paese naturalmente poneva. In questo suo impegno egli aveva arricchito con spirito critico le sue conoscenze storiche e filosofiche ed aveva sentito il bisogno di allargare sempre più, per comprendere meglio la realtà di ieri e di oggi, la sua cultura letteraria e umanistica in genere. Buranello era sotto questo aspetto un autentico intellettuale comunista. E questo suo travaglio culturale unitamente alle sue idee egli travasava in quanti lo circondavano. Perfino il suo amore per la correttezza formale, per l’espressione pregnante. Alcuni di noi ricordano di aver trascorso ore ed ore a correggere e ricorreggere insieme con Buranello due paginette che s’erano gettate giù o per un giornale o per un manifestino; non andava mai bene: troppi aggettivi, ripetizioni, forme pleonastiche, imprecisioni sintattiche.

Questa sua passione era non solo dovuta ad una esigenza di rigore e di coerenza, ma soprattutto a un profondo rispetto per gli altri e in particolare per coloro cuil l’ingiustizia sociale aveva negato la cultura. Così Buranello era, in ogni circostanza, un aiuto per tutti, amici, compagni, conoscenti. Era una fonte di idee, non si stancava mai di discutere, di fornire documentazioni, di spronare a pensare, di proporre iniziative o temi di studio. Ma sempre in ogni istante era chiaro che la sua mente e al sua cultura erano al servizio della lotta antifascista, erano tutt’uno con l’azione. Anche quando discuteva ed aiutava a raggiungere una maggiore chiarezza d’idee egli sempre in realtà spingeva a partecipare, con sempre maggiore consapevolezza, alla lotta, chiedendo a ciascuno ciò che ciascuno poteva dare. Sotto questo profilo Buranello era un organizzatore instancabile che si muoveva secondo una linea politica ben precisa: quella dell’unità, nella lotta, delle forze antifasciste. Ed egli che a questa lotta aveva deciso di dedicare tutte le sue azioni di guerra sapeva che esse si sarebbero concluse con la sua morte. Non aveva ancora compiuto i diciotto anni quando nel suo diario scriveva: «Ieri ho concluso che occorre sacrificarsi, che il sangue dei Martiri segna la strada più sicura alle idee; il nostro risorgimento era fatto inevitabile già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia, perché la nostra eventuale morte debba lasciar il minor lutto possibile: niente moglie, niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione; questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia maggiore efficacia.

È questo impegno, questa consapevole scelta che attribuisce più importanza al sacrificio della propria vita che non a tutte le opere future della sua intelligenza, della sua volontà, della sua tenacia; è questa decisione di rinunciare a una vita intera di lotta, di passioni e di soddisfazioni, a favore di un attimo che dovrà servire di esempio e di guida all’azione di migliaia e migliaia di sconosciuti; è questa terribile scelta tra la vita e la morte che fa di Buranello un eroe particolare. Questa è la sua grandezza. Questa è anche la sua colpa. Perché ancora oggi noi che lo abbiamo conosciuto, se dovessimo su una bilancia pesare il suo eroico sacrificio da una parte e il suo ingegno dall’altra, non sapremmo, con profondo smarrimento, da quale parte far pendere la bilancia. 13

Testimonianza di Elena Bono 14

Vengono i giorni

Vengono i giorni

Che il cuore è una terra bruciata,

polvere e fumo

nuvole basse di piombo.

Voi divenuti

nomi di piazze e di strade:

corso Gastaldi 15

largo Cesare Crosa

via Buranello

giardini pubblici C. Talassano.

Ma il tempo è una casa

di innumerevoli stanze

sorvegliate e severe

dove tutto è per sempre;

chi ne possiede le chiavi

può ritrovare ogni cosa:

gesti e parole

di un giorno qualunque.

I vostri giorni di prima,

il vostro andare e venire

in queste piazze e strade

divenute ora voi

per ricordare la scelta

che voi avete fatta

a quelli che vengono e vanno

con gesti e parole qualunque

dove sta chiusa la scelta

che anch’essi hanno fatta

in queste stanze severe

che non consentono fuga, ma tutto è per sempre.

I vostri giorni di prima.

Cesare Crosa 16

il suo passo di vento e la musica dentro:

Vivaldi. “Le quattro stagioni”,

l’elettrico “Inverno”

quegli aghi di ghiaccio e di gioia.

Buranello che parla a un compagno

battendo il giornale sul dorso a un leone

del grande scalone di marmo

dell’ateneo genovese.

Aldo Gastaldi

la fronte tranquilla

più su della folla,

quegli occhi di spada.

Talassano il biondino

di mento appuntito

sempre piegato dal riso

sul banco di scuola;

fu allegro davanti alla morte,

e tenne allegri i compagni.

Di tutti il più fortunato

biondino di lungo viso,

tu divenuto un giardino

di foglie aria bambini gridanti

che rinverdiscono il cuore

quando è terra bruciata.


Note
1 Traggo queste cifre dall’‘incipit’del settimo capitolo, intitolato “La violenza”, del libro di C. Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 413-414.
2 A proposito dei vari tipi di fronti, vanno precisate le differenze tra il fronte unico, rappresentato dai partiti che si richiamano alla classe operaia (cfr. il III Congresso del Komintern nel 1921), il fronte popolare, estensione del fronte unico ai partiti che organizzano il ceto medio progressista e antifascista, e il fronte patriottico (o nazionale) che raggruppa tutte le forze politiche interessate a battersi per l’indipendenza nazionale.
3 Cfr., per quanto concerne le differenze richiamate nella nota precedente, la rigorosa discriminante di classe posta da Pietro Secchia: «La concezione opportunista secondo la quale ci sarebbe un interesse della nazione al di sopra e al di fuori degli interessi del popolo lavoratore che forma la grande maggioranza della nazione, è una concezione importata nella classe operaia dai socialsciovinisti, dagli agenti della borghesia» (Nazionalismo borghese e patriottismo proletario. Estratto dal discorso di P. S. al Congresso della Federazione comunista di Novara il 4 febbraio 1951, p. 30, citato da S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Rizzoli, Milano 1980, p. 299).
4 Fondamentale, anche a tale proposito, è il settimo capitolo del saggio di Pavone, dedicato al tema della violenza e alle sue implicazioni filosofiche, politiche e sociali (pp. 413-514): praticamente un libro nel libro.
5 Il sottotitolo di questo libro è particolarmente significativo: Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
6 Cfr. F. Bellini - G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Edizioni Schwarz, Milano 1954. Ma per una visione storico-politica complessiva e multilaterale della “svolta di Salerno” giova consultare i seguenti testi: L. Longo, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1973; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 Settembre 1943-25 Aprile 1945, Einaudi, Torino 1964; P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, vol. 7 (parte 1), Einaudi, Torino 1975; P. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1975; E. Di Nolfo, La svolta di Salerno come problema internazionale, in A. Placanica (a cura di), 1944. Salerno capitale. Istituzioni e società, ESI, Napoli 1986; D. W Ellwood, L'alleato nemico. La politica dell'occupazione anglo-americana in Italia. 1943- 1946, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 71 e sgg, in J. S. Woolf (a cura di), Italia 1943-1950. La ricostruzione, Laterza, Bari 1974; F. Gori - S. Pons (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L'URSS, il Cominform e il PCI. 1943-1951, Carocci, Roma 1998. Una menzione particolare merita il libro di M. Clementi, L'alleato Stalin. L'ombra sovietica sull'Italia di Togliatti e De Gasperi, Rizzoli, Milano 2011, in quanto tràttasi di un’ampia ricerca archivistico-documentaria (svolta lungo l’arco di 393 pagine), nella quale si confuta la leggenda storiografica circa l’esistenza di occulti piani sovietici di inglobamento politico-territoriale dell'Italia e la visione del PCI come pedina sovietica destinata a tale scopo. Peraltro, da questo libro di Clementi (certo non sospettabile di simpatie comuniste) si desume che Stalin incoraggiò l'iniziativa diplomatica, ma non nutriva mire strategiche particolari nei confronti dell'Italia; egli era piuttosto interessato a condurre a termine la guerra nel più breve tempo possibile, anche attraverso il sostegno del movimento partigiano. Grazie ad un'accurata analisi delle fonti, Clementi sottolinea, poi, il ruolo fondamentale giocato dal governo Badoglio nello stabilire un rapporto privilegiato con la Russia per bilanciare il rigore imposto dal regime anglo-americano di occupazione in Italia. In questa originale prospettiva, vengono riletti le ‘foibe’, la vicenda dei prigionieri italiani in Unione Sovietica, gli sbandamenti del PCI sulla questione di Trieste e i tentativi di Mosca di mediare tra l’Italia e la Jugoslavia, l’esodo istriano, il disarmo dei partigiani e le scelte strategiche togliattiane del PCI fino alle elezioni del 1948, quando l'Italia si avviò con decisione verso l’alleanza atlantica.
7 Il documento di Togliatti che sta alla base della svolta di Salerno è stato pubblicato, in forma non integrale, in data 28 ottobre 1991, a cura di Aldo Agosti, su «l’Unità» (p. 11) e preceduto da un articolo dello stesso Agosti, intitolato: Salerno 1944: i dubbi di Togliatti. Erroneamente veniva indicata come data del documento quella del 1° marzo 1944, mentre in realtà il testo del documento, con la firma autografa di Togliatti, è datato 26 febbraio 1944 e si trova depositato negli archivi dell'ex Partito Comunista dell’URSS (PCUS), conservati presso il “Rossijskij Centr Charenija i Izucenia Documenta Novejsej Istorij” di Mosca (fond. 495, op. 74, di. 258, l. 37-44). La versione pubblicata da Agosti contiene la cancellazione e la correzione con una nota manoscritta dello stesso Togliatti, che sostituisce i passaggi antimonarchici ed antibadogliani del documento e crea le premesse per ribaltare la linea concordata con Dimitrov e i dirigenti sovietici, affermando che «i comunisti sono pronti perfino a partecipare a un governo senza l’abdicazione del Re» (nella correzione effettuata a mano da Ercoli vengono meno, quindi, sia la ‘conventio ad excludendum’ nei confronti del monarca sia ogni atteggiamento di opposizione nei confronti del governo Badoglio). E’ ragionevole ipotizzare che le correzioni siano state apportate da Togliatti durante l’avventuroso viaggio che lo porterà a Napoli e che «si deve supporre che il testo dattiloscritto sia stato preparato con cura in un primo tempo, mentre la parte aggiunta sia stata redatta in fretta, come se non vi fosse il tempo per scrivere a macchina un nuovo testo corretto». Si vedano, in proposito, F. De Martino, Ancora sulla svolta di Salerno del 1944, in «Belfagor», 31 marzo 1993, p. 269, il quale scrive che la parte sostitutiva è «stata redatta durante il viaggio in Italia», ed E. Pigozzi, Togliatti spinse Stalin a riconoscere Badoglio, in «Il Corriere della Sera», 20 agosto 1994, p. 6, il quale condivide l'ipotesi che «le postille aggiuntevi siano state redatte da Togliatti non a Mosca ma lungo il complicato itinerario che lo porterà a Napoli il 27 marzo». Particolarmente significativa è la testimonianza di Togliatti sul viaggio che dovette affrontare: «Io giunsi a Napoli non dal cielo ma per mare, il 26 o 27 marzo 1944. Ero però partito da Mosca almeno un mese e mezzo prima, avendo dovuto fare il viaggio attraverso il Medio Oriente e l’Africa del Nord, chiedendo autorizzazioni, permessi e mezzi di trasporto a ogni sorta di comandi civili e militari» (P. Togliatti, I comunisti e la monarchia, in «Il Ponte», n. 6, giugno 1951, p. 660). Alla luce di quanto asserito dallo stesso Togliatti risulta quindi una mera congettura la ricostruzione effettuata da alcuni storici che ipotizzano un incontro tra Stalin, Molotov e Togliatti nelle notte del 4 marzo 1944. In realtà non esiste traccia negli archivi ex sovietici di questo presunto colloquio (si veda al riguardo quanto affermato da Gori e Pons in E. Aga Rossi - V. Zaslavskij, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997, p. 66) e l'unica argomentazione addotta a sostegno di questa congettura sarebbe il Diario di Dimitrov (cfr. G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, Einaudi, Torino 2002). Questa ricostruzione è stata smentita dallo stesso Togliatti, dal suo stretto collaboratore Italo De Feo, dall'Edizione Critica dei Verbali del Consiglio dei Ministri relativi al periodo del governo Badoglio e da numerosi storici che univocamente collocano la partenza di Togliatti da Mosca nel febbraio 1944, rendendo cronologicamente impossibile un incontro con Stalin, che non poteva certo avvenire diversi giorni dopo la sua partenza. Le notizie pubblicate su Togliatti nel Diario di Dimitrov, riferite al marzo 1944, sono quindi evidenti interpolazioni, filologicamente destituite di fondamento. Italo De Feo (nel suo Diario politico. 1943-1948, Rusconi, Milano,1973, p. 91) in data 28 marzo annotava: «Togliatti ha detto che aveva bisogno di qualche ora di respiro: la traversata era stata molto faticosa. Da Odessa, la nave aveva attraccato a tutti i porti del Mediterraneo e viaggiato a zig-zag per sfuggire ai sottomarini. Un viaggio che doveva durare non più di una settimana ha preso un mese intero». A. G. Ricci in Archivio Centrale dello Stato. Verbali del Consiglio dei Ministri. Luglio 1943-Maggio 1948. Governo Badoglio 25 Luglio 1943-22 Aprile 1944, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1997, vol. I., Introduzione, p. XLI, ha scritto che «Togliatti era partito da Mosca il 18 febbraio». In questo senso anche Cortesi: «Partito verso la fine di febbraio da Mosca egli [Togliatti] raggiunse in volo Bakù, Teheran, Il Cairo, Algeri, donde proseguì via mare per Napoli»(L. Cortesi, Palmiro Togliatti, "la svolta di Salerno" e l'eredità gramsciana, in «Belfagor», n. 1, 31 gennaio 1975, p.2); Claudin ha scritto che Togliatti «incomincia il viaggio di ritorno in Italia alla fine del febbraio 1944 e sbarca a Napoli il 27 marzo» (F. Claudin, La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano 1974, p. 277). La medesima tesi viene sostenuta da Bertolissi e Sestan che scrivono che Togliatti arrivò in Italia «il 27 marzo del 1944, dopo un viaggio durato oltre un mese, da Mosca a Bakù e poi Teheran e Il Cairo, sino ad Algeri dove giunse il 21 marzo» (cfr. S. Bertolissi - L. Sestan (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista Italiano. 1921-1984. Parte seconda 1944-1955, vol. II, Edizioni del Calendario, Milano 1985, p. XIII). Sull'argomento Giorgio Bocca ha scritto: «Due giorni dopo il 16 febbraio Ercoli parte in aereo da Mosca per un viaggio interrotto da soste forzate a Baku, Teheran, Il Cairo, Algeri, dove il comando del generale Eisenhower preferisce farlo proseguire per mare, sull’Ascania. Finalmente giunge a Napoli il lunedi 27 marzo 1944» (in G. Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Bari 1977, vol. II, p. 361). Nella biografia ufficiale di Togliatti, curata da Marcella e Maurizio Ferrara, si puntualizzava: «Il viaggio da Mosca all'Italia durò un mese, prima in aereo attraverso Bakù, Teheran, Il Cairo, sino ad Algeri, dove Togliatti giunse il 21 marzo. Da Algeri gli fu negato di proseguire per via aerea e viaggiò su una nave da carico inglese, l’Ascania, che attraversò il Tirreno in un grande convoglio militare scortato. Giunse a Napoli nel tardo pomeriggio del 27» (M. Ferrara-M. Ferrara, Conversando con Togliatti. Note biografiche a cura di Marcella e Maurizio Ferrara, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1953, p. 312). Ho ritenuto opportuno dedicare un ampio spazio a questa e alla nota precedente perché rappresentano un esempio di rigore e di completezza nella ricerca storico-archivistica. Il contenuto delle note è desunto dall’articolo di Giovanni Apostolou, accessibile in Rete al seguente indirizzo: https://paginerosse.files.wordpress.com/2013/04/le-oscillazioni-di-togliatti.pdf .
8 Occorre contrastare e rovesciare la falsa coscienza attraverso la quale viene forgiato il nesso di funzionalità tra l’elemento sovrastrutturale (la fascistizzazione) e l’elemento strutturale (la crisi economica e la distruzione delle forze produttive nel nostro paese). Le masse lavoratrici sono, infatti, l'unico strato sociale che abbia un interesse diretto alla salvaguardia della capacità del paese di produrre ricchezza. Questa realtà, apparsa chiaramente per la prima volta, nell'esperienza italiana, con la Resistenza antifascista e l’accanita difesa armata delle fabbriche da parte degli operai contro l’occupazione tedesca, deve essere occultata e rimossa per consentire al processo di concentrazione del capitale di tradursi con successo in guerra economica perdurante finalizzata alla distruzione indotta delle forze produttive nei paesi subalterni. In tal senso, il capitale finanziario e la fascistizzazione della società sono rispettivamente assi portanti della struttura e della sovrastruttura nel blocco storico che determina i destini della nostra epoca.
9 Cfr. https://sinistrainrete.info/storia/10734-eros-barone-la-formazione-di-un-rivoluzionario-comunista-sotto-il-fascismo-giacomo-buranello.html .
10 Partigiano e deportato nei lager (1921-2006), autore del libro di memorie Sotto il cielo di Ebensee, dalla Resistenza al lager, Mursia, Milano 1995. Nel secondo dopoguerra fu docente di Meccanica Statistica alla facoltà di Fisica dell’Università di Genova.
11 Poetessa e scrittrice (1921-2014) di origine laziale stabilitasi a Chiavari. In questi versi, scritti nel 1981, affronta il tema del ricordo di quanti, combattendo nella Resistenza, hanno perso la vita e osserva che a loro sono dedicate strade e giardini, un modo concreto perché i loro nomi non si dissolvano nell’oblio. E così è a Chiavari per i giardini Talassano, un partigiano della Brigata “Coduri” che operò nell’entroterra del Tigullio. Fissare il significato essenziale della personalità di Buranello in un gesto: ecco l’intuizione poetica che ha guidato le parole di Elena Bono. Un gesto di impazienza, di decisione e di chiarezza, quale è quello, discutendo animatamente, di battere il giornale sul dorso di uno dei due leoni di marmo che campeggiano ancor oggi ai lati dello scalone di accesso all’Ateneo genovese, in via Balbi.
12 G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, vol. terzo, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1985, pp. 55-57.
13 Carrassi si domanda (e ci domanda) con doloroso perplessità se il vantaggio che il sacrificio di Buranello ha arrecato alla lotta di liberazione compensi la perdita, in termini politici intellettuali e morali, di un uomo così eminente. In questa domanda si racchiude il significato, tragico e insieme palingenetico, di quella “moralità nella Resistenza” che è evocata da Pavone nel titolo del suo saggio storico.
14 43 poesie per Genova, a cura di F. De Nicola, Gammarò edizioni, Sestri Levante 2018, pp. 38-40.
15 Aldo Gastaldi (nome di battaglia “Bisagno”), comandante della divisione “Cichero” che operò nella zona di intersezione delle quattro province (Genova, Alessandria, Piacenza e Pavia).
16 Cesare Crosa di Vergagni (“Michi”), giovane partigiano morto poco prima della Liberazione, sui monti liguri.

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Eros Barone
Wednesday, 15 May 2019 17:21
Questo commento risale al 6 maggio scorso, ma non è stato possibile pubblicarlo a causa del guasto che ha inceppato il modulo che gestisce i commenti. Lo ripropongo per fornire un ulteriore contributo a questo importante dibattito.
Due precisazioni: una di metodo e l'altra nel merito. E' vero, come afferma Galati, che il discorso di chiusura di Togliatti al VII Congresso dell'Internazionale non fu oggetto di critiche da parte della direzione comunista e di Stalin, ma questo non significa che esso, accanto ai molti elementi validi, non recasse i primi segni premonitori del successivo cedimento opportunista, ossia della tendenziale conversione di una tattica di azione politica (il "fronte popolare") in una strategia di lungo periodo (la "società intermedia"). E' proprio questo aspetto che ho sottolineato commentando i passi di quel discorso in cui Togliatti giunge a negare il rapporto di inseparabilità tra la guerra e il capitalismo. Infatti, anche per l'opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Parimenti, il medesimo processo di corrosione degenerativa delle basi del marxismo-leninismo porterà Togliatti, vent'anni dopo, a teorizzare la c.d. "via italiana al socialismo" e, a quel punto, come si può osservare ancor oggi tra i suoi attuali epigoni, la sigla PCI stingerà il suo significato in quello di "partito costituzionale italiano". Sennonché, quando si discute di Togliatti e della politica semi-opportunista da lui perseguita a partire dalla "svolta di Salerno", è opportuno rammentare anche il suo atteggiamento nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese, che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform. Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il "New Deal" rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla "grande crisi" del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo "fronte popolare" e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una "Communist Political Association", dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in 'associazione' significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel 'melting pot' dell'esperienza 'radical' del "New Deal" e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna - 'sit venia verbis'! - abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della 'sinistra' nostrana). Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. "Diario politico. 1943-1948", Rusconi, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al leader italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose "che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale" e che "gli sembrava che l'indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l'amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia". Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l'accompagnava: "Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po' oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che avrebbe compiuto, per gradi, un vero e proprio salto di qualità]... Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato... Ricordò che in questo spirito s'era sciolto il Komintern, che era stato l'organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione". In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l'intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all'uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una "trasformazione democratica e socialista" della società. Ma, come solevano dire gli antichi Romani e come riconosce anche l'ottimo Mario Galati, "extrema de antefactis judicant".
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Mario Galati
Monday, 06 May 2019 11:17
Mi scuso con Eros Barone e anche con i lettori se replico nuovamente.
Però vorrei sottolineare che mi riferivo alla relazione di Togliatti al VII congresso del Comintern quando ho sostenuto che non mi risultano contrasti con la linea da lui proposta. E, in effetti, a rileggere la sua relazione non risulta il minimo cedimento all’opportunismo, ma solo un’analisi dettagliata dei rapporti di forza, dei contrasti interimperialistici e della giusta tattica da adoperare per sfruttarli e proteggere la patria dei soviet e il mondo dalla guerra e dal fascismo.
Altra cosa è, invece, la politica del PCI nel dopoguerra italiano e la direzione togliattiana da me asserita sostanzialmente approvata dalla dirigenza comunista internazionale, “anche se non senza contrasti o critiche”, come scrissi espressamente. E infatti non ho mai sostenuto che i contrasti o le critiche non vi fossero. Ciò che invece non è esistita è la contrapposizione tra una linea insurrezionale del PCUS o del Cominform e la linea parlamentarista di Togliatti. Le critiche di Zdanov riportate da Eros Barone non contrappongono queste due linee, ma rimproverano, anche giustamente, al PCI di aver fatto troppo affidamento e di essere stato troppo timido e collaborativo con le altre forze borghesi, che ne hanno approfittato, consentendo agli avversari di riorganizzarsi ed estendere la loro influenza, sottraendola ai comunisti e ponendo gli americani in una situazione più favorevole, con rapporti di forza più sbilanciati verso il blocco capitalistico.
Infine, evidenzio nuovamente un indiscutibile dato di fatto: la sconfitta dell’insurrezione greca.
Eugenio Reale “riassume il durissimo atto di accusa pronunciato dai vari delegati (Quali? Quelli Jugoslavi, forse?)” e poi riassume a modo suo la posizione del Cominform e del PC(b), arrivando a sostenere che “Il Comitato Centrale [del PC(b) dell'URSS] vorrebbe una situazione greca in Francia e in Italia, ciò sarebbe un colpo serio all'imperialismo anglo-americano”.
Giudichiamo cosa possa significare volere per l’Italia una situazione “greca”, dopo che conosciamo la durissima sconfitta da noi ivi subita. In tal caso si sarebbe dimostrata giusta e avveduta la linea di Togliatti e non quella del PC(b). Ma io non darei questa autorevolezza alla ricostruzione di Eugenio Reale. E' la sua ricostruzione, ricordiamolo.
Non è mia abitudine copiare e incollare lunghi brani nei commenti, ma stavolta lo faccio e, pur con tutte le riserve che comportano articoli usciti sulla nostrana stampa borghese, riproduco un articolo uscito su Repubblica il 23.09.1994 (ma non è mia intenzione trasformare in sede di commenti questo articolo in una discussione sulla politica del PCI del tempo. Il materiale a favore o contro le varie tesi sarebbe tanto e richiederebbe uno spazio a parte e gente più esperta di me).
MA STALIN DISSE DI NO
Un incontro ufficiale tra Stalin e Togliatti da tenersi nella primavera del 1948, alla vigilia delle elezioni in Italia? Ma non se ne parla neppure lontanamente: questi italiani devono esser proprio matti. Certo Andrej Zdanov, homo sovieticus esemplare nella sua rigidezza, temutissimo generale dell' Armata Rossa a Leningrado, non avrebbe mai immaginato di dover dare lezioni di autonomia italiana al compagno italiano Pietro Secchia. Siamo a Mosca, nel dicembre del 1947. La proposta che gli ha appena formulato Secchia - una proposta nata da Togliatti - lo lascia di stucco: un colloquio con i crismi dell' ufficialità tra il segretario del Pci e il vertice del Pcus, Stalin o Molotov, nel quale i sovietici avrebbero dovuto promettere aiuti economici all' Italia in caso di vittoria delle sinistre. Ma con un simile passo, obietta Zdanov a Secchia, i sovietici si sarebbero messi sullo stesso piano degli americani, dando luogo a una violazione dell' indipendenza nazionale e della sovranità del paese. Niente da fare: Stalin non vuole dare l' impressione di ingerire sugli affari italiani. Zdanov più ' democratico' di Secchia? Stalin più accorto di Togliatti? Dopo quarantasette anni, le segrete carte del Cominform - il segretissimo Ufficio internazionale nato il 22 settembre del 1947 a Szklarska Poreba, in Polonia - riscrivono in modo singolare anche la storia dei rapporti tra Pci e Pcus tra il 1947 e il 1948. Un nuovo film in cui sfila un prudentissimo Stalin, tenacemente contrario alla insurrezione armata nel nostro paese e ben attento a non sfidare l' avversario Usa sul terreno italiano. E poi l' ' ambiguo' Secchia che, nel corso del suo viaggio a Mosca, nelle sedi ufficiali interpreta fedelmente il verbo togliattiano (no all' insurrezione in Italia) ma poi s' infiamma per la lotta armata. E ancora i tanti compagni italiani che cedono alle pressioni estremistiche degli jugoslavi (sì all' insurrezione in Italia, su modello greco) più di quanto finora si sospettasse. Queste nuove carte fanno parte di un archivio più ampio che la Fondazione Feltrinelli sta per pubblicare in prima edizione mondiale bilingue (The Cominform. Minutes of the three Conferences 1947/ 1948/ 1949, a cura di Giuliano Procacci, Anna Di Biagio, Francesca Gori, Silvio Pons e i russi Adibekov e Leonid Gibjanskij). Con quali vantaggi per la conoscenza storica? "Oggi", spiega Silvio Pons, "siamo in grado di costruire con maggiore sicurezza l' impostazione data dai sovietici alla prima Conferenza del Cominform, con qualche sorpresa sul fronte della politica estera staliniana tra il 1947 e il 1948: la controffensiva verso la sfera d' influenza occidentale venne ridimensionata e rimandata a tempi migliori". In che cosa consista questa ' sfida mancata' lo spiega diffusamente lo stesso Pons nella relazione che leggerà stamane al Convegno di Cortona, L' Unione Sovietica e l' Europa nella guerra fredda, promosso sempre dalla Fondazione Feltrinelli. Innanzitutto la grande cautela di Stalin nei confronti dell' ipotesi insurrezionale in Italia, sostenuta invece dagli jugoslavi. E qui occorre introdurre il viaggio di Secchia a Mosca (dicembre 1947), a cui si faceva riferimento all' inizio. "Il dirigente italiano", spiega Pons, "incontrò due volte Zdanov (12 e 16 dicembre) e una volta Stalin, alla presenza di Zdanov e Malenkov (14 dicembre). Da un appunto su quest' ultimo incontro, conservato nel fondo personale di Zdanov, risulta evidente che nella sua esposizione Secchia aveva chiesto il parere dei sovietici sulla prospettiva insurrezionale, riferendo che Togliatti si rifiutava di porre l' alternativa secca tra insurrezione e pacifico sviluppo parlamentare. Stalin in persona prese atto del messaggio politico inviato da Togliatti e dell' inopportunità di porre all' ordine del giorno l' ipotesi dello scatenamento di una guerra civile in Italia". I toni di Secchia si fanno assai più infiammati quando s' avvia alla sezione di Politica Estera del Comitato centrale del Pcus. Lo stenogramma del discorso rivela un suono diverso dalla campana di Togliatti. "Secchia", continua Pons, "criticò le illusioni parlamentaristiche dei compagni italiani in una chiave retrospettiva, riecheggiante le critiche di matrice jugoslava. E nelle conclusioni egli ricordò che la lotta per la estensione della democrazia si svolgeva pur sempre in un paese dove le posizioni della reazione sono ancora forti e che il partito doveva comunque esser pronto a passare alla lotta armata in caso di necessità". Ai sovietici non dovette sfuggire la diversità d' accento, ma la soluzione cui erano pervenuti sul fronte italiano consisteva nella formula né autonomia né insurrezionismo, non avendo alcuna intenzione di esporsi fino in fondo. "Questa scelta era implicita anche nel rifiuto secco alla proposta, che Secchia presentò a nome di Togliatti, di preparare un incontro ufficiale tra i due partiti alla vigilia delle elezioni in Italia". Prima s' è accennato a una nutrita minoranza del Pci che, in opposizione a Togliatti, confidava in una soluzione armata. "Quanto sia stata consistente è difficile dirlo", conclude Pons. "Ma certamente in molti erano sensibili alle critiche che venivano da Belgrado. C' è poi la testimonianza di Matteo Secchia, fratello di Pietro e segretario di Togliatti, il quale riferì all'ambasciatore Kostylev che le pressioni degli jugoslavi erano addirittura cresciute dopo le elezioni del 18 aprile. Ed egli stesso fece ammenda per aver guardato alla Jugoslavia come la nostra retrovia in caso di scontro con gli americani".
SIMONETTA FIORI
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Eros Barone
Sunday, 05 May 2019 22:52
A Szklarska Poreba, località della Polonia dove dal 22 al 27 settembre 1947 si riunirono i delegati di nove partiti comunisti europei per dare vita, sotto la spinta dell'iniziativa sovietica, all'Ufficio d'informazione dei partiti comunisti e operai (Cominform), Palmiro Togliatti (PT), intuendo che la politica conciliatrice condotta sotto la sua direzione durante la Resistenza e i primi due anni del dopoguerra sarebbe stata posta sotto accusa, preferì non andare e inviò al suo posto Luigi Longo ed Eugenio Reale. Ha raccontato Longo a Giorgio Bocca che lo intervistava per la sua biografia su PT: "Eravamo stati informati genericamente che la conferenza aveva per scopo di ristabilire un collegamento fra i partiti comunisti [la Terza Internazionale era stata infatti sciolta nel 1943], ma non immaginavamo che saremmo stati posti di fronte a una svolta politica così netta e meno che mai che saremmo stati messi sotto accusa" (G. Bocca, "PT", Laterza, Bari-Roma 1973, p. 478). A Szklarska Poreba fu così liquidata la linea Togliatti-Dimitrov del 1943, bollata come manifestazione di "opportunismo". Della conferenza abbiamo la ricostruzione diretta di Eugenio Reale (cfr. E. Reale, "Nascita del Cominform", Mondadori, Milano 1958). Fu Andrej Zdanov, il massimo dirigente sovietico dopo Stalin, ad attaccare i comunisti italiani e francesi che "non avevano saputo smascherare davanti al popolo la dottrina Truman e il piano Marshall. La loro uscita dal governo era stata un'imposizione dell'imperialismo americano [...] era avvenuta 'senza scandalo' [...] In Francia e in Italia i comunisti avevano sopravvalutato le forze della reazione". Reale riassume in questi termini il durissimo atto di accusa pronunciato dai vari delegati nei confronti dell'opportunismo dimostrato dai comunisti italiani e francesi: "Noi crediamo che i partiti comunisti hanno fatto bene ad entrare nelle coalizioni. Ma una tale situazione non si può prolungare [...] Non è esagerato dire che nel movimento operaio internazionale c'era una tendenza a una revisione del marxismo-leninismo, a una deviazione. Il fenomeno del browderismo negli Stati Uniti [...] I comunisti italiani non comprendevano la debolezza dell'imperialismo [...] bisognava sfruttare le posizioni di debolezza della borghesia, prendere posizioni chiave [...] I nostri compagni italiani dicevano che il governo dei comunisti col partito di De Gasperi era un inizio di democrazia popolare [...] I comunisti italiani vantavano De Gasperi come un uomo onesto e il suo partito come un partito di massa, non smascheravano questo partito come al soldo del Vaticano. Quando essi facevano così era già in corso il complotto per cacciarli via [...] Problema greco. Spesso gli italiani, e non solo essi, dicono che gli alleati [anglo-americani] vorrebbero fare del loro paese una nuova Grecia, creare una situazione greca. [...] E' questa l'espressione del loro opportunismo. Essi non comprendono la situazione greca. [...] Mentre i comunisti greci passano alla controffensiva , i comunisti francesi e italiani sono scacciati dal governo, rinculano [nel dicembre 1944 un tentativo insurrezionale promosso dal fronte di liberazione nazionale greco dell'ELAS era stato represso nel sangue dalle truppe inglesi e nel 1947 era in corso la guerra civile, che volgerà in favore del governo monarchico e delle forze alleate che lo sostenevano per il venir meno dell'appoggio jugoslavo alle forze comuniste greche in seguito alla rottura dei rapporti con Mosca, avvenuta nel 1948] [...] Il Comitato Centrale [del PC(b) dell'URSS] vorrebbe una situazione greca in Francia e in Italia, ciò sarebbe un colpo serio all'imperialismo anglo-americano [...] Uno dei risultati di questa conferenza dovrebbe essere il rafforzamento dell'aiuto alla Grecia". Scrive, a questo proposito, Pietro Secchia (cfr. Archivio Secchia, a cura di E. Collotti, Fondazione G.G. feltrinelli, "Annali", XIX, Milano 1978, pp. 209-210): "Tornato da Varsavia Longo riferì e non si limitò soltanto a riferire, ma diede impulso e slancio al lavoro al fine di mettere il PCI in linea con le indicazioni che erano venute dalla conferenza di Szklarska Poreba [...] Tra Longo e me - è sempre Secchia che ricorda - vi era allora pieno accordo e non mancammo di lavorare intensamente per dare slancio al nuovo orientamento politico, al quale altri [gli elementi che sostenevano la tendenza opportunista capeggiata da PT] si adeguavano forse con non molta convinzione". Secchia e Longo non potevano che rafforzare la tendenza rivoluzionaria all'interno del PCI in virtù delle critiche di Zdanov e degli altri delegati alla linea di PT. Il 30 novembre trentamila partigiani "garibaldini" sfilavano per le vie di Genova, salutati dal loro comandante: Luigi Longo; il 7 dicembre, in occasione del primo congresso della Resistenza, sessantamila partigiani, in divisa, sfilavano a Roma. Sennonché, scomparsa la "grande paura" suscitata dall'insurrezione del Nord, le forze reazionarie, che pure avevano perso alcuni puntelli politici come l'autarchia, le colonie e la monarchia, con il governo De Gasperi riprenderanno in mano la situazione rompendo l'unità antifascista, estromettendo le sinistre dal governo, vincendo le elezioni del 18 aprile 1948 e facendo dell'Italia quel protettorato statunitense che essa è ancor oggi. Dal canto suo, PT, pochi giorni prima della rottura del Tripartito, aveva fatto l'ultimo regalo alla borghesia, dopo l'emanazione e l'applicazione dell'amnistia ai fascisti, con l'approvazione dell'articolo 7 della Costituzione, che, come è noto, include in essa i Patti Lateranensi con la Santa Sede stipulati nel 1929 dal governo fascista.
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Mario Galati
Saturday, 04 May 2019 09:12
Non vorrei fare anch'io l'"italijanski advokat", ma dire che "esistono dei governi borghesi interessati al mantenimento della pace" e concludere che "non soltanto oggi è possibile differire la guerra, ma, date certe condizioni, è anche possibile 'prevenire' lo scoppio di una nuova guerra imperialista", non equivale a dire che il sistema imperialista non sia in sè portatore di guerra, come lo stesso Togliatti premette a scanso di equivoci. La lotta attiva per la pace e per scongiurare o differire la guerra e l'aggressione contro l'URSS non è stata un'invenzione di Togliatti. In ogni caso, non mi risulta che le relazioni di Togliatti siano state contrastate dalla dirigenza dell'Internazionale. Quanto alla guerra come "distruzione della nostra civiltà", è evidente il riferimento alla guerra atomica.
Mi sembra che se Togliatti, secondo i suoi critici, trasformava la tattica in strategia (stessa critica mossa da Lukàcs a Stalin), i critici di Togliatti trasformano ogni posizione e affermazione di Togliatti legata alle condizioni concrete del tempo, e da esse determinate, in sentenze definitive e assolute, esaminate più con acribia filologica che con riferimento al contesto concreto.
Concordo sul fatto che, evidentemente, se la deriva del PCI è stata quella che è stata, non possiamo non individuare i germi della sua dissoluzione nella sua intera storia (e quinidi anche in Togliatti, atteso che una gran parte dei revisionisti si appoggiano alle posizioni di Togliatti), ma questi hanno operato solo in presenza di una certa evoluzione del contesto generale. Non credo che l'esito fosse necessario e predeterminato in sè stesso da uno sviluppo patogeno interno autonomo.
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Eros Barone
Friday, 03 May 2019 22:02
L'amico e compagno Mario Galati sa che il nostro rapporto politico e ideologico non è intaccato, ma è reso dialetticamente vivo e stimolante, dalla divergenza dei nostri rispettivi giudizi sulla figura e sull'operato di Togliatti. Ovviamente, non è in questione il pieno riconoscimento della statura intellettuale e culturale di questo eminente uomo politico. Partirei, nell'argomentare il mio giudizio negativo sulle scelte di Togliatti, dalla parola d'ordine della lotta al "socialfascismo" formulata dal VI Congresso dell'Internazionale (1928), che identificava il fascismo e il socialismo borghese come due manifestazioni equivalenti del nemico di classe. Questa direttiva, pur essendo tatticamente sbagliata in quanto era espressione di una visione settaria e ostacolava l'inserimento nelle contraddizioni del nemico, era però strategicamente giusta perché individuava la 'democrazia' e il fascismo come due aspetti dello stesso nemico di classe. Sennonché la svolta del VII Congresso (1935), incardinata sulla parola d'ordine dei "fronti popolari" e sulla ridefinizione del movimento comunista come alleato della democrazia borghese nella lotta contro il fascismo, sembra correggere il precedente errore tattico, in quanto inserisce il movimento comunista nelle contraddizioni del nemico, divide il fronte capitalistico e porta la democrazia borghese su posizioni di lotta antifascista. Così fu intesa e praticata, ad es., dal movimento comunista cinese che con questa tattica di alleanza da esso egemonizzata riuscì, in poco più di un decennio, a conquistare il potere. In Occidente, invece, il movimento comunista negli anni successivi intese e praticò sempre di più la politica dei "fronti popolari" in termini strategici, anziché tattici (lascio, per ora, in sospeso l'importante questione dell'analisi delle cause che determinarono questa conversione della tattica in strategia). Sta di fatto che i partiti comunisti europei tendevano in quegli anni a vedere nella politica dei "fronti popolari" una linea permanente (e non solo contingente, cioè tattica), finendo con l'essere egemonizzati, nel gioco delle alleanze, dalla democrazia borghese. Così, all'inizio questa viene vista come male minore rispetto al fascismo; poi come un regime più favorevole per avanzare verso il socialismo; poi ancora come una tappa obbligata per portare a compimento la rivoluzione borghese prima di passare alla tappa socialista; infine come una rivoluzione 'democratica' che deve comprendere la classe operaia ed i suoi alleati (praticamente la grande maggioranza della nazione) portandoli ad assumere la direzione politica della società. Questa elaborazione, che durerà due decenni (1935-1956) e procederà in modo lento e tortuoso, sfocerà nel revisionismo della "via democratica" nei paesi capitalisti e dello "Stato di tutto il popolo" nei paesi socialisti, mettendo in soffitta la "rottura dello Stato borghese" e la "dittatura di classe", cioè due teorie basilari del marxismo-leninismo. Inoltre questa prospettiva gradualista e riformista farà sì che durante le guerre di liberazione concomitanti alla seconda guerra mondiale nessun movimento comunista dell'Europa occidentale cercherà di egemonizzare il fronte antifascista orientandolo verso la rivoluzione socialista. In tal modo il potenziale rivoluzionario delle classi subalterne sarà messo al servizio della democrazia e dell'antifascismo borghesi operanti nelle singole realtà nazionali. Palmiro Togliatti, uno dei maggiori esponenti del movimento comunista europeo, ha personificato in modo paradigmatico, sia nella pratica che nella teoria, la conversione della tattica in strategia, che è l'essenza del moderno revisionismo. Basta leggere uno degli articoli da lui scritti sulla rivista teorica "Stato operaio" durante la seconda metà degli anni Venti per misurare quale differenza vi sia rispetto alla successiva produzione politica e intellettuale: ad es., rispetto al discorso di chiusura tenuto al VII Congresso del 1935. In questo discorso Togliatti, dopo aver giustamente rammentato che "vi furono dei sedicenti marxisti i quali tentarono di rivedere questa posizione affermando che il capitalismo può 'organizzarsi' e svilupparsi per vie pacifiche; teorie opportuniste... già fallite da molto tempo", attacca la "deformazione pedantesca... che è impossibile separare la guerra dal regime capitalistico", sostiene che "esistono dei governi borghesi interessati al mantenimento della pace" e conclude che "non soltanto oggi è possibile differire la guerra, ma, date certe condizioni, è anche possibile 'prevenire' lo scoppio di una nuova guerra imperialista". Orbene, l'analisi di Togliatti è svolta sulla scia della svolta dell'Internazionale verso la tattica dei "fronti popolari", ma, a ben guardare, il discorso di Togliatti eleva a princìpi teorici e strategici certi aspetti tattici della nuova politica, escludendo in via di fatto, oltre che in linea di principio, la rivoluzione proletaria nei singoli paesi. Il 'Leitmotiv' di questa elaborazione è sempre lo stesso: non utilizzazione delle contraddizioni in seno al capitalismo (se non a parole), ma dislocazione del movimento comunista sul terreno della lotta contro i 'cattivi' capitalisti (i fascismi) e dell'alleanza con i 'buoni' capitalisti (le democrazie borghesi). Il passaggio dal marxismo al socialismo piccolo-borghese sarà poi concluso e sancito quando Togliatti, che Stalin era solito definire "italijanski advokat" per certi tratti di causidico e di pignolo, nel rapporto al Comitato Centrale dell'aprile 1964 inquadrerà la guerra non come un fenomeno tipico del capitalismo ma come una forma di "distruzione della nostra civiltà". Sono questi i motivi per cui, se si vuole procedere speditamente e chiaramente sulla via (non della 'ricostruzione' né tanto meno della 'rifondazione' ma) della costruzione del partito comunista, occorre liberarsi non solo dal revisionismo epigonico di Berlinguer, ma anche e soprattutto dal revisionismo prototipico di Togliatti.
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Franco
Friday, 03 May 2019 21:14
Gentile Castaldo, in sostanza la tua "visione" la condivido. Ci sarebbero molte altre cose da dire e da domandarsi ma qui' non si puo'. E questo di sicuro lo puoi dire anche tu insieme a molti altri. Due cose: 1) il riferimento al Comunismo non deve essere a un cio' che e'. Il Comunismo non esiste gia' codificato come una sacra scrittura. Bisognerebbe abolire il verbo essere. Tutto diviene, e non possiamo codificare quello che sara'. 2) La questione dell'implosione. Anche io la vedo piuttosto cosi', ma il capitalismo ha mostrato molte volte di rigenerarsi e rivoltarsi in altre forme. Certo c'è la questione ambientale nel suo complesso, compreso le risorse naturali e la demografia, ma esso ha il controllo assoluto della scienza e della tecnica. Saranno solo, per cosi dire, forze antiproduttive e retroattive che risulteranno piu' nocive e negative per gli uomini che positive ?. Tutto ora fa' pensare di si. Ma nel prossimo futuro ?. E comunque se fosse implosione, che fanno gli uomini ora e piu' avanti ? Aspettano il caos ?. Grandi intellettuali hanno pensato e pensano cosa poter fare ? Io penso di si. Ma come divulgarlo ?. In modo che i poveri mortali possano capire cosa poter fare prima di essere definitivamente travolti ?. Mah !. Domande rivolte a tutti naturalmente. Grazie. Cordiali Saluti.
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michele castaldo
Friday, 03 May 2019 20:08
Parlare di rivoluzione tradita in Italia o di rivoluzione sconfitta in Germania è del tutto fuori luogo da qualsiasi punto di vista. E purtroppo si sono costruite "solide" congetture a riguardo "solidificando" un punto di vista ideologico costruito sulla sabbia che il tempo .... se l'è portato via con sé.
E fa veramente strano che ancora oggi a distanza di oltre 70 anni dei militanti che si definiscono di sinistra o addirittura comunisti non si rendono conto dell'abbaglio preso.
Ma come: rivoluzione tradita in Italia alla fine di una guerra imperialista che prometteva uno straordinario sviluppo per la ricostruzione e un'accumulazione da doppia cifra in un modo di produzione che espandeva a macchia d'olio? Che modo di ragionare è questo. Perché non ammettere umilmente che non s'era capita la forza di un modo di produzione in fase ascendente? E' - o dovrebbe essere - l'umiltà comunista a spingerci a capire l'errore di analisi e adeguarsi ad approfondire meglio le circostanze oggettive che prescindono dai nostri desideri?. Non possiamo più arroccarci a un'ideologia che s'è dimostrata essere metafisica.
Diciamola tutta: Togliatti rappresentò l'impotenza, la frustrazione del proletariato in uno scontro che lo vedeva privo di ruolo. E' questa verità storica, teorica e politica che non abbiamo la forza di ammettere e ci rimpiattiamo le responsabilità come i polli di Renzo perché non vogliamo ammettere che Marx si era sbagliato sul ruolo soggettivo del proletariato nel modo di produzione capitalistico, Successe la stessa cosa in Russia con Lenin prima e Stalin poi. Successe in Cina con il povero Mao che sognava le Comuni ad occhi aperti. Successe con Fidel Castro che sognava una Cuba socialista.
Perché non smettiamo di sognare e guardiamo in faccia la realtà, proprio ora che il modo di produzione capitalistico ha imboccato la via che lo porterà - come previsto dall'Aquila Reale - all'implosione?
Michele Castaldo
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Mario Galati
Friday, 03 May 2019 15:50
Ottimo articolo sulla Resistenza, ma un punto non mi convince. Seppure illustrando la complessità della situazione e delle scelte che stavano di fronte al campo rivoluzionario della Resistenza, al PCI e all'URSS, Eros Barone ritiene che Togliatti forzó, con un atto personalistico, in senso democratico-borghese e patriottico-istituzionale la linea più rivoluzionaria decisa a Mosca. Ebbene, se anche Togliatti si fosse arrogato la forza, l'autorevolezza e l'autorità di decidere il cambiamento di linea con semplici correzioni autografe dei testi dattiloscritti concordati, con un colpo di mano, non vedo come avrebbe potuto continuare, anche dopo passata la tempesta del fatto compiuto e persino dopo alcuni anni da quelle decisioni, a mantenere sostanzialmente l'approvazione o l'accredito presso gli organismi dirigenti comunisti internazionali e sovietici, Stalin in primis, anche se non senza contrasti o critiche. Non così avvenne per Tito, per es.
Su questo aspetto c'è varia letteratura (per es., si narra di una richiesta di sostituzione di Togliatti, da parte di Secchia, che non trovò ascolto a Mosca).
A me sembra che sotto il motto de "la rivoluzione tradita", per molti aspetti vero (cioè, sul piano social-politico e di classe. Diverso, invece, è il piano di lettura quasi politico-complottista), si trovi una sopravvalutazione della forza rivoluzionaria e una sottovalutazione del contesto internazionale del tempo e della posizione dell'Italia in esso. Non mi sembra casuale che in nessun paese dell'area di influenza occidentale si instaurò un regime socialista e nemmeno si riuscì a vincere le elezioni borghesi. Dove si tentò la rivoluzione, in Grecia, si subì una grave sconfitta e un arretramento per molti decenni. In Grecia non fu possibile neppure una lotta democratico-riformista e si rimase per molto tempo sotto un regime militare fascista.
Che la rivoluzione in Italia sia stata impedita perché tradita da una repentina scelta revisionista di Togliatti (come spiegare questa improvvisa virata del rivoluzionario collaboratore di Stalin?) somiglia più a un mito che ad una situazione reale. Su ciò, tra i tanti, concorda anche un aspro critico di Togliatti, come era Costanzo Preve.
Sgombrare il campo da questo mito non significa rimuovere la discussione e la critica della linea politica del PCI e di Togliatti, dei limiti e degli esiti cui è pervenuta.
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Franco
Thursday, 02 May 2019 23:33
Il capitalismo e' nelle sua fase senile o no ?. Socialismo o barbarie !?. Mica per niente !. Ma quale Socialismo ?. Che vuol dire questa parola ?. Significante o Significato ?. E barbarie ? Che significa ?. Se la barbarie salda il "molare": stato,istituzioni economiche-politiche ecc., con il "molecolare": investimenti di desiderio represso , e' la fine. Le masse possono desiderare la loro repressione. E' gia' avvenuto. Possono desiderare di essere fregate. Sta gia' succedendo da molto tempo. La "democrazia rappresentativa" mi pare che sia una cosa che serva a questo. Dobbiamo credere ancora alle elezioni ?. La "sinistra" residuale continua a volersi presentare. Ma dove vive ?. E' una catastrofe senza via di uscita. Vediamo. Ma quando si sta' a guardare si ha gia' perso. Anche se, come ho gia' detto, non mi importerebbe vincere, ma vivere. Saremo obbligati a lottare per vincere ?. Con chi ?. Con quali strumenti ?. Siamo in difficolta', e' evidente. Cordiali Saluti.
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Eros Barone
Thursday, 02 May 2019 18:52
Quando si avanza, come ho fatto in questo articolo, la tesi secondo cui nella nostra società è in corso un processo di fascistizzazione, occorre, innnanzitutto, non incorrere in due distinti errori. Il primo è quello di limitare tale considerazione agli aspetti fenomenologici: una tendenza, questa, non a caso incoraggiata dal Pd, dedito ormai da tempo ad un'opera di strumentalizzazione dell'immaginario antifascista tanto vacua quanto ipocrita, tutta fondata sulla rimozione, precedentemente portata avanti con successo dallo stesso centrosinistra per oltre vent'anni, della consapevolezza delle radici di classe del fascismo e dell'antifascismo e quindi del contenuto di trasformazione radicale dell'ordinamento sociale che quest'ultimo, se sincero e conseguente, assume in tutto il mondo e, in particolare, in Italia. Il secondo errore è invece quello di ricercare negli avvenimenti attuali le stesse caratteristiche del processo che condusse storicamente all'avvento del fascismo. In realtà, la fascistizzazione è in corso e si fa di giorno in giorno più evidente, più invasiva e più capillare, talché chiunque abbia un minimo di sensibilità ne avverte già da molto tempo il fetore insopportabile. In questo senso, l'attuale governo è solo il punto di avvio di un ulteriore salto qualitativo. Tanto per fare qualche esempio concreto, oltre a quelli particolarmente vistosi dell'Ucraina (dove pochi giorni fa sono stati vietati i simboli e le denominazioni comunisti), dell'Ungheria e dei paesi baltici, è sufficiente rammentare che qualche tempo fa il governo polacco decise di togliere la pensione ai combattenti antifranchisti superstiti della guerra di Spagna, bollandoli come traditori della patria. Si trattò non soltanto di una vergognosa ingiustizia consumata nei confronti di persone anziane, non soltanto di una meschina provocazione verso il movimento antifascista internazionale, ma anche e soprattutto di un insulto alla verità storica. Da tempo segnalo nei miei interventi pubblici, per usare una famosa metafora, la maturazione dell’uovo nel ventre del serpente, ossia il galoppante processo di fascistizzazione dell’Europa, che si sta compiendo sotto l’apparente involucro democratico. D’altronde, i coefficienti e gli ingredienti della fascistizzazione ci sono tutti (fermo restando che nell'uso cognitivo delle analogie storiche ciò che conta è l'invarianza degli 'elementi', non la variabilità, peraltro limitata, delle 'relazioni'). Dissolta l’ URSS, nel mondo ormai c’è solo una potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, che accentuano sempre più il loro dominio; l’oggettiva debolezza della classe operaia, connessa alla disoccupazione e al precariato diffuso, smorza qualsiasi tentativo di opporsi ai disegni padronali (solo in Italia i lavoratori precari sono quasi tre milioni, senza contare il ‘continente sommerso’ del lavoro nero); la marginalità della sinistra; la mobilitazione reazionaria dei ceti medi e del sottoproletariato. È cosa nota che, quando i lavoratori sono deboli nei luoghi di lavoro, è più facile l’affermarsi di un movimento/regime apertamente autoritario, la cui sostanza è simil-fascista, anche se tale regime non si fregia di svastiche e di gagliardetti. Il fascismo infatti non è un incidente di percorso della storia, esauritosi con la fine di Hitler e Mussolini, ma è nella natura stessa del capitalismo, e quando e dove ci sono le condizioni si ripresenta puntualmente. Diversamente, i colonnelli della Grecia del 1967, la dittatura di Videla nell’Argentina del 1972 e il Cile di Pinochet del 1973, oltre agli altri regimi sanguinari del Sudamerica di quegli anni e del presente (si pensi al Brasile di Bolsonaro), non ci hanno insegnato nulla. E nulla ci ha insegnato il colpo di Stato nazifascista avvenuto in Ucraina nel 2014. Lo Stato di diritto, la Costituzione e la stessa democrazia borghese non sono affatto irreversibili. Forze potenti lavorano per creare le condizioni della guerra e del fascismo. Vediamo quindi di fare un uso euristicamente corretto di quel potente strumento analitico che è l'analogia storica correttamente intesa. Se confrontiamo la situazione della prima metà del XX secolo con l'attuale, assume un forte spicco il denominatore comune costituito dalla crisi strutturale del capitalismo. Il secondo elemento, però, e cioè una rottura rivoluzionaria diffusa, è sostanzialmente assente.
Quando si produce questa particolare condizione in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e con finalità rivoluzionarie, si verifica allora il fenomeno della “putrefazione" del processo storico di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è il frutto più velenoso. Resta solo da aggiungere che ciò avviene su scala mondiale (= spazio), per poi articolarsi in ogni singola realtà nazionale secondo le condizioni specifiche (= luogo). Dopodiché dovrebbe risultare palese anche alle più dure cervici esistenti nel movimento di classe perché la Resistenza antifascista correttamente intesa, cioè orientata nella direzione del socialismo/comunismo, è più attuale che mai.
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michele castaldo
Thursday, 02 May 2019 16:34
Scriveva una certa Aquila Reale «Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thàlatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abbietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra».
E' esattamente quello che si attagliava perfettamente al popolo italiano ieri - 1943-1945 e che si attaglia oggi nei confronti dell sovranismo di Salvini e del ribellismo pentastellato,
Ripeto il concetto e la mia tesi di fondo: parlare di «fascistizzazione» dello Stato in Italia in questa fase è sbagliato innanzitutto perché siamo in presenza di una fase del modo di produzione capitalistica completamente diversa: allora era in crescita, oggi è calante; allora le potenze occidentali dominavano mezzo mondo (e con esse ovviamente l'Italia) mentre oggi sono in declino.
Pertanto se scrivo che la storia non si ripete mai allo stesso modo mi riferisco alle due fasi del modo di produzione. Sicché la "Resistenza" - perlomeno per come si espresse allora - non ha nessun motivo di essere riproposta come valore attuale, visto che non abbiamo truppe straniere sul nostro territorio e che gli unici stranieri presenti sono immigrati fatti venire per abbassare il costo complessivo della forza lavoro e aiutare il nostro capitalismo a risollevarsi in questa crisi.
Domando: a che pro la parola d'ordine «Ora e sempre resistenza»?
«L'impersonalità del modo di produzione» sarebbe solita solfa? Si, è un ritornello che dà molto fastidio al soggettivismo teorico e politico. In modo particolare a quanti si offrono al capezzale del capitalismo per proporre integratori per umanizzarlo piuttosto che aiutarlo a morire.
Ripeto: il Comunismo è n'ata cosa, è innanzitutto la consapevolezza che il capitalismo come movimento storico nasce cresce e muore come ogni movimento storico, come il vento, tanto per stare alla fisica. Sappiamo perciò «quello che non vogliamo» più che delineare i menù per l'osteria della storia (come diceva ancora l'Aquila Reale) di quello che vogliamo. Chi volge lo sguardo al passato rischia continuamente di inciampare perché non guarda avanti.
Ripeto il concetto: La memoria, per quanto necessitata a essere chiarita e ribadita, non ha futuro, proprio perché ....la storia non si ripete mai allo stesso modo.
Le nostre difficoltà - di chi si richiama agli ideali del Comunismo - risiedono nel fatto che non vogliamo riflettere sulla nostra storia; siamo un pò pigri, ci siamo adagiati su alcune parole d'ordine che con la fase della crisi del modo di produzione non possono in alcun modo entrare in sintonia; basta guardare alla realtà di questi anni in Occidente.
Umiltà impone - viceversa - di riflettere, di capire meglio e di rimuovere quanto di metafisico c'è nella nostra impostazione ideale, come seppe fare Engels a proposito della sua visione sulla classe operaia in Inghilterra.
Con affetto
Michele Castaldo
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Franco
Thursday, 02 May 2019 11:00
Tutto si muove, tutto si modifica. Anche il pensiero. Nulla e' completo e gia' predeterminato. Non basta sciogliere la matassa per ottenere il risultato. Il Capitalismo e' il negativo, ma il positivo non arriva per contraddizione dialettica. Nessuno e' mai morto per le sue contraddizioni. La dialettica riproduce quello che vorrebbe criticare. Hegel e' il padrone del mondo. Borghese pero'. Marx non ha potuto vedere la Fisica quantistica. Non sarebbe stato lo stesso. Superare e rivoltare Hegel. Per vedere le questioni in un'altro modo e porre dei nuovi e diversi problemi. C'è chi lo ha fatto. Ma non c'è curiosita' e intuizione intellettuale. Meglio stare arroccati nelle proprie sicurezze. Meglio per che cosa !?. Io la penso cosi'. Voi fate quello che vi pare. A me non interessa vincere. A me interessa vivere.
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Eros Barone
Wednesday, 01 May 2019 23:51
Mi chiedo se Michele Castaldo abbia letto il mio articolo, perché pone delle domande che sembrano scaturire, queste sì, (non da "assi" ragionativi consolidati ma) da "pregiudizi consolidati". Risposte alle domande: a) basta leggere un buon libro di storia del liceo e apprendere quale dramma si consumò l'8 settembre 1943, quando crollò un'intera classe dirigente, e non tanto perché l'Italia avesse perduto la guerra (questa semmai ne fu l'ultima conseguenza) e vedesse invase la Sicilia e la Calabria dalle truppe anglo-americane, quanto perché nessuno dei gruppi dirigenti seppe indicare nella sconfitta, in qualche modo, la via della ripresa; in altri termini, non si seppe, una volta liquidato il fascismo con una congiura di palazzo, né continuare la guerra con i tedeschi (e del resto questo non era più possibile) né rovesciare le alleanze, preparando la difesa contro i tedeschi che calavano dal Nord; b) la domanda è sorprendente e implica, ahimè, la totale ignoranza storica circa i 45 giorni che vanno dal 25 luglio all'8 settembre 1943; c) domanda pleonastica: basta leggere quanto ho chiaramente scritto nell'articolo a questo proposito ("Determinante fu, comunque, il ruolo svolto dalla alleanza militare tra Unione Sovietica e democrazie occidentali nel corso della guerra mondiale: ciò contribuì in parte a subordinare l’azione militare della guerriglia partigiana alla strategia delle forze armate alleate. In tal modo l’aspetto insurrezionale con finalità rivoluzionarie fu mortificato sino a sfociare in tragedia nel caso della Grecia"), oltre ai testi citati nella nota 6 (consiglio però di prendere le mosse da un buon manuale di storia, poiché questo livello critico-storiografico è per ora inaccessibile al buon Castaldo); d) questa domanda, nella sua ingenuità critica, è disarmante (che Castaldo, il quale sembra non aver mai sentito parlare della democrazia/dittatura borghese, mi attribuisca l'equazione infantile "democratici = buoni / fascisti = cattivi", dimostra semplicemente che non ha letto il mio articolo, dove si argomenta e si documenta, in chiave anti-togliattiana, la tesi della "rivoluzione interrotta". Il resto del commento di Castaldo è uno sproloquio antistorico in cui si mescolano questioni differenti, che richiedono analisi specifiche: dalla Serbia al Venezuela, da Salvini che, a suo giudizio, è un "salvatore della patria" all'antifascismo che, sempre a suo giudizio, è inintelligibile: il tutto condito dalla solita pappa sull'impersonalità del capitale e sull'alternativa, altrettanto impersonale, rappresentata dal comunismo e dai 'gilets jaunes'... Tuttavia, non è tutto loglio, c'è anche del grano e una questione importante, che in qualche modo viene posta, sia pure 'en passant', è quella concernente la memoria e la tesi secondo cui "la storia non si ripete mai". Una questione da riprendere, ma su altre basi e con un'altra ottica.
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michele castaldo
Wednesday, 01 May 2019 14:07
Molto elegante questo Ernesto Rossi. Io ho posto delle domande e so che sono scomode. Mandare a quel paese chi le pone è comodo, ma le domande restano e ... ripeto:
chi guarda per trovare le ragioni del futuro rimane sconfortato perché la storia non torna indietro e non si ripete mai allo stesso modo. Continui pure l'Ernesto a credere nei "valori" della resistenza, chi glielo può impedire. Ma il Comunismo è n'ata cosa dal capitalismo con governi democratici.
Buona fortuna caro compagno.
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ernesto rossi
Wednesday, 01 May 2019 10:30
Uhè Michele Castà... Il Fascismo nasce anche per questi motivi, quando si vede uno come a te, si è portati a pensare :"e con questo come cazzo facciamo"? "Ma sì, lo mettiamo nel forno e buona notte"! "Ma sì, vafangule"...
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michele castaldo
Wednesday, 01 May 2019 08:22
Ci sarebbe tanto da dire ma trattandosi ormai di assi ragionativi "consolidati" è difficile qualsiasi confronto. Vorrei solo porre alcune domande:
a) La Germania aveva occupato l'Italia o era un'alleato dell'Italia durante la seconda guerra mondiale?
b) Perché l'Italia cambiò alleanza da un giorno all'altro?
c) A quale comando obbedivano la stragrande maggioranza dei gruppi partigiani?
d) Perché erano democratici quelli che ci avevano bombardati fino a un giorno prima al punto di essere accolti poi come liberatori?
A queste domande - ammesso che ce le si voglia porre - l'antifascismo non risponde. Ma che vuol dire realmente antifascismo? Democrazia repubblicana, quella che ha bombardato la Serbia o quella francese e angloamericana che hanno seminato morte e distruzione in mezzo mondo? O quella che per impossessarsi del petrolio venezuelano sta suscitando un guerra civile in Venezuela?
La memoria - cari compagni - non ha futuro e chi cerca il futuro nella memoria storica non capisce che la storia non si ripete mai allo stesso modo. La dimostrazione la possiamo riscontrare nel cosiddetto fascismo odierno, cioè quello di Salvini, una vera e propria bufala storica, teorica e politica per due semplici motivi: a) il fascismo mussoliniano ambiva a occupare i paesi del nord Africa e impossessarsi delle materie prime a costo zero, mentre Salvini teme di essere occupato dagli immigrati; b) il fascismo mussoliniano rappresentava la grande industria che era in via di espansione, mentre Salvini rappresenta il livore del ceto medio, quel ceto medio che in Francia si sta esprimendo nel movimento dei Gilret gialli.
La verità è che non si vuole affrontare il toro per le corna: il capitalismo, ovvero un movimento storico dell'uomo con i mezzi di produzione e si cincischia sulla sovrastruttura proponendosi di modificare il capitalismo sostituendosi ai "dittatori fascisti". I risultati sono sotto i nostri occhi.
Il comunismo, per chi ancora si richiama ad esso, è un'altra cosa, è l'antitesi del capitalismo comunque gestito, è l'antitesi alle sue leggi che sono impersonali e lo sono anche quando sono state interpretate dal fascismo; una cosa molto complicata da capire perché c'è l'illusione del libero arbitrio nonostante che Marx abbia speso un intero Capitale per dimostrare l'impersonalità del Modo di Produzione Capitalistico. Pazienza.
Michele Castaldo
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ernesto rossi
Tuesday, 30 April 2019 01:57
Incollo questo pezzo che scrivevo, sotto un altro pezzo di questo luogo,nello stesso tempo che eros Barone pubblicava il suo ultimo commento.

Vedi caro Franco e caro Paolo, quì vale la logica di Goffman, Voi credete di essere umani e in quanto tali uguali agli altri, non è così. L'Umanità inizia il suo percorso come famiglie, queste sono composte da persone che si sposano tra loro, fino a creare clan e villaggi e popoli, occupando un corrispondente territorio ed usando una specifica tecnica o sistema, non solo tecnologico ma anche culturale, fatto di regole e leggi, dove in quanto funzionante il sistema gli consente di vivere e dominare un certo territorio; determinando un economia nel senso aristotelico... Questa dimensione non può essere più grande di un villaggio perchè esiste il limite di controllare anche solo l'aspetto geografico, mediante la capacità mnemonica di raffigurare il territorio, come astrazione nella mente. Riuscire ad allargare il territorio è già guerra con le unità baronali limitrofe, oppure legare un contesto provinciale o contado, tramite la politica, sempre come concetto aristotelico. Quindi il barone, o Re, o Sire, ovvero il Padre di tutti, rimane ormai simbolico, se non per la quantità di gocce di sangue che, ogni nobile può vantare del capostipite vincente. Ormai barone dei Baroni o Conte, ossia un Re di ordine superiore. Un ulteriore passo avviene fino allo stremo della possibilità astrattiva che la memoria consente, ed avremo il passaggio al Ducato, con a capo il Conte dei Conti, questa unità nuova è il massimo che si possa concepire come un controllo ancora possibile da un umano. Il passaggio allo Stato Nazionale, che si può osservare nella formazione dello Stato francese, avviene come Duca fra i Duchi e torna l'apposizione di Re e rimane ancora la risonanza di Sire, il Padre di tutti, da tutti amato e a cui Lui a tutti tiene... Dopo 200 anni di dominio di Carlo Magno, non ci sarà neanche un solo nobile che non potrà vantare almeno una goccia di sangue di Carlo. Questi fattori di equilibrio economico extra casato sarà il frutto della - Politica -, che risolve le guerre e la gestione extra-economica, extra-casato di una zona vastissima, da metà Spagna fino ai Paesi Bassi. Tenuto conto che una carta geografica, nel 1500 era ancora un'arma segreta è davvero un risultato eccezionale. Il percorso geografico e antropologico è rappresentato dalla sequenza di Duby :"Re dei Franchi, Re dei francesi, Re di Francia"... Quì iniziano i problemi, non si riesce ad andare oltre per via dei limiti tecnologici che non consentono, alla Francia di inglobare il resto dell'Europa, la quale resterà sostanzialmente divisa in Ducati. Questo dunque il limite che consente di trasformare il Politico in Economico, la Francia, una sola casa, che gestisce la propria economia... Mentre è costretta a rapportarsi politicamente con gli altri casati. Nel frattempo, al seguito della caduta dell'Impero Romano che controllava le rive del Mediterraneo, cessando dunque i commerci, mentre il mare è ormai in mano agli arabi. Saranno i borghesi o banditi, a formare le città capaci di riprendere i commerci con l'Oriente, usando in primis i mezzi navali arabi. Man mano la borghesia, raggiungerà un livello di ricchezza, superiore a quello nobiliare, anche perchè non solo riuscirà a mettere in moto un valore superiore ma anche a rappresentarlo. La moneta era in metallo e possibilmente in oro o argento, per il semplice motivo che manteneva inalterata la memoria del titolo. Dove un pesce marcisce in tre giorni e questo ne determina il valore discendente sino all'azzeramento, la moneta non marciva... Grosso problema questo! Inizia quì un limite, il numerario, i borghesi lo risolvono con i Titoli cartacei, segnati a registro e non da poco, una capacità di umana lealtà che gli permetteva di riconoscerlo, questo è un altro punto a favore della nuova famiglia, che nasce, quella borghese. I legami di parola, onore e commerciale, vengono a concentrarsi tra borghesi, mentre quelli abramitici, ormai tendono sempre più a svanire... La lotte dunque tra borghesi e aristocratici ormai è aperta, finirà con la Rivoluzione Francese, preceduta dall'accordo della Grande Rivoluzione inglese, fino al favorire quella Russa; che solo in questo modo poterono sentirsi al sicuro, da un altrimenti inevitabile ritorno aristocratico. I borghesi dunque, riescono a mantenere la parola tra di loro e a perseguire obiettivi molto lungimiranti, tanto da passarsi persino il testimone, di generazione in generazione. Il processo potrà considerarsi concluso con la caduta dell'URSS. Mentre l'assestamento definitivo si avrà già con la II Guerra Mondiale, culminante nell'Unione Europea, che sarà uno strumento di definitivo accordo ed equilibrio tra le Forze Unite Borghesi. Il Popolo ne sarà in realtà sempre più escluso, non vi è un legame di sangue, non vi è un legame ancestrale, nessun riconoscimento legato al micro territorio che componeva il concetto di "Casa". Non vi è più bisogno di una Politica, la "Casa" è solo borghese e gli Stati solo un ingombrante retaggio del passato, con tutti i loro occupanti, vissuti come estranei.Regna dunque l'Economia, la Politica tra gli Stati non ha più senso... In contemporanea a questi sviluppi, in maniera più ritardata, la borghesia europea, ha creato e suscitato un intero apparato borghese, in Cina, in Russia, in India, ovunque... Anche negli USA. La "Casa" è la medesima, gli attori, primari, secondari, spalle e comparse, agiscono secondo un unico copione della medesima rappresentazione. Chi fa parte della Casa borghese è dentro, gli altri son meno degli uccelli del cielo... La Cina non potrebbe nulla che non gli sia stato conferito volontariamente dai borghesi "europei", segnati come tali anche se americani. Non avrebbe la tecnologia, la preparazione culturale, la finanza e soprattutto... Una Classe Borghese. Un'unica classe borghese globale. Ora però è presente un ultimo passo, legato all'aspetto ecologica, le materie prime sono finite, l'energia pure, le bestie umane tante e inutili. L'urbanizzazione o incivilimento del Terzo Mondo, lascerà queste persone nel "Nostro" stesso stato, che io chiamo quello dell'eschimese, soggetto etnologico, che sussite dandogli la casa, il cibo, il riscaldamento e i mezzi; senza non saprebbero più rirodurre un igloo e vivere ecologicamente, ovvero con una data tecnologia al Polo Nord. Al momento opportuno imbarcati sull'Arca Borghese i sogetti adatti, per cultura e capacità anche armigera; basterà a costoro, chiudere i rubinetti e ucciderci tutti, per incapacità a sopravvivere, proprio in quanto urbani, un vero day-after, che comporterà la riduzione ad "uccello di fuori", di quei pochi che rimarranno, fino alla loro completa estinzione tramite caccia di divertimento borghese. Mentre così i nuovi umani, potranno in pochi continuare a vivere meglio di prima e onestamente, senza scassacoglioni filosofici anche ad aggredire i pianeti per le materie prime. Altro che se conviene il treno o la nave, non importa se la spesa non è congrua, quando mai lo è stata? Quando prestavano soldi nell'800 post-unitario, ai nascenti industriali, che col tempo, ovvero la svalutazione le rate divenivano ridicole? O quando pur di non passare alla casa popolare, fecero lo stesso? I Borghesi partirono da banditi e capovolgeranno la situazione, trasformando in banditi, tutti i famigli antichi, mentre Loro si ritroveranno Unica Corona Unita dell'impero Planetario.
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Eros Barone
Monday, 29 April 2019 23:53
La fascistizzazione ha due assi: quello politico-ideologico (= regime oligarchico e neocorporativo, familismo e comunitarismo declinati, a seconda della tendenza rea-zionaria prevalente, in chiave secessionista o in chiave nazionalista o anche, come accade attualmente con la Lega, in entrambe le chiavi) e quello economico
(= diminuzione programmata dei salari reali e, quindi, smantellamento del sistema di protezione sociale, formidabili salti di qualità nella centralizzazione finanziaria, atomizzazione e crescente subordinazione dei lavoratori nel quadro dell’accumulazione flessibile).
In tal senso, occorre prendere coscienza, come comunisti, del fatto che la Chiesa cattolica, quale centro ideologico reazionario e quale potente organizzazione in grado di orientare larghe masse popolari (formate sia da strati piccolo-borghesi sia da strati di lavoratori salariati), è, indipendentemente dalle contraddizioni che può generare l'attuale, transitorio, orientamento del papa, un importante vettore della fascistizzazione. Da ciò deriva una conseguenza decisiva, che è costituita dalla elevata convertibilità (e dalla reciproca permeabilità) fra le forze clerico-fasciste e le forze clerico-capitaliste, laddove la funzione esplicata dalla Chiesa consiste nel realizzare quella mediazione fra istanze pre-moderne e istanze
post-moderne che per la borghesia è una necessità vitale nella presente congiuntura, segnata, per un verso, dalle crescenti contraddizioni del processo di mondializzazione dell’economia capitalistica (vero contenuto della globalizzazione) e, per un altro verso, dal compromesso tra la borghesia e le vecchie forze reazionarie, con cui quella traduce in atto una tendenza già rilevata da Marx: la tendenza a restaurare, nella gestione di un potere sempre più dispotico, quelle strutture feudali (o di tipo feudale) che la borghesia aveva combattuto nella fase in cui lottava per la conquista del potere.
Vi è, inoltre, da osservare che la ricomposizione, all’insegna di un indirizzo duramente antiproletario e virtualmente anticomunista, delle contraddizioni che dividono la Lega dal M5S, nella misura in cui, almeno per ora, rivela l’accordo tattico stretto fra la piccola borghesia liberista del Nord e la piccola borghesia assistenzialista del Sud, esprime il raggiungimento di un livello di unità fra le forze reazionarie che non può non accelerare il ritmo della fascistizzazione. Non è un caso che, ancora una volta, per quella coazione a ripetere che è intrinseca al meccanismo dell’estrazione e al conflitto territoriale per la distribuzione del plusvalore, Milano e la Lombardia, il Lazio e Roma svolgano la funzione di culle del fascismo (e, perciò, di vettori territoriali della fascistizzazione): è lì, oltre che nel Veneto, che viene forgiato (secondo una definizione che risale al VI Congresso dell’Internazionale Comunista) il cerchio di ferro che deve rimettere assieme la botte sfasciata del capitalismo. Sempre alla medesima coazione va ascritto, su un piano politico più generale, il ruolo di incubatrice del fascismo svolto dai riformisti
social-liberali del Pd (d’altronde, qualcuno si è forse dimenticato che non mancarono, nel primo dopoguerra, liberali disposti a reggere la scala al fascismo? e qualcun altro si è forse dimenticato che la socialdemocrazia tedesca ha votato per Hitler?).
La trasformazione in senso autoritario di tutte le istituzioni statuali: dalla scuola alle forze armate, in cui la eliminazione della leva di massa, favorita dagli stessi riformisti, ha posto le premesse della trasformazione dell’apparato militare in un corpo di pretoriani integralmente al servizio del potere della borghesia monopolista, rafforzando la connotazione imperialista dello Stato come strumento delle guerre di aggressione all’esterno e della controrivoluzione preventiva all’interno (e non si citi come controesempio la posizione di Salvini, che invece rientra nella categoria della "pseudomorfosi di sinistra", per la quale si veda su questo stesso sito il seg. articolo: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/12904-eros-barone-salvini-e-la-pseudomorfosi-di-sinistra.html); dallo svuotamento dello stesso parlamento e delle altre assemblee rappresentative alla distruzione dei partiti di massa e alla degenerazione burocratica dei sindacati) è organicamente connessa, nel quadro della crisi di sovrapproduzione assoluta di merci, di capitale e di
forza-lavoro, alla ristrutturazione, interna e internazionale, del sistema del capitalismo monopolistico e del suo nucleo costituito dal capitale finanziario, che è la vera forza motrice della fascistizzazione.
Da questo insieme micidiale di contraddizioni discende l’inevitabilità dello sbocco fascista della crisi del capitalismo: tale previsione trova conferma, da un lato, nel famoso teorema di Kalecki, per cui non è possibile combinare tra di loro più di due dei tre termini costituiti dalla terna ‘capitalismo-piena occupazione-democrazia’ (nel Nord-Italia il teorema si presta ad essere espresso con la formula ‘capitalismo + piena occupazione = fascismo’…) e, dall’altro, nella drammatica mancanza di un partito comunista armato di teoria, disciplina, iniziativa, quadri e saldi collegamenti con la classe operaia e con gli strati intellettuali antagonisti.
In conclusione, è vero che, fin quando esiste un regime politico che non abolisce formalmente i tre fondamentali diritti da cui dipendono gli spazi di agibilità del
proletariato, cioè il diritto di sciopero, il diritto di riunione e il diritto di associazione, non è possibile definire il regime esistente, per quanto possa essere orientato in senso
reazionario, come fascista; ma è anche vero che esistono strategie più sottili e indirette, meno evidenti e altrettanto efficaci, con cui la borghesia monopolista può realizzare in forme nuove, se la situazione generale della crisi del capitalismo e dei rapporti di forza tra le classi lo richiede, quella concentrazione di forze reazionarie e quell’isolamento, schiacciamento e integrazione del proletariato che, attraverso il fascismo e il nazismo, furono realizzati dalla borghesia italiana e tedesca nel secondo ventennio del ’900.
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ernesto rossi
Monday, 29 April 2019 21:52
E' sempre tutto un Fascismo, non andarono mai via e oggi sono più numerosi che mai. Nessuno può campare autonomamente, per farlo devi sgomitare, se sgomiti sei fascista. I dipendenti pubblici o come ancora valido per il lessico economico, gli operatori di corte, sono tutti fascisti, gli sbirri fascisti, i Giudici e gli Avvocati sono fascisti, i Dottori in genere fascisti, gli operai stessi, selezionati tramite fine setaccio, sono vigliacchi e fascisti, non si salva nessuno. Infatti l'intero sistema repressivo e di controllo da Grande Fratello è utile grazie ai giornalisti del mainstream a stanare quei singoli che ancora avessero voglia di ribellarsi, questo il senso dei "camionisti" di marsiglia e tedeschi. Altro che terroristi... Gli stessi "Partigiani" dove stavano prima? Il nucleo dei guerrieri disponibili stava con Mussolini, i pochi rimasti altrove non potevano nulla. Gli attentati a Mussolini furono il tentativo di resa dei conti interno, lo stesso dicasi per i Dirigenti fascisti uccisi in attentati, non furono altro che ingenui che ci credevano veramente e quindi furono liquidati dai fascisti stessi. Certo la sofferenza, unita alla certezza di vittoria degli anglo-americani, unita alla condizione per molti, di morto per morto, generò un movimento meramente rappresentativo, che ancora ci conviene enfatizzare, alla stessa stregua di Zamboni a Bologna... Certo la ribellione è cosa da guerrieri e non ne disponiamo, la chiarezza delle idee non esiste, non esiste neanche il Problema, figuriamoci la sua soluzione! Non solo, anche ad averci un esercito efficace, bisognerebbe gestire la vittoria, ma come sarebbe possibile se nessuno sa cosa fare e cosa dire... Chi è il comunista? Da sempre e oggi piucchè mai, è un pazzo, un astruso che ferma le persone per strada e con gli occhi spiritati, di chi ha compiuto uno sforzo immenso a studiare che per Lui non era cosa, blaterando:"il Capitale, la sovrastruttura, la struttura, del plusvalore, il minchia valore"... Se li leggi, trovi sempre lo stesso atteggiamento, solo che ormai è datato, acchè serve l'ipostatizzazione de il Capitale, quando non è vero che quel che sta accadendo oggi è finalizzato al... Profitto! Ma quale profitto, ma quale un per cento contro il novantonove, ma dove!? Che se per capire qualcosa bisogna metterla in questo modo, che Rivoluzione faremmo comunque, la Rivoluzione dei menomati? E chi dice queste cose è menomato o servo del Potere? 1/99, profitto, Greta... E tutti a sgomitare per farsi la foto accanto... Eh ma hanno ragione, hanno avuto successo, sono usciti sui media! E' il contrario beoti; non è che hanno avuto successo e i media lo raccontano, escono sui media e dunque hanno successo; che è la conquista mentale dei fessi. Quì la verità è una sola, siete tutti fascisti e l'unico compagno sono io! E ne ho anche le prove, ci ho il libro, direbbe Visalli... Tempo fa mi regalarono un libro, dal titolo "Tutto è nelle Stelle" - un trattato di astrologia con l'oroscopo per ogni persona, -
ZOLAR - (il più grande astrologo del mondo). La singolarità dell'approccio di questo studio è dovuto alla divisione giorno per giorno, e non tanto per mesi, ovvero per segni che restano caratteristiche più generali, dunque la teoria è che i gradi sono 360 e quindi corrispondono giorno per giorno, anche se in verità questi sarebbero 365... Vabbè non sono mica cosa scientifiche che stanno lì col metro e righello! Per cui, le caratteristiche dei soggetti riportate sono più precise e nette, di quelle riferibili ai singoli segni zodiacali. Ho controllato il giorno di nascita di Marx, di Lenin, di mio nonno; quel che conta è che si trovano delle caratteristiche, sempre diverse le una dalle altre, ma... Solo il 13 Dicembre il giorno della mia nascita, recita:"potreste avere tendenze politiche spiccatamente socialiste e siete molto tolleranti nei vostri punti di vista politici... Di Socialismo eccetera, negli altri 359 gradi non ne parla affatto; Visalli ho le prove bibliografiche e le posso citare, che l'unico socialista quì sono io! Il resto come già detto, una massa di fascisti, opportunisti, attendisti... Insomma fascisti!
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Anna
Monday, 29 April 2019 14:33
Aggiungo un'osservazione e una chiave di lettura. Come ha mostrato Valerio Romitelli ( “La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi in bande” 2015 ; “L’odio per i partigiani” 2007 ), se si leggono i discorsi dei partigiani che combattano in quegli anni contro il nazifascismo, si scopre che non si parla mai di Resistenza, ma di “rivoluzione”, “ribellione” o al limite “guerra partigiana”. D’altro canto si resiste se si ha qualcosa da difendere (una lealtà verso un potere minacciato, un’istituzione,). E non è il caso dei partigiani, la cui esperienza è stata piuttosto quella di persone abbandonate a se stesse che hanno saputo piegare a proprio vantaggio uno spaventoso stato d’eccezione, facendo esperienza della libertà, intesa come autogoverno e autoeducazione politica. La questione è che questo laboratorio rivoluzionario verrà bloccato a forza da quei partiti che hanno imposto alla stessa insorgenza partigiana il nome di Resistenza, ricollocandola impropriamente in una storia di lungo periodo come compimento del Risorgimento; e soprattutto, con questo uso mistificato del suo mito, occultando la mancata de-fascistizzazione dello Stato.
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Engels17
Monday, 29 April 2019 10:15
Vi è un solo punto problematico a mio avviso, in questa analisi lucida e degna di essere discussa ampiamente: quello della "fascistizzazione" galoppante.
Il problema sta in ciò, che il concetto storico di fascismo non può essere disgiunto da quello di concezione fascista dello Stato (organico-corporativo, retto da un "duce" e basato su un compromesso di classe che presuppone una certa configurazione di classe nel paese interessato). Oggi il "fascismo" non mi sembra un progetto possibile da parte della classe dominante, nemmeno da parte delle sue frazioni sub-dominanti (per esempio il ceto medio-alto messo in difficoltà dalla "globalizzazione" e dal dominio del capitale finanziario). Tantomeno mi sembra negli interessi del capitale finanziario. La forma di autoritarismo che si va affermando è nuova, orwelliano-distopica, e a mio avviso occorre chiamarla in modo diverso da "fascista". Anche i nostri oppressori liberal-capitalisti temono le concezioni stataliste forti, organico-corporativiste, mentre il "neocorporativismo" oggi purtroppo in auge è di tipo "tedesco-occidentale", del tutto compatibile con forme di democrazia parlamentare, nondimeno dittatoriali nei confronti della classe lavoratrice.
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