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voxpopuli

A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino

Una riflessione marxista

di Compagno Pier

berlin mauerEsattamente trent’anni fa, il 9 Novembre 1989, accadde un evento di fondamentale importanza: la caduta del Muro di Berlino. Tale data simbolica, nonostante essa si riferisca prevalentemente agli eventi che portarono all’estinzione della Repubblica Democratica Tedesca e all’unificazione della nazione teutonica, contiene e rappresenta un significato molto più ampio, i cui esiti si ripercuotono nella società ancora oggi. Questo giorno viene celebrato ed accolto con gaudio dai media nostrani, i quali identificano questa data come «la fine della dittatura totalitaria comunista» e come «la prova oggettiva del fallimento socialista e della vittoria del capitalismo, unico sistema economico sostenibile». «La libertà ha vinto» esclamano in coro le principali testate occidentali, ben consapevoli che con questa data non si celebra solamente una mera riacquisizione da parte dei popoli orientali di questa famosa “libertà”, parola millantata e falsificata dai liberali , bensì viene soprattutto celebrata la libertà dell’occidente capitalista, che non aveva più sistemi economici con i quali competere (ora invece lo spauracchio degli americani è la Cina), di portare avanti quel processo di deregulation, costante finanziarizzazione dell’economia che ha causato l’evoluzione di una nuova forma di capitalismo, molto più aggressiva e feroce rispetto a quelle precedenti.

Il 9 Novembre del 1989 costituisce quindi uno spartiacque nella storia contemporanea: mediante la legittimazione fornita dai presunti insuccessi del cosiddetto socialismo reale applicato in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’élite capitalista mondiale ha sfruttato la debolezza del movimento socialista e proletario per poter accelerare la transizione ad uno spinto ordoliberismo.

Tutto ciò non si è manifestato solo nella struttura, bensì, come accennavo prima, tutto ciò ha avuto dietro un apparato di legittimazione che è riuscito ad egemonizzare il pensiero della sinistra stessa. Mediante diversi slogan, nel corso degli anni abbiamo assistito al progressivo smantellamento dei partiti comunisti europei, grandi organizzazioni di massa capaci di influenzare la vita politica e sociale e grazie ai quali si è posto, almeno inizialmente, un argine all’offensiva neoliberista mondiale, condotta mediante differenti modalità a seconda del contesto geografico, politico ed economico. Subito dopo la caduta del muro e dell’Unione Sovietica la cosiddetta sinistra ha subito una vera e propria opera di egemonizzazione da parte dell’élite capitalista, diventando oggi uno dei principali megafoni della propaganda neoliberista. Ciò a cui abbiamo assistito in Europa è stato il totale asservimento da parte dei movimenti politici eredi del PCI e dei sindacati di ispirazione socialista all’Europa della deflazione salariale e del tasso naturale di disoccupazione. Il suddetto modello è frutto di anni di elaborazioni e strategie effettuate dalla Germania nel corso della Guerra Fredda. Un interessantissimo articolo analizza bene le possibili evoluzioni dell’imperialismo tedesco derivanti dall’elezione di Ursula von der Leyen alla giuda della Commissione Europea. Il suddetto articolo forniva numerose ed interessanti informazioni concernenti il moderno imperialismo tedesco, ripercorrendone la storia, la quale affondava le sue radici proprio nella Guerra Fredda:

L’unico precedente di presidenza tedesca della Commissione offre una pietra di paragone utilissima per capire l’importanza del momento attuale. A ricoprire per primo, nel gennaio del 1958, la carica appena costituita, fu un altro tedesco: Walter Hallstein, uomo della CDU di Konrad Adenauer legatissimo agli USA, celebrato come uno dei padri dell’Unione Europea, ma anche artefice della cosiddetta ‘dottrina Hallstein’ la quale, fondandosi sulla rivendicazione per la Germania occidentale della “rappresentanza unica del popolo tedesco”, individuava qualunque apertura di relazioni con la DDR da parte di uno stato terzo come un atto ostile che avrebbe portato all’immediata interruzione delle relazioni diplomatiche con il governo di Bonn. In sostanza, in quella fase storica la presidenza tedesca dell’allora Commissione della Comunità Economica Europea servì all’affermazione radicale della funzione della CEE all’interno del disegno antisovietico elaborato a Washington e fondato sulla complessa dialettica tra i principi del containment (contenimento) concettualizzato da George Kennan – cioè l’organizzazione di un vero e proprio assedio che conducesse il campo socialista alla stagnazione e al declino – e del roll back (far arretrare), il cui padre fu John Foster Dulles, che consisteva nel respingimento sistematico e brutale dell’avanzata del movimento operaio su scala planetaria con mezzi economici, politici, ideologici, terroristici o militari. Ben sappiamo come anche l’Italia abbia pagato un elevato tributo di sangue per la realizzazione di quel disegno.

Di quella, come di tutte le fasi successive della politica estera degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, la Germania di Bonn fu la più fedele esecutrice, ciò che ha storicamente permesso all’imperialismo tedesco uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale di risorgere con la benedizione e il sostegno degli USA, ricostituire la propria potenza sul piano economico, finanziario e dunque politico, ma anche – in misura crescente nel corso dei decenni – sul piano militare, e riaffacciarsi sulla scena mondiale come protagonista, dopo la scomparsa del campo socialista e l’annessione della DDR.

Mentre le distorsioni della storia della guerra fredda inducono a credere che furono i sovietici a dividere la Germania, le potenze occidentali furono i veri autori della divisione tedesca. Alla conferenza di Jalta del febbraio 1945, gli alleati concordarono che mentre la Germania sarebbe stata suddivisa in zone di occupazione britanniche, statunitensi e sovietiche, la Germania sconfitta sarebbe stata amministrata congiuntamente. La speranza dei sovietici, che erano stati invasi dalla Germania sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, era per una Germania unita, disarmata e neutrale. Gli obiettivi dei sovietici erano duplici: in primo luogo, la Germania sarebbe stata smilitarizzata, in modo che non potesse lanciare una terza guerra di aggressione contro l’Unione Sovietica. In secondo luogo, avrebbe dovuto pagare i danni ingenti che ha inflitto all’URSS, i quali superavano i $ 100 miliardi.

Gli Stati Uniti volevano rilanciare la Germania economicamente per assicurarsi che fosse disponibile come un ricco mercato in grado di assorbire le esportazioni statunitensi e gli investimenti di capitale.

Stephen Gowans

Da queste due interessanti citazioni si può quindi evincere che sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale i piani delle potenze imperialiste occidentali per la Germania erano quanto più lontane dalla costituzione di uno stato «democratico, federale e libero» ( che tra l’altro aveva molti ex-collaborazionisti nel suo establishment, contrariamente alla Repubblica Democratica Tedesca, dove venne effettuato un massiccio processo di denazificazione), bensì mettevano l’acceleratore nella costituzione di uno stato che potesse assorbire economicamente le esportazioni statunitensi e gli investimenti di capitale e che politicamente costituisse l’avanguardia nella brutale aggressione verso il blocco socialista, esercitata in primis, mediante l’applicazione della dottrina Hallstein, verso la DDR. Un’ulteriore citazione sulla divisione imperialista della Germania:

I piani imperialisti per la divisione della Germania ebbero inizio ancor prima della fine della guerra. Il Presidente statunitense F. Roosevelt alla Conferenza di Teheran presentò il 1° dicembre 1943 un piano per lo smembramento della Germania in 5 stati e altre 2 aree sotto controllo internazionale. Tale proposta fu appoggiata da Churchill. Un altro piano imperialista per lo smembramento della Germania fu il Piano Morgenthau, preparato dall’ufficiale americano H. Morgenthau su ordine del Presidente USA.

Il piano prevedeva tra l’altro: a. la separazione della Germania in due stati, uno al nord e uno al sud. b. l’autonomia dell’area industriale della Ruhr e la sua conversione in una zona internazionale. c. la conversione della Germania da paese industriale a paese agricolo. Fu anche sottolineato che «sarà più facile trattare con due Germanie che con una». Questo piano fu la base di discussione di Roosevelt con Churchill alla Conferenza di Québec, tenutasi dal 12 al 16 settembre ’44. In questa conferenza i due leader decisero il distacco della Ruhr e della Saar dalla Germania e la sua conversione «principalmente in un’area agricola e pastorale». Alla Conferenza di Mosca, nell’ottobre ’44, Churchill presentò la sua proposta per la divisione della Germania in tre stati, mentre l’Assistente Segretario di Stato S. Welles sostenne la creazione di tre stati al posto della Germania, osservando che «molti Tedeschi, indubbiamente, cercheranno di trovare in questo caso un modo per restaurare l’unità, ma allora noi li avremo sottomessi con la forza». USA e Gran Bretagna presentarono questi piani alla Conferenza di Jalta, ma grazie all’atteggiamento dell’URSS questi piani furono respinti. Nella decisione relativa alla Germania, in cui naturalmente ci fu un compromesso con le potenze imperialiste, fu decisa l’occupazione della Germania da parte delle potenze vincitrici, ma si capì che era solo temporanea. Subito dopo, l’URSS, gli USA, la Gran Bretagna e la Francia firmarono la «Dichiarazione di Resa della Germania e l’Assunzione della Suprema Autorità» il 5 giugno 1945. Secondo quanto previsto, la Germania fu divisa in quattro zone di occupazione (Statunitense, Inglese, Francese, Sovietica) e Berlino – che ricadeva nella zona sovietica – in quattro aree. Il 9 giugno furono istallati i governi militari delle zone di occupazione. Ciascun stato prese la responsabilità di una parte di Germania e di un settore di Berlino. Il giorno della Vittoria Antifascista dei Popoli (9 maggio 1945) I. V. Stalin affermò che l’Unione Sovietica «non intende né dissolvere né annichilire la Germania». Nonostante le decisioni prese a Jalta, le potenze imperialiste alla Conferenza di Potsdam ripresero i propositi di smembrare la Germania. L’Unione Sovietica, rappresentata da J. Stalin, rigettò la proposta come innaturale e argomentò dicendo che l’oggetto non era lo smembramento della Germania, ma la sua conversione in uno stato pacifico e democratico. C’è una testimonianza simile di un diplomatico americano, Harry Hopkins, che non era certo favorevole all’URSS. Hopkins dice che Stalin trattò «senza entusiasmo» le proposte di Gran Bretagna e USA per lo smembramento della Germania. Così a Potsdam fu posto lo scopo di creare uno «stato tedesco, unificato, demilitarizzato, denazificato, organizzato democraticamente. Subito, già dal 1946, le potenze imperialiste mostrarono che non desistevano dai loro piani. Il 15 settembre 1946 fu pubblicato un report del Dipartimento di Stato statunitense sugli sviluppi in Germania con la seguente posizione: «Gli USA non possono accettare nessuna Germania dominata dai comunisti (…) noi dovremmo continuare nell’unificazione della Germania Occidentale con la Gran Bretagna e possibilmente anche con la Francia restaurando l’economia di questa regione. Questa alternativa potrebbe significare la divisione della Germania in uno stato all’est e uno all’ovest».

la Riscossa

Nonostante tutto il Collettivo si dissoci assolutamente dagli elogi espressi a I. Stalin, espressione e causa della deviazione burocratica del socialismo sovietico, i concetti espressi in questo ottimo documento, in cui si trovano ulteriori informazioni inerenti la DDR e la guerra economica e politica alla quale venne soggetta, ci fanno conoscere i principali attori che vollero la divisione della Germania in due stati. Ma il mio scopo in tale articolo non è quello di parlare della storia della DDR e del Muro di Berlino. Dopo aver effettuato un collegamento sulle origini del moderno imperialismo tedesco e quindi sulle cause della divisione tedesca, possiamo continuare il nostro iniziale approfondimento.

Alessandro Natta, penultimo segretario del PCI, affermò, all’indomani della caduta del muro, che con tale avvenimento cambiavano il mondo e la storia, con la concretizzazione del sogno di Hitler. La sua previsione si è rivelata in un certo senso fondata: Alessio Arena, l’autore dell’articolo inerente la Von der Leyen, giustamente afferma che dopo la caduta del muro il sogno dell’imperialismo tedesco si è realizzato: subordinando gli altri imperialismi europei alla sua egemonia, plasmando l’area economica europea, il mercato più ricco del mondo, avendo fatto dell’unione monetaria uno strumento per la propria ascesa, espandendo la sua potenza finanziaria ed anche militare.

Mediante il concetto della “libera circolazione delle merci e delle persone in Europa” e della compressione scientifica dei salari all’interno del mercato tedesco la Germania è riuscita a diventare uno dei principali esportatori al mondo ed è riuscita ad acquisire maggiore credibilità dinanzi agli storici alleati statunitensi, da cui però il paese si sta gradualmente distaccando sotto certi punti di vista, andando a costituire un polo imperialista europeo autonomo a guida tedesca. Coloro che hanno sofferto maggiormente la riunificazione e l’attuazione di questo nuovo imperialismo sono stati proprio gli ex abitanti della DDR, i quali, a partire dagli anni ’90, subirono un immane processo di privatizzazione, iniziato con la fondazione dell’agenzia Treuhandanstalt, la quale venne fondata per gestire la privatizzazione di tutte le imprese pubbliche della Germania dell’Est. Si contarono 8.400 imprese, 25.000 attività commerciali, 7.000 hotel e ristoranti e 4 milioni di ettari in terre coltivabili e boschi. Questa agenzia amministrò anche proprietà dei servizi segreti (Stasi) e dell’esercito della scomparsa DDR. Questo patrimonio fu in gran parte diviso e privatizzato dal grande capitale o distrutto perché non potesse rappresentare un fattore di concorrenza per i padroni occidentali. Il saccheggio del tessuto sociale costruito in decine d’anni dai lavoratori della DDR rappresentò il passaggio da un tasso di disoccupazione inesistente, a più del 14% (aumentando negli anni fino a raddoppiare). In pochi anni dei 4,5 milioni di operai ne rimasero soltanto 1,5. L’85% delle imprese fu venduto a impresari privati occidentali o a capitalisti stranieri. Arrivarono fenomeni quali la prostituzione, il traffico della droga, l’elemosina. Gli ex-abitanti della DDR vennero inoltre sottoposti a continue forme di discriminazione e di precarizzazione del lavoro. Non è un caso infatti che nella Germania orientale ci siano molti nostalgici della DDR e che sia addirittura diffuso l’allarme nazismo, derivante dalla frustrazione dovuta alle politiche imperialiste e liberiste condotte dalla CDU.

Tornando al discorso inerente la parabola della sinistra e dei sindacati, che si sono de facto piegati al neoliberismo, vorrei però aggiungere un ulteriore parere personale, inerente l’inizio di questa deviazione. Vorrei iniziare asserendo che, secondo il mio parere, vi fu un lungo percorso che portò all’attuale deriva della sinistra.

Iniziamo parlando di ciò che successe negli anni ’70, con il famoso compromesso storico: il segretario del PCI Enrico Berlinguer decise di placare gli animi rivoluzionari presenti all’interno del partito, mettendo l’acceleratore alla fase riformista del PCI. Le motivazioni dietro la decisione di intraprendere questa stagione ancora più riformista delle precedenti fu dovuta al pericolo costituito da un eventuale controrivoluzione, come avvenuto nel Cile di Allende nel 1973. Da un certo punto di vista questo esempio fornito dal sardo è più che legittimo, in quanto l’Italia, nello scacchiere geopolitico della Guerra Fredda, occupava una posizione delicatissima, indi per cui gli Usa non avrebbero mai accettato una rivoluzione socialista. Ricordiamoci inoltre che nella nostra nazione all’epoca vi era effettivamente un largo dispiegamento di soldati ed agenti segreti americani, pensate ad esempio all’Operazione Gladio. Gli Usa tra l’altro avevano una grandissima influenza nella vita politica Italiana. D’altra parte però, rinunziando completamente alla lotta di classe, non si ponevano in discussione l’appartenenza del potere politico ed economico alla borghesia capitalista. Nonostante anche io ammetta che con il trentennio di keynesianesimo i lavoratori europei abbiano compiuto delle grandissime conquiste e che in generale il sistema di capitalismo più “sostenibile” e “regolamentato”, rappresentato dal keynesianesimo, sia migliore rispetto al sistema odierno, ciò costituì solamente un mero adattamento delle classi dominanti alla prospettiva che andava sviluppandosi dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale: i partiti comunisti occidentali divenivano sempre più forti e la minaccia di eventuali rivoluzioni nei paesi occidentali era più che concreta. Per poter placare gli animi rivoluzionari del proletariato occidentale venne adottato questa tipologia di modello socio-economico. Ora, i problemi sono due: innanzitutto le leve del potere politico ed economico appartengono sempre alla borghesia, la quale può adottare diverse tipologie di capitalismo a seconda della fase storica. Come abbiamo ben visto a partire dagli anni ’80 ma soprattutto dopo la caduta del Muro, questo keynesianesimo è stato gettato ed è stato sostituito dal neoliberismo. Non aspirando all’espropriazione politica della borghesia i risultati si possono manifestare in una nuova offensiva capitalista, come quella avvenuta a partire dagli anni ’80.

Non avendo colto quest’opportunità e non avendo sostituito i borghesi con le classi subalterne nel controllo dei processi politici ed economici il PCI ha ottenuto questo: ha effettivamente arginato momentaneamente l’offensiva neoliberista in Italia, ma tale processo di riformismo ha portato al graduale smantellamento del Partito ed all’attuazione delle politiche neoliberali nel nostro paese a partire dagli anni ’90. Il secondo problema è invece di carattere economico: molti comunisti, nel dibattito politico attuale, auspicano il ritorno del sistema economico precedente. Questa è una visione sbagliata, in quanto ritiene che solamente la tipologia attuale di capitalismo sia responsabile della crisi e di altri cattivi fenomeni presenti nella società e nell’economia mondiale. Nonostante il sistema keynesiano sia stato un sistema indubbiamente migliore rispetto a quello neoliberista, anche esso alla fine si è rivelato insostenibile. Le origini della crisi, ad esempio, affondano addirittura le loro radici nei primi anni ’70, quando ancora non vi era il sistema economico attuale. Il professore Luciano Vasapollo può esserci d’aiuto:

Le situazioni di crisi rientrano nei principi del funzionamento dell’attuale sistema economico capitalistico. La sua espressione più palese è la caduta dei tassi di profitto, di redditività del capitale, che obbedisce, in ultima istanza, alla costante tendenza del capitale a ridurre i lavoratori occupati a tempo pieno e pieni diritti e sostituirli con le macchine. A breve termine, questo fenomeno non danneggia la produzione, perché la crescente tecnologizzazione dei processi si combina con un’espansione generale dell’attività produttiva, che presuppone una contrazione dei lavoratori e un aumento della produttività del lavoro che riduce il valore/prezzo unitario dei beni. A lungo termine, però, il processo di tecnologizzazione si traduce in una relazione investimento/occupazione sempre maggiore; ossia, significa una pressione a ribasso sulla massa dei salari in relazione al valore della produzione generata.

E in tal modo che in forma periodica il modo di produzione capitalistico genera sovrapproduzione come conseguenza del suo obiettivo costante di poter raggiungere un livello di profitti desiderato sempre maggiore, così ristabilendo un nuovo cammino di crescita quantitativa ed espansione del capitale, più o meno, regolare.

La crisi attuale è molto più di uno stallo finanziario di dimensioni globali. È un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano alla fine degli anni ’70, e nei primi anni ’80, per continuare ad attrarre manodopera a basso costo e senza la garanzia di diritti e risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci, sempre a credito. D’altra parte tale processo parte da lontano, già dai primi anni ’70, quando la crisi internazionale d’accumulazione assume caratteri così fortemente strutturali da far sì che il capitale internazionale, non potendo realizzare i profitti desiderati da una produzione e da un processo di valorizzazione delle merci difficilmente espandibile, cerca di guadagnare attraverso operazioni di credito (finanziarizzazione dell’economia come forma di usura internazionale); ciò prende particolare slancio già nei primi anni ’80, marginalizzando di fatto il ruolo delle banche commerciali.

Verso la fine degli anni ’70, vari settori hanno segnalato un certo esaurimento del modello di capitalismo organizzativo incentrato sulla fabbrica fordista, il cosiddetto «fordismo». Da un lato vi era la saturazione del mercato sulla base dei prodotti esistenti introdotti in forma massiva (consumi di massa) alla fine della seconda guerra mondiale. Quando gli abitanti dei Paesi sviluppati cominciano ad avere tutti gli articoli necessari di consumo (TV, lavatrice, telefono, vacanze pagate, ecc.), si produce un rallentamento delle vendite e quindi anche della crescita economica. Il mercato potenziale, che è formato dalla maggioranza impoverita dei Paesi periferici, non viene incorporato al consumo, perché la sua funzione nel modello di sviluppo fordista consiste proprio nel lavorare in cambio di un reddito di sussistenza, produrre a basso costo le materie prime, alcuni beni di lusso e di consumo operaio che vengono richiesti dai Paesi centrali. Un altro fattore fondamentale del fallimento del modello capitalistico organizzativo (da intendersi come organizzativista fordista) è stato la redistribuzione del potere all’interno delle fabbriche, dal capitale verso il lavoro. Una delle caratteristiche del modello è che è stato raggiunto, di fatto, dal pieno impiego della forza lavoro. Anche se questa caratteristica coinvolse solo il 20% della popolazione mondiale – e in un lasso di tempo non superiore a venti anni, tra il 1948 e il 1968 -, negli altri duecento anni del capitalismo, prima e dopo, non è esistito il pieno impiego della forza lavoro, fatto che rende questo aspetto una rarità.

Agli elementi precedenti bisogna aggiungere la dinamica politica mondiale che riduce ancora di più il margine di manovra del capitale. Il sistema internazionale adotta la forma di una gerarchia di nazioni che risponde al ruolo che svolgono i differenti Paesi nella divisione internazionale del lavoro. Al vertice, in assenza di autorità mondiali, si colloca uno Stato imperiale che esercita il ruolo di «giudice-arbitro» internazionale, dettando le regole del gioco in funzione delle particolari necessità di riproduzione dei suoi stessi capitali. Dagli inizi della seconda rivoluzione industriale (1871), le nuove potenze che dominano le tecnologie moderne, Germania e Stati Uniti, interdicono l’egemonia britannica che dominava il mondo durante il XIX secolo. Quindi, l’Inghilterra inizia a perdere parte della sua influenza nel settore militare (l’Armata britannica), in quello economico (l’industria tessile e siderurgica) e in quello finanziario (la sterlina).

La prima guerra mondiale non dà luogo a un nuovo periodo di stabilità politico-economica, perché la Germania non riesce a imporre il suo dominio e gli Stati Uniti non esercitano la leadership mondiale. Gli anni ’20 e ’30 rappresentano quindi un periodo di fragilità obiettiva del dominio capitalistico, che favorisce il trionfo della rivoluzione russa e richiede un nuovo ciclo di scontro militare per dirimere la composizione della nuova gerarchia mondiale capitalistica (bisogna sottolineare che i grandi detentori del capitale, con tutto il loro amore dichiarato per il libero mercato, ricorrono sempre all’azione organizzata dallo Stato e dalla forza militare per stabilire le gerarchie di potere, dentro e fuori i confini nazionali, quando vengono messe seriamente in discussione).

Solo dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America (e il dollaro) si collocano alla testa dell’economia mondiale. Alla fine del conflitto, gli Stati Uniti sono l’unico Paese creditore di una certa importanza e, inoltre, i loro territori non hanno sofferto la devastazione bellica degli altri Paesi alleati e hanno anche l’industria e il denaro sufficienti per diventare il centro dello sviluppo e della ricostruzione dell’Europa e del mondo. Questo sistema funziona fino a quando l’industria dell’Europa occidentale e del Giappone verranno ricostruite e si presenteranno in una competizione internazionale, faccia a faccia, per contendere alle imprese statunitensi i mercati internazionali.

A partire dagli anni ’60, i tempi cambiano rapidamente e agli Stati Uniti costa molto di più mantenere la loro egemonia economica, dovendo ricorrere, costantemente, alla politica militare (guerra di Corea, Vietnam, ecc.). Dalla fine degli anni ’60, l’oro della Riserva Federale degli Stati Uniti, che serve a garantire i dollari sparsi nel mondo, non riesce a coprire neppure la quinta parte di questi beni. Tutto ciò dà origine al fallimento del sistema monetario internazionale, quando il presidente Richard Nixon riconosce, nell’agosto del 1971, che il suo Paese non può più garantire di trasformare i dollari in oro. Viene sospesa la convertibilità della moneta americana rispetto all’oro e il sistema economico internazionale scende in basso, così come stava funzionando fino a quella data. Si decreta così con un atto di forza unilaterale la fine degli accordi di Bretton Woods. Nel 1976, cinque anni dopo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) riconosce che il sistema monetario non esiste più; viene sospesa la quotazione ufficiale dell’oro, vengono eliminati i controlli dei tipi di cambio e con ciò si dà maggior potere al mercato per fissare i suddetti prezzi. Queste decisioni segnalano l’inizio della fine del ciclo di egemonia finanziaria statunitense.

È in questo momento che gli europei, guidati dall’asse franco-tedesco, decidono di creare il Sistema Monetario Europeo (1978), per regolamentare i propri scambi, e in seguito la moneta unica (1999), per essere liberi di difendere i modelli di cambio di fronte alla speculazione dei mercati e per liberarsi dalla tutela che, di fatto, gli Stati Uniti continuano a stabilire sul sistema internazionale dei pagamenti con la funzione di attivo di riserva che i dollari esercitano ancora in modo predominante. L’indebolimento del dominio statunitense si traduce nella creazione delle condizioni affinché i Paesi esportatori di materie prime reclamino un prezzo maggiore per le loro risorse. Fino al 1973 il modello fordista aveva generato una redditività sufficiente per il capitale, funzionando con alti costi salariali insieme a una produttività crescente e ai bassi costi delle materie prime. Questa situazione cambia, e l’aumento dei prezzi delle materie prime, in particolare dell’energia (petrolio), aggrava la crisi della redditività iniziata con il rallentamento della produttività alla fine degli anni 70; i profitti delle imprese vanno a picco e il risultato è che molti Paesi sperimentano PIL annuali davvero negativi, ossia non solo non crescono, ma le loro economie vanno sempre peggio.

Mentre fino agli anni ’70 Keynes e la pianificazione economica hanno influenzato l’economia, dagli anni ’80 e ’90 il monetarismo e tutto l’impianto neoliberista dominano il mondo governandolo con «il mercato senza vincoli».

Da ciò si può quindi evincere che se si parla della “crisi del neoliberismo” si deve considerare ciò che fu alla base dello sviluppo dello stesso, ovvero il fallimento del modello economico fordista. È quindi sbagliato parlare soltanto di crisi neoliberista ed auspicare un ritorno ad un sistema keynesiano, quando il primo sistema economico, analogamente al secondo, costituisce una crisi del sistema capitalistico internazionale, e non solo di una determinata tipologia o manifestazione di esso.

 

Conclusioni

La Caduta del Muro, nonostante il suddetto evento costituisca l’apice di diverse contraddizioni presenti all’interno dello stagnante sistema del socialismo reale, ha rappresentato una sconfitta per il movimento proletario mondiale. Con la scomparsa del “blocco socialista” e, successivamente, dell’URSS il capitale internazionale ha potuto facilmente espandersi su scala globale evolvendosi in una forma molto più aggressiva rispetto alle altre. Anche nello scacchiere geopolitico la scomparsa dell’URSS e delle democrazie popolari dell’Est Europa ha posto le basi per la nascita del cosiddetto mondo monopolare, nonostante, come abbiamo visto in precedenza, si stiano e si sono già costituiti dei poli imperialisti autonomi e, sotto certi punti di vista, indipendenti dagli USA e persino in competizione con essi. Un alternativa può essere attualmente rappresentata dalla Cina e dai BRICS. Come disse il compianto compagno Samir Amin:

Dal 1970 il capitalismo predomina il sistema mondiale con cinque vantaggi: il controllo dell’accesso alle risorse naturali, il controllo della tecnologia e della proprietà intellettuale, l’accesso privilegiato ai media, il controllo del sistema finanziario e monetario e, infine, il monopolio delle armi di distruzione di massa. Chiamo questo sistema “apartheid su scala globale” (segregazione su scala mondiale).

Implica una guerra permanente contro il Sud, una guerra iniziata nel 1990 dagli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO in occasione della prima Guerra del Golfo. Ma i paesi emergenti, soprattutto la Cina, sono intenti a decostruire questi vantaggi. Per primo, la tecnologia. Si passa dal “Made in China” al “Made by China”. La Cina non è più l’officina del mondo per le filiali o i soci del grande capitale dei monopoli. Controlla la tecnologia per svilupparsi. In alcuni ambiti in particolare, quello del futuro dell’automobile elettrica, del solare, ecc., possiede tecnologie d’avanguardia in anticipo sull’occidente. D’altra parte, la Cina lascia che il sistema finanziario mondializzato, si distrugga. E finanzia anche la sua autodistruzione attraverso il deficit americano e costruendo in parallelo mercati regionali indipendenti o autonomi attraverso il gruppo di Shanghai, che comprende la Russia, ma potenzialmente anche l’India ed il Sud-est asiatico.

Sotto Clinton, una relazione della sicurezza americana prevedeva anche la necessità di una guerra preventiva contro la Cina. È per farvi fronte che i cinesi hanno scelto di contribuire alla morte lenta degli Stati Uniti, finanziandone il deficit. La morte violenta di una bestia di questo genere sarebbe troppo pericolosa.

La Cina ed i BRICS costituiscono attualmente un’alternativa in grado di spezzare, seppur molto lentamente, il dominio politico, militare ed economico statunitense. Oltre a ciò queste cinque nazioni (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) costituiscono la cosiddetta “agenda multipolare”.

Comments

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Franco Trondoli
Sunday, 24 November 2019 19:55
Insomma cari tutte/i , gli esseri umani formano un rapporto impersonale con i mezzi di produzione che diventa capitale, e tutti ne sono soggiogati; ciò non toglie che ci sono uomini e donne che prendono decisioni con e in quella logica che ha gli effetti che sappiamo. Che distruggerà tutto e tutti portandoci o riportandoci alla fame e stenti. Questo avviene progressivamente, in un contesto di danni ambientali naturali e industriali che ci uccideranno quasi tutti, in piu' con meccanismi di controllo ,di profitto, e di riproduzione di atti di vita che cominciamo a vedere con l'uso dei big-data, delle decisioni meccaniche tramite algoritmi , e mille altre diavolerie permesse con le tecnologie digitali ,che tutte insieme riqualificano e fanno vivere una vita completamente diversa da quella precedente. Pensiamo solo alle Smart City. Ebbene , proprio perché si situano in quadro di sfacelo complessivo, bisognerà prima poi pensare a come difendersi, prendendo delle iniziative, perché anche se dovremo "accompagnare" l'implosione del capitale, nel fuoco del processo, che stiamo già vivendo, qualcosa saremo chiamati a fare, solo anche perché ,verosimilmente ,ne saremo quasi tutti colpiti. Insomma in qualche modo sarebbe bene che c'è ne incominciassimo ad occupare seriamente. Cordiali Saluti
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Fabio
Sunday, 24 November 2019 18:03
Caro compagno Michele Castaldo
nel Manifesto , le due classi che vengono prodotte dalla società capitalistica, la borghesia e il proletariato, vengono in realtà strette da Marx in un rapporto di mutua dipendenza e di reciproca implicazione. Rapporto, dice Marx, che tra l’altro supera di gran lunga la mera relazione di dominio : le condizioni di esistenza del proletariato coincidono esse stesse con le condizioni di valorizzazione del capitale posseduto dalla borghesia .
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michele castaldo
Sunday, 24 November 2019 17:03
Caro compagno Fabio,
quello che va contestato a Marx non è l'apologia del modo di produzione capitalistico del Manifesto, no. quello che gli va contestato è il fatto che l'attribuisce a una classe, cioè la borghesia. Mentre sia nei Grundrisse che nel Capitale a giusta ragione definisce il modo di produzione capitalistico IMPERSONALE RAPPORTO DEGLI UOMINI CON I MEZZI DI PRODUZIONE. Sicché la borghesia nasce e si sviluppa in quel rapporto, da quel rapporto, con quel rapporto. E' un prodotto cioè di quei rapporti. Chi è abituato a ragionare assegnando all'uomo la potenza di dirigere ogni cosa fa grande difficoltà a capire L'IMPERSONALITA' di un movimento storico.
Lo storico Emilio Gentile in «Ascesa e declino dell'Europa nel mondo 1898-1918» ricorda di un certo Burckardt, storico, una espressione degna di nota: «In realtà sino a ora è cresciuta solo la civiltà, non la bontà degli uomini, e meno che mai la loro felicità».
E Gentile annota: «Al saggio di Basilea, conservatore ma non reazionario, la modernità non piaceva».
Ora, spiegare l'impersonalità del modo di produzione a chi ritiene che il capitalismo possa essere diretto dalla politica secondo i voleri dell'uomo è tempo perso. A giusta ragione Burckhardt ci suggerisce che esso è «espressione di fretta e ansia che "minano la vita" e che la concorrenza generale spinge ogni cosa alla massima rapidità, alla lotta per differenze minime e all'orizzonte incombe, più o meno vicina, una grande guerra europea, in conseguenza di tutti gli avvenimenti passati». Così si era espresso presso i suoi studenti Brackhardt nel 1867, 4 anni prima della tragedia della Comune del 1871.
Uno storico serio si distingue dalle sue capacità analitiche e previsionali. Così che molti intellettuali di sinistra e marxisti farebbero bene a riflettere prima di parlare.
Michele Castaldo
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Franco Trondoli
Sunday, 24 November 2019 13:55
Detto in soldoni, a me quello che ha "veramente detto Marx", in ultima analisi, non interessa molto. Sarebbe meglio se Marx fosse vivo adesso. La realtà dice che il capitalismo di progressista non ha proprio nulla ai fini del benessere complessivo delle persone e dell'ambiente naturale. Le società mondiali, il mondo, o come cavolo vogliamo chiamare quello che ci circonda, fila verso la distruzione di quello che esiste e la barbarie. Il "progresso" ,con le sue sfere culturali, lo ha inventato la borghesia per i suoi fini. Nascondendo agli "altri" il secondo lemma: trattasi si di "progresso", ma di progresso capitalistico. Auguri
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Fabio
Sunday, 24 November 2019 13:25
Postilla a quanto pare non scontata : se ho citato Togliatti, non vuol dire ovviamente che condivida ogni pensiero/azione di Togliatti .
Poi , circa i post strutturalisti francesi mi pare ci siano delle opinioni non confortate da una loro lettura . Ma spero di sbagliarmi.
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Fabio
Sunday, 24 November 2019 13:13
Però è importante precisare che Marx persegue “Il libero sviluppo delle individualità” ( K.Marx, Grundrisse ,pag 389, ed 1970 La Nuova Italia, II Vol ) ; che per Marx “la libertà” si identifica completamente con “l’essenza dell’uomo” ( Cfr. K.Marx, articoli della Gazzetta renana, in Marx-Engels, Opere, vol. I, p. 154. , Editori Riuniti, Roma 1980, ) ; che per Marx “ogni forma di libertà presuppone le altre(..) ogniqualvolta vien posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa che viene posta in discussione” ( Ivi, pp. 181-182.) etc. etc.
Quindi , si, ovviamente per me era sottinteso che il soggetto/l’individuo in Marx non è quello atomistico borghese ; quindi si può anche dire che l’individuo marxiano non è “autonomo dalle strutture di determinazione ed espressione” ( Bollettino culturale ), a patto però di precisare subito dopo che queste “strutture” non debbano essere reificate ( si rischierebbe altrimenti di strizzare l’occhio alle tesi antiilluniste e reazionarie ). Perché, contro l’organicismo, l’orizzonte marxiano si caratterizza per la ricerca della realizzazione individuale che non viene concepita in contraddizione con la presenza di un tessuto sociale, di una rete amplissima di relazioni, sulla base però di coordinate mobili e non definibili una volta per tutte.
Il comunismo marxiano non è la comunità dei controrivoluzionari , non è la comunità delle radici , del sangue , del suolo e dei sentimenti , di ciò che lega ; è al contrario la società che libera .
L’individualismo ( parola coniata non a caso dai controrivoluzionari cattolici che , a differenza di Marx , erano in polemica contro la libera emancipazione dell’individuo che prende piede con le rivoluzioni borghesi di fine Settecento ; e parola resa poi famosa grazie al Tocqueville de “La democrazia in America” che , come Marx , se pure da diversa posizione , era per la libera emancipazione dell’individuo ) , dicevo .. l’individualismo è l’individuo non più soggetto , ma assoggettato ( come d'altro canto lo volevano i controrivoluzionari che hanno coniato il termine individualismo : se pure lo volevano assoggetto alle gerarchie di nascita e non al capitale ) ; l'individualismo è il Signore ( l’individuo razionale moderno ) che ritorna servo . E’ cioè l’esperienza che possiamo osservare nella società complessa di oggi : le potenze tecnico/economiche trascendono l’individuo che non agisce più , ma è agito . L’individualismo ( come il comunitarismo organicista delle radici ) è chiaramente opposto al fine dell’emancipazione dell’individuo che si pone Marx .
Per dirla con Palmiro Togliatti ( luglio 1949 ) : “in coloro che, come gli illuministi, animati dalla fiducia più grande nell'uomo e nelle sue facoltà, impiegarono le armi del loro sapere per aprire un'era di rinnovamento dell'umanità, non possiamo non riconoscere dei precursori. Il bagno razionalistico era indispensabile per aprire al pensiero e all'azione degli uomini le strade di un'èra nuova. La cosa è tanto vera ed evidente che quelle correnti culturali le quali credettero di poter superare o respingere il razionalismo illuministico senza essersi immerse in esso sino ad appropriarsi tutto quello che ebbe e realizzò di positivo e progressivo nella distruzione del passato oscurantistico e clericale, hanno finito per metter capo ancora una volta a questo passato, o per aprire la strada alla sua resurrezione.”
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Franco Trondoli
Saturday, 23 November 2019 22:43
Sono convinto che la realtà superi l'immaginazione. E' per questo che, secondo me, non si riesce a capire. Perché non si riesce neanche ad immaginare. Buona Fortuna
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Mario Galati
Saturday, 23 November 2019 16:58
Davvero impressionante. Abbandono il campo, accetto la sconfitta e mi inchino dinanzi a cotanta sapienza. Ma davvero B.C. pensa di impressionare e intimidire l’interlocutore con questo tipo di esibizioni? Pensa di poter far accettare approdi farseschi e ridicoli di un certo tipo di pensiero gettando sul tavolo una borsa con il peso del suo bagaglio di conoscenze? Sappia che si sbaglia di grosso. Per quanto mi riguarda, sono di estrazione proletaria ed ho vissuto quell’ambiente sociale, ho studiato (ma non discipline storico-filosofiche), leggo, ma la mia non è istruzione d’alta cultura, ovviamente. Ma è alta quanto basta per riconoscere i veri maestri da cui imparare ed a cui guardare. Avrà già capito, B.C., che egli non è tra questi, anche se so perfettamente che non se ne farà un cruccio. Capirà che uno che guarda a Gramsci o a Losurdo, per es., non potrà mai guardare a B.C. come riferimento formativo. Sono uno di quelli che pensano che 100 B.C. non valgano un’unghia di un Dimitrov, poniamo, operaio e dirigente comunista (di quelli che hanno contribuito a costruire il capitalismo in URSS, secondo l’ottica certamente non ridicola e farsesca di B.C.). Bollettino Culturale getta sul tavolo le sue specialità e la sua erudizione alla stregua di un Manfurio. Quando dicevo che la concreta esperienza storica rappresenta per B. C. solo un pretesto mai richiamato per dare la stura ad elucubrazioni dottrinali ed erudite (che però danno come esito indicazioni pratiche sbagliate e, perciò, la sua dottrina potrebbe essere quantomeno fortemente sospettata di erroneità) viene confermato in questa sua replica. Una replica che tende solo a dimostrare quanto B.C. sia dotto e gli interlocutori collocati ad un livello inferiore e, perciò, dovrebbero soltanto ricevere ammirati il dono elargito della sua sapienza. Guai a criticarlo, perché ciò sarebbe lesa maestà, sotto forma di giudizio ad personam (è ad personam l'argomento che critica l'ermeticità che copre contenuti tutto sommato normali? Togliatti, un pensatore sicuramente collocabile ad un livello inferiore rispetto a Bollettino Culturale, parlava di gergo cabalistico. Veda, non c'è bisogno di ergersi a magister litterarum per stigmatizzare questa abitudine, indice non trascurabile di un atteggiamento pretenzioso e vacuo. Un vero grande intellettuale come Gramsci si esprimeva in termini ben diversi e aveva qualcosa da insegnare, a differenza dei sacerdoti di religioni esoteriche che presumono troppo da loro stessi e vogliono essere creduti sulla parola accompagnata dal peso delle citazioni). Davvero un'ottima referenza per un intellettuale che pretenderebbe di lavorare per il comunismo.
Mi meraviglio, però, che un'intellettuale di tale levatura continui ad eludere il problema storico che si è presentato dinanzi ai sovietici dopo la rivoluzione d'ottobre; il vero nodo da sciogliere, intorno al quale dovrebbe ruotare tutta l’attività teorica profusa, senza perderlo di vista, se non si vuole ridurre il tutto a vuoto esercizio. Per la verità, par di capire, un'idea ce l'ha ed è di condanna. Dall'alto del suo ingegno condanna l'esperienza storica concreta, ma, sempre dall'alto del suo ingegno, penso intuisca quanto sia ridicola al cospetto dei comuni mortali, dei lavoratori, la tesi che l'Unione Sovietica fosse un paese capitalista e che il processo di innalzamento della produzione, di riorganizzazione e di riarmo non fosse altro che una manifestazione del Capitalismo. Le sue dotte disquisizioni vanno verificate alla luce di questi processi e di queste necessità storiche, altrimenti risultano erudizioni da Manfurio o esercizi logico-matematici astratti ed epistemologia altrettanto astratta. Dopo questa sollecitazione diretta probabilmente risponderà al problema, ma il fatto indicativo è che non l’abbia nemmeno sfiorato nella replica. Come può vedere, non uso categorie psicopatologiche come "delirio"; semmai potrei usare categorie sociali come quella dell'intellettuale piccolo borghese che condanna senza appello l'esperienza storica concreta delle masse e pretende di portare tra loro il verbo della palingenesi quasi immediata, non avendo da queste masse nulla da apprendere (quanto è hegeliana e detestabile questa categoria dell’apprendimento). Delirio di onnipotenza? Dottrinarismo impotente? Messianesimo latente? Chissà.
E adesso, qualche puntualizzazione sparsa.
-Io non ho affermato che la tecnica sia neutrale. Il problema è ciò che si intende per non neutralità della tecnica (v. per es., il problema che poneva Lenin circa l’organizzazione industriale, la gestione capitalistica e la riorganizzazione della produzione in Unione Sovietica). Perciò, richiamare Gramsci a tale proposito non era proprio necessario. Lo stesso vale per la sottolineatura dell’antipositivismo di Gramsci: si sfonda una porta aperta, ma mi sembra che non fosse in discussione.
-Lo pseudoconcetto di biopolitica, può avere tutte le origini che si vuole, ma il suo uso in quel contesto è esattamento quello dell’uso diffuso e comune attualmente. E un dilettante speculativo come me non può che cogliere quel segno come sintomo di una vicinanza a determinati contenuti. Spetterebbe ad un professionista speculativo come B.C, che si presume non intenda rivolgersi soltanto alla sua comunità ristretta di specialisti, ma farsi capire dal volgo per cui pubblica, esprimersi in modo inequivoco, quando ciò è possibile, o evitare certi termini. Per quale motivo potere “biopolitico” e non potere “politico”? C’era forse il rischio che si credesse di parlare di minerali o metalli?
-Trovo incredibile che Bollettino Culturale trovi "incredibile" la "sicurezza del fatto che nell'URSS non ci sia profitto se non "surplus non consumato immediatamente"”. E ritengo ridicolo e farsesco ritenere che in un'economia collettivizzata come quella sovietica ci fosse profitto. Siamo alla farsa del capitalismo senza capitalisti (e non nel senso inteso da Samir Amin). Pura metafisica.
-Non ho scritto "negazione con assolutezza", ma "negare con assolutezza", sicchè, per sentire quell'espressione piegata al suo uso e consumo polemico, può tranquillamente rientrare nel teatro della rabbia di Osborne.
-Se io esprimo il concetto che l’idea messianica di una cesura totale e immediata col passato, che non accolga la sua eredità storica, con l’espressione “negare con assolutezza”, propria di un non specialista, uno specialista che pretende di capirne di più dovrebbe coglierne il senso e mantenere il dialogo o la polemica sul piano dei contenuti, senza aprire il cordone della borsa e riversare sul tavolo tutta la sua precisione tecnica. Questo, naturalmente, se ne capisce di più. Comunque, lo ringrazio per avermi messo a parte del concetto sconvolgente e inaudito che una negazione, rispetto al suo termine di raffronto, è anche un’affermazione. Era proprio su ciò che vertevano le mie affermazioni ed avevo proprio bisogno di una lezioncina scolastica.
- Lo stesso vale per la questione dell’aufhebung . Certo, non essendo uno specialista, non avevo mai considerato il suo carattere reazionario. Cercherò di approfondire. A prima vista, però, mi sembra una cosa ridicola e farsesca. La “vera aufhebung” caldeggiata da B.C. non mi sembra affatto una aufhebung, ossia, non una indeterminata “sintesi”, ma superamento-incorporazione (credo, espresso dal significato letterale di questo termine tedesco. Ma non conosco la lingua tedesca). A me sembra che la definizione di “vero aufhebung” data da B.C. sia in realtà uno scarto, non un superamento-incorporazione, se non nominalistico. Se ho ben capito, vi sarebbe il semplice riconoscimento del negativo, non la sua incorporazione nel suo superamento. Tutto ciò mi induce a confermare le mie precedenti “disquisizioni sul concetto di dialettica” e a difendere il “frankestein filosofico” che ho creato. E sia pure, se il primo momento ricalca la critica che Deleuze muoveva ad Hegel. In fondo si tratta solo del primo momento e non è detto che Deleuze non distorcesse la concezione di Hegel, facendone un obiettivo polemico (uno degli artifici retorici più usati). Cercherò di approfondire.
-Quanto al nichilismo, B.C. può dare tutte le definizioni che vuole e pretendere che siano canonizzate, ma per quanto mi riguarda è nichilista anche chi ha un rapporto di totale negazione col passato. E credo pure che la nostra società di merci e di consumo di merci sia nichilista, anche alla luce del suo rapporto col passato, con la storia.
-Quanto a ciò che ho scritto sulla rivoluzione passiva, non ho mai affermato che B.C. elimina praticamente il soggetto rivoluzionario. Ho scritto qualcosa di diverso ed era riferito all’aufhebung. In fondo, la rivoluzione passiva, nella concezione di Gramsci, non è altro che un’aufhebung della tesi, un’aufhebung dall’alto. Se B.C. riconosce nel conflitto questa possibilità di vittoria e di superamento-incorporazione dell’antitesi, dell’avversario di classe dominante, perché non riconosce all’antitesi nella sua rivoluzione attiva la possibilità di aufhebung della tesi dominante sconfitta? Dunque, o non mi sono spiegato bene o B.C. non ha compreso. Vedo che le mie sensazioni erano giuste, poiché, in sostanza B.C. interpreta l’aufhebung rivoluzionaria svuotandola del suo contenuto di “conservazione” trasformata. Trovo in ciò una contraddizione: nella rivoluzione passiva la concepisce, ma nella rivoluzione attiva no.
-B.C. sfonda una porta aperta anche sulla concezione del comunismo non come semplice salto quantitativo o qualitativo della produzione, ma come società che realizza l’autonomia collettiva dei produttori (e per questo motivo veramente individualista, si potrebbe aggiungere), per semplificare. Ma da dove B.C. ha tratto la conclusione che concepire la mediazione storica delle tappe e delle condizioni necessarie al raggiungimento di questo obiettivo significhi asservirsi alla logica astratta ed eteronoma del capitalismo? In questa incomprensione trovo la concezione messianica dell’instaurazione immediata del regno dei cieli, senza la necessaria mediazione storica. E qui trovo che sia necessario l’uso dell’apprendimento storico, che impara criticamente dalle esperienze passate. E qui trovo l’incomprensione e la distorsione della storia sovietica o cinese, per es.
Mi sia permesso un ultimo pensiero. Ricordo l’osservazione di Gramsci sulla Germania come il paese dell’alta cultura che, però, ha prodotto il “lorianismo mostruoso” nazista. Gramsci invitava ad interrogarsi su ciò. Facciamolo. Non fraintendete. Con ciò non intendo assolutamente accostare vilmente B.C. e nazismo. Ciò che intendo è che dobbiamo interrogarci sulla cultura, sul suo significato storico-sociale e sul suo uso, sulla costruzione di un senso comune di massa e sullo stretto rapporto dell’alta cultura con la sua costruzione e con i processi storico-sociali, con le masse. Una frattura tra alta cultura ed esperienza di massa indica che l’alta cultura potrebbe già essere un elemento di legittimazione del potere che genera aberrazioni e mostri.
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Bollettino culturale
Saturday, 23 November 2019 11:15
Quoting Mario Galati:
"Si scopre infatti che lo scarto tra forze e rapporti può trascendere la dialettizzazione dello stesso conflitto nella profilazione di condizioni di egemonia del potere e del biopotere". È troppo elevato il concetto per essere comprensibile, oppure è cabalistica la forma e il concetto abbastanza normale da poter espresso in lingua comune?
Se detto in altri termini il concetto è questo seguente: "ovvero si scopre che gli opposti hanno equivalente possibilità di vittoria (affermazione di una nuova società, quella comunista) e di sconfitta (esser negazione determinata e, perciò, reintegrata nel sistema, e in questa reintegrazione nel discorso capitalista si sono scritti fiumi di inchiostro, dalla macroeconomia nella critica a Keynes sino alla psicoanalisi)", già ci troviamo su un piano più chiaro, ma ugualmente contorto e prolisso per dire semplicemente che un movimento storico di forze sociali, pur in conflitto con le forze dominanti, non necessariamente è veramente alternativo, ma potrebbe muoversi nella logica, nella visione egemonica, delle forze che crede di combattere, venendo riassorbito, reintegrato e persino utilizzato da esse. Ma se penso alla riflessione e al linguaggio gramsciano circa la rivoluzione passiva e poi leggo cose di questo genere, mi viene istintivo mettermi le mani nei capelli.
In questo periodare c'è la solita caparbia convinzione che il socialismo realizzato non fosse altro che capitalismo. Il "produttivismo", l'"organizzazione" del lavoro (la "divisione" del lavoro), la logica "quantitativa" e chi più ne ha più ne metta. Non è un caso che in tutto ciò la concreta esperienza storica rappresenti solo un pretesto mai richiamato per dare la stura ad elucubrazioni (alcune condivisibili, come ha già detto Fabio, tra l'altro, e che sfondano una porta aperta) totalmemte sganciate dai problemi che tale esperienza ha posto dinanzi alle "soggettività" (per usare una terminologia che non amo) che vi hanno operato. In altri termini, l'Unione Sovietica doveva fare un balzo produttivo, industrializzarsi, armarsi, organizzarsi disciplinatamente, o doveva attendere inerme le orde hitleriane o democratico-liberali? Doveva mettersi al passo e servirsi della tecnica perfezionata dal mondo capitalistico borghese per costruire il socialismo e poi il comunismo o doveva partire dal nulla (poiché il nichilismo non è solo la posizione dinanzi al presente e all'avvenire, ma anche dinanzi al passato) e rifiutarla in nome della cosiddetta non neutralità della tecnica? L'URSS non doveva aumentare la produzione agricola servendosi di trattori, la produzione industriale guardando alla produzione capitalistica, la produzione di carri armati e di armi. No, avrebbe semplicemente dovuto limitarsi a negare con assolutezza (un pensiero che, tra l'altro, dimostra la completa subalternità a ciò che si intende combattere, poiché il soggetto riesce a concepirsi solo in negativo ed ha bisogno di reagire con un rifiuto dogmatico al preesistente, gettando via il bambino con l'acqua sporca. Tra l'altro se Bollettino Culturale riconosce alle classi dominanti la capacita di assorbire l'antitesi attraverso una rivoluzione passiva, non si capisce perché questa possibilità non debba essere riconosciuta ai rivoluzionari nella rivoluzione attiva)? Negare con assolutezza che cosa? Le comuni necessità umane? Negare con assolutezza è forse possibile, se non nella logica binaria, antidialettica, teologica manichea e persino infantile? Da quel che so nessun elemento parziale può essere assoluto, se non la stessa totalità; è l'abc della concezione dialettica. E totalità è anche quella storico-diacronica del genere umano.

A proposito, dove Bollettino Culturale ha letto che la fase socialista (dove ancora persiste la forma valore e lo scambio tra eguali ["altro che persistenza e persistenza!", dice con sicumera Bollettino Cultural[censored]) per Marx dovesse essere necessariamente "breve" grazie al "rivoluzionamento permanente? Aveva forse Marx prescritto "ricette per l'osteria dell'avvenire", stabilendone la tempistica? A me non risulta.
Infine, che la dialettica marxiana sia strettamente binaria e che sostanzialmente non accolga il concetto hegeliano di aufhebung è affermazione a mio avviso del tutto infondata. Si attribuisce a Marx una logica e una concezione solo apparentemente dialettica, in realtà rigida ed estranea alla concezione universalistica e totalitaria, anche sul piano storico-diacronico, dell'umanità. Sono interpretazioni del pensiero di Marx debitrici del postmodernismo, con la sua logica frammentaria ed escludente (pensiero binario, appunto).
Altro veloce appunto: "la legge del conflitto tra superamento e reintegrazione" sarebbe ciò che permea la riflessione del Capitale. Mi sembra che ciò valga all'interno del sistema del capitale. Bollettino Culturale, invece, la assolutizza perché la estende anche alle società socialiste realizzate, in quanto premette ciò che dovrebbe dimostrare, ossia, che esse non siano altro che espressioni capitalistiche. Il suo modo di ragionare metafisico e teologico, mentre abusa del concetto di processualitá, non ne concepisce concretamente alcuna di alternative, poiché la sua rivoluzione permanente non è altro, questo sì, un messianesimo camuffato.
P.S. "biopolitico", "performante": è lecito pensare che lo stesso linguaggio usato celi ascendenze postmoderniste e antimarxiane non dichiarate?


Caro Mario, andando in ordine:

1) Le prime 26 righe del Suo discorso, passate a discutere sulla mia prolissità, sono a loro volta ripetitive e inultilmente prolisse, oltre ad essere semplicemente inultili, esorbitando nel giudizio stilisitco e nell'ad personam: sotto questo aspetto, si può dire che voglia sfruttare un metodo eristico di confronto, basato sulla differenza di ripetizione linguistica e sulla sua affermatività a priori dal fatto che ciò che è stato detto e ciò che ho detto significhino la medesima cosa, solo ponendola in un sistema di assiologia minore. Similare la Sua dissertazione, tra il provocatorio e l'istrionico, su Gramsci e sulla terminologia gramsciana. In questo contesto, vedremo quanto si sia mai studiato Gramsci, sicchè invoca la Sua persona, elevandosi implicitamente a magister litterarum.

2) Il fatto della messa tra virgolette di parole come "divisione del lavoro", "indici di distribuzione" (forma valore) ecc rende bene la necessità di sorpassare le categorie marxiane di analisi per una dialettica totalmente referenziale e autofondante su precetti opinabili (quali l'incredibile sicurezza del fatto che nell'URSS non ci sia profitto se non "surplus non consumato immediatamente", ma d'altronde l'economia non è un'opinione, qua siamo direttamente al dramma farsesco): se la canta e se la suona di buona lena, ponendo sulla sua definizione di verità un metodo inferenziale tutto suo, alla cui dietrologia pone come giustificazione un'analisi economica corretta, se non fosse che la stessa si struttura su presupposti sostanziali del tutto falsi.

3) Sulle sue provocazioni sul senso della non neutralità della tecnica, vedo che si vacilla tra il delirio e l'ipocondria, secondo cui la semplice presa d'atto della non neutralità politica (che, come afferma Marcuse, non è non neutralità esecutiva, anzi, è neutralità amministrativa) varrebbe a dire tornare ad un paleoprimitivismo (quasi che la tecnè in senso lato sia entità storicamente determinabile) è praticamente una conclusione infantile o, peggio ancora, di falsa coscienza. L'ambito del nichilismo comporta una ricorsività nel e dal nulla, invece noi abbiamo appena detto che il marxismo ridefinisce la dinamica della riproduzione storica come pura processualità tra antagonismi, perciò su determinate questioni filosofiche consiglio, se non si è ferrati sui temi, di lasciare stare (conclusione che si riperquoterà nei prossimi punti). Visto che si è parlato di un Gramsci piangente, che si batte il petto per questioni di semantica e si strappa i capelli per le strutture frastiche, vorrei presentare una piccolissima particolarità del pensatore sardo a proposito della tecnica. La formazione del sapere non è una progressione lineare di tecniche conoscitive scisse dalla prassi sociale, ma è costituito da condotte e da abiti derivati dalle forme d i vita come loro estensione. Sicchè ogni modulo
conoscitivo nasce dall'interiorità di determinate forme di vita, mettere a confronto le istituzioni della filosofia con gli abiti della condotta scientifica fa perdere a quest'ultimi il loro valore fondazionalista, revocandogli gli elementi religiosi che fungono da detriti. Questo già Gramsci lo capì i: per lui, il progresso, la razionalizzazione dello strumento tecnico, non spiega nulla, esso è solo espressione di una necessità storica
all’idea della necessità storica propriamente detta nella dottrina moderna, egli sostituisce una concezione «ipotetica» della necessità come una data struttura dei rapporti di potere e quindi la smaschera nella sua presunta obbiettività ( nei rapporti sociali di produzione che prendono forma solamente nella politica come piano storico dei rapporti di forza , estrinsecazione dei rapporti di potere tra Infatti Gramsci investe
subito il concetto di scienza: “sono i concetti stessi di .scienza e tecnica', quali risultano dal Saggio popolare, che occorre distruggere criticamente;

essi sono presi di sana pianta dalle scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza per eccellenza, così come è stato fissato dal positivismo" . Lukacs, in comunella con Gramsci, capisce come la tecnica, oltre ad essere relativa dal punto di vista gnoseologico, è di per sè non solo prodotto di determinate relazioni sociali, ma è possibile che questa stessa diventi un soggetto storico ipostatizzato ed impersonale (conclusioni che si possono tranquillamente riferire sia alla parabola della pestilenza in Inghilterra presente ne La Sacra Famiglia, sia nei Grundrisse, nel People's Paper e nei Manoscritti del 44 desunti dalla produzione scritta marxiana, senonchè l'ipotesi di simmetrie di dominio orrizzontali già denunziate in nuce nei Quaderni dal Carcere di Gramsci quale evoluzione dell'egemonia dominante universalmente diffusa). Il pericolo della tecnica non si combatte eliminandola (sarebbe una contraddizione in termini), bensì limitando la sua azione: la forma capitalistica è quella di un invariante tecnico espresso in ogni ambito della vita dell'individuo, posto all'interno di uno schema di astrazione determinata ove il primo ad essere astratto ("astrattamente generale") è l'espressione stessa della natura genericamente sociale: il lavoro. Il marxismo non auspica la vittoria dell'ambito qualitativo, bensì del metron, dell'autonomia collettiva al di fuori dell'anarchia delle forze disciplinanti (in primis di mercato, come viene ben espresso nel primo libro del Das Kapital). Niente di più, niente di meno, non vedo dove ci sia il problema se non analizzare i rapporti tra ipostatizzazione tecnica ed indici di distribuzione sociale del lavoro totale. D'altronde, anche da Fabio viene detto in certo modo: il marxismo è comunque la progenie di un certo illuminismo, quello del kantiano "contro l'indifferenziato, per la misura dell'indifferente", ma è un illuminismo che distrugge la base di validità illuministica, l'autonomia del soggetto rispetto le strutture di determinazione ed espressione (sin dagli 11 punti è chiaro questo). E' il risultato critico, consapevole, di un certo illuminismo di stampo tedesco che viene usato contro se stesso. Non vedo nè ritorni al primitivismo nè alcun postmodernismo . P.S. Lo stesso postmodernismo a cui io sono associato per aver usato un termine, biopolitico, nato de facto prima del suo uso da parte dei post strutturalisti francesi con lo studio sull'ordoliberismo, già presente in Kalecki per criticare le tesi della scuola di Friburgo di Moeller e Ropke. Innanzitutto il termine è sostanzialmente neutro, fa riferimento infatti ad uno studio sul disciplinamento dei corpi in una condizione di amministrazione totale, niente di più e niente di meno. Confondere l'oggetto della disciplina con questioni a sè afferenti ma non centrali, come il concetto di micropotere o moltitudine, è dilettantismo speculativo. Il termine performante invece è già presente negli studi sulla natura della necessità sin dal '600; pensare che è usato dai commentatori di Spinoza dell'epoca sino al pragmatismo linguistico di Pierce passando per alcune scuole di psicologia e di neurolinguistica fa desistere dalla tentazione di aggregarlo agli studi sul postmoderno, che in realtà quasi mai ne fanno esplicitamente riferimento (il termine performante esplicitamente riferito a Marx lo ritrovai in alcune opere di autori non post strutturalisti quali Bensaid o Heller).

4) In merito alle sue disquisizioni sul concetto di dialettica, c'è molto da lavorare. Quando lei scrive "un pensiero che, tra l'altro, dimostra la completa subalternità a ciò che si intende combattere, poiché il soggetto riesce a concepirsi solo in negativo ed ha bisogno di reagire con un rifiuto dogmatico al preesistente", devo dire, crea un particolare frankestein filosofico. Se con questa sola asserzione posso pure trovarmi totalemente d'accordo (ed ho detto posso, perchè la sua genericità al contrario mi invita a distanziarmi dal Suo affermare vago), vorrei ricordarLe che, essendo poi io il cattivo postmoderno, Lei ha ricalcato per il primo momento pari passo la critica che fa Deleuze a Hegel. L'affermazione si commenta da sola....
Non si capisce dove si desume dal mio pensiero il fatto che elimini praticamente il soggetto rivoluzionario: a pari potenza della classe dominante di imporre una rivoluzione passiva reintegrando il fattore antagonista, così quest'ultimo ha in sè l'opportunità di vittoria nella lotta. Non si può però, limitatamente ai propri strumenti pratico-cognitivi, prevedere l'esito della lotta: l'unica cosa che si può affermare di sapere, come scrive Gramsci, è la necessità storica in senso ampio della lotta stessa. Passiamo alla "negazione con assolutezza", termine quantomeno errato (negazione assoluta è un termine ricorsivo in Marx, negazione con assolutezza sembra uscito dal teatro della rabbia di Osborne). Quando Marx parla di negazione assoluta ne parla proprio nei termini antitetici alla sua critica sopra citata. L'inconciliabilità dei momenti sta proprio nel fatto che negando qualcosa, la stessa negazione si crea come atto affermativo, non come la pura negazione che lei paventa. Vale il principio per il quale ogni differenza è una forma di negazione (“omnis determinatio est negatio”), allora ogni differente è per ciò stesso qualcosa di negativo; ma dunque anche il positivo, proprio in quanto si differenzia dal negativo, viene ad essere a sua volta negativo (appunto perché, in quanto differente dal negativo è non-negativo e cioè negativo nei confronti del negativo). Del resto quel principio (ogni differenza/determinazione è una negazione) è sempre stato assunto come indiscutibile, almeno nel senso che se x differisce da y allora x non è y, quanto meno in quanto non è identico ad esso. Cambiando i punti di prospettiva logica, in un sistema binario di momenti a valor equivalente l'un l'altro, il negativo diviene affermazione per l'altro e vice versa. La negazione assoluta sancisce tale inconciliabilità tra i momenti, che al contrario la sua negazione determinata, presupponente il modello di sintesi speculativa (interpretazione di Marx data da filosofi che non erano e sono propriamente marxisti, Gentile e Fusaro) come modello di conciliazione (sintesi nell'attualismo gentiliano che preconizza l'oggettivazione storica nel corporativismo e nella pace sociale). Lo stesso Gramsci, che ebbe forti influssi dall'neo idealismo italiano, parlerà di catena sintetica per evidenziare il suo stato di incompletezza (leggasi inconciliabilità) logica, come verrà poi a delinearsi nell'affermazione entro cui l'essere non sussume in sè il divenire e viceversa. Quando infatti si parla di sintesi, aufhebung, non si potrebbe manco parlare di momento inscritto nelle regole della prassi, bensì di mera cristallizzazione del reale come potenziamento dell'affermazione prima data dal momento negativo (perciò sua massima determinazione): si ricade in un codice finalistico e reazionario: il parzale non può essere assoluto? Vero, ma ne diviene il fulcro affermativo negando la negazione nella lotta con questa (ovvero facendo il vero Aufhebung), quindi apprezzando il primo momento.

Il limite, Grenze, diviene il cardine della nostra riflessione sul momento negativo di carattere assoluto per cui, attraverso la semplice assolutezza del Non pieno , il negare diviene Sich Abstossen von sich selbst , re pulsione sia attraverso l'interno che attraverso l'esterno: la potenza negante diviene foriera di nuove configurazioni affermative della realtà.
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Franco Trondoli
Friday, 22 November 2019 20:18
Grazie Caro Fabio della tua lettura, e della relativa risposta. Prendo atto di quello che dici. Cordiali Saluti
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Fabio
Friday, 22 November 2019 19:32
Caro Franco Trondoli
Certo , nessun autore ( Marx compreso ) deve essere trattato come un dogma, come un Testo Rivelato ; va invece sempre contestualizzato . Siamo ovviamente d’accordo. Fatta questa premessa, la questione dirimente su questa faccenda mi pare l’uso improprio dell’etichetta “anticapitalista” usata per connotare movimenti/idee rivoluzionarie , marxianamente intese. I comunisti ( e per me il termine “comunista” ha senso solo dal punto di vista marxiano ; altrimenti le parole non hanno più un senso intelligibile ) non sono “anti”- capitalisti , ma “oltre”- capitalisti. “Anti”- capitalista , a rigor di termini, possono essere considerati anche De Mestre, lo Zar Nicola I , il Mullah Omar e un militante qualsiasi di Forza Nuova ( questi sì antiilluministi ). I comunisti , rispetto alla società capitalista, si pongono su una posizione progressiva, non regressiva. Non buttano via il bambino con l’acqua sporca ( le ingiustizie , le diseguaglianze o le guerre notoriamente provocate dal modo di produzione capitalista ). A mio avviso anche noi ( come fa Marx nel Manifesto quando letteralmente esalta la funzione rivoluzionaria svolta dalla “borghesia” ) , e 170 anni dopo quel famoso capitalo del Manifesto , non possiamo non considerare anche i benefici prodotti dal capitalismo, se teniamo a mente le miserevoli condizioni morali e materiali in cui vivevano le masse proletarie nelle società preindustriali : assediate dalla fame, costrette a eseguire lavori massacranti, colpite dalle malattie endemiche (la tubercolosi, la sifilide, la malaria, etc), condannate all’ignoranza più totale e assoggettate alla tirannia del padrone di turno. Inoltre la sinergia fra tecnica, produttività, scienza, sapere, ha cancellato ( almeno nelle società industriali avanzate ) flagelli prima endemici come le carestie , le epidemie o la mortalità infantile ; ha cancellato l’analfabetismo, la superstizione premoderna , ha reso possibile la democratizzazione della fruizione dei prodotti dell’alta cultura ; ha universalizzato , almeno formalmente ( e non è poco ) i diritti (civili, politici e sociali). In breve, Marx e i comunisti , rispetto al capitalismo, si pongono su una posizione progressiva : eliminare solo l’acqua sporca.
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Mario Galati
Friday, 22 November 2019 18:26
Correggo questo periodo scorretto:
"Il suo modo di ragionare metafisico e teologico, mentre abusa del concetto di processualitá, non ne concepisce concretamente alcuna di alternative, poiché la sua rivoluzione permanente non è altro, questo sì, un messianesimo camuffato";
con questo corretto:
Il suo modo di ragionare metafisico e teologico, mentre abusa del concetto di processualitá, non ne concepisce concretamente alcuna, poiché la sua rivoluzione permanente non è altro, questo sì, che un messianesimo camuffato.
Poi,
riporto il mio commento alla nota di Bollettino Culturale del primo di ottobre su Sinistra in Rete: "Note critiche sull'autogestione".
In questo commento chiarisco un po' meglio ciò che penso sulla cosiddetta neutralità della tecnica e il suo rapporto con la dialettica:
"Certo, come no. Appena il proletariato sviluppa i suoi istituti e prende il potere politico chiude tutte le fabbriche e distrugge tutti i trattori, in quanto creature del demonio. Poi forma le Comuni e vive felice e contento.
Fuori dalle battute, la non neutralità della tecnica non vuol dire affatto che un ritrovato tecnico sia funzionale in sé stesso al sistema sociale che lo ha sviluppato. Pensare questo significa cadere nella logica che si intende criticare, poiché si assegna al ritrovato tecnico una sua essenza e non lo si considera in relazione al contesto in cui è sorto e
nel quale viene utilizzato. Cioè, in pratica sono gli stessi autori di questo articolo che danno alla tecnica la natura di una oggettività svincolata dalle relazioni sociali, che è il fondamento della concezione neutralista della tecnica. Non considerano che se varia il contesto varia anche la funzione dell'oggetto. È un'altra cosa, in quanto elemento di un diverso complesso di relazioni.
Lo stesso modo di ragionare non dialettico viene applicato alla categoria del salario. Il fatto esteriore della consegna al lavoratore di una quantità di denaro in cambio di una prestazione lavorativa (in fabbrica, per es.) in una economia collettivizzata senza capitalisti (lo stato come capitalista collettivo richiede comunque un contesto di economia
capitalistica, con l'esistenza di capitalisti) non consente di parlare di salario (Parlarne nel caso dell'Unione Sovietica, per es., non avrebbe alcun senso). Il salario è una categoria precisa. È assurdo parlare di salario senza profitto ( e non è certamente profitto il necessario surplus non consumato immediatamente dalla collettività produttrice).
Questa concezione è indicata da Marx espressamente. Non ricordo più se nella Critica dell'economia politica o nell'Ideologia tedesca.
Altro che incomprensione da parte di Lenin e del movimento comunista novecentesco! Essi avevano compreso benissimo la dialettica ed erano mille anni più avanti.
Dell'articolo condivido le osservazioni critiche sull'autogestione come forma difensiva ma non come modello di costruzione del socialismo, poiché riprodurrebbe rapporti mercantili, contrattuali di scambio, tra entità autogestite".
Concordo con Bollettino Culturale sul fatto che "è preferibile sapere di ciò che si sta parlando e dei termini specifici a suffragio della propria tesi piuttosto che cercare di far il saccente (o il furbo, o lo stupito) in merito ad argomenti di sin troppo ampio respiro, postulando logiche binarie entro cui ci si arroga la pretesa di porre Marx, pensatore che per la sua poliedricità supera di gran lunga le nostre semplici persone".
Non dubito che in futuro anche egli si atterrá a queste indicazioni.
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Mario Galati
Friday, 22 November 2019 17:52
"Si scopre infatti che lo scarto tra forze e rapporti può trascendere la dialettizzazione dello stesso conflitto nella profilazione di condizioni di egemonia del potere e del biopotere". È troppo elevato il concetto per essere comprensibile, oppure è cabalistica la forma e il concetto abbastanza normale da poter espresso in lingua comune?
Se detto in altri termini il concetto è questo seguente: "ovvero si scopre che gli opposti hanno equivalente possibilità di vittoria (affermazione di una nuova società, quella comunista) e di sconfitta (esser negazione determinata e, perciò, reintegrata nel sistema, e in questa reintegrazione nel discorso capitalista si sono scritti fiumi di inchiostro, dalla macroeconomia nella critica a Keynes sino alla psicoanalisi)", già ci troviamo su un piano più chiaro, ma ugualmente contorto e prolisso per dire semplicemente che un movimento storico di forze sociali, pur in conflitto con le forze dominanti, non necessariamente è veramente alternativo, ma potrebbe muoversi nella logica, nella visione egemonica, delle forze che crede di combattere, venendo riassorbito, reintegrato e persino utilizzato da esse. Ma se penso alla riflessione e al linguaggio gramsciano circa la rivoluzione passiva e poi leggo cose di questo genere, mi viene istintivo mettermi le mani nei capelli.
In questo periodare c'è la solita caparbia convinzione che il socialismo realizzato non fosse altro che capitalismo. Il "produttivismo", l'"organizzazione" del lavoro (la "divisione" del lavoro), la logica "quantitativa" e chi più ne ha più ne metta. Non è un caso che in tutto ciò la concreta esperienza storica rappresenti solo un pretesto mai richiamato per dare la stura ad elucubrazioni (alcune condivisibili, come ha già detto Fabio, tra l'altro, e che sfondano una porta aperta) totalmemte sganciate dai problemi che tale esperienza ha posto dinanzi alle "soggettività" (per usare una terminologia che non amo) che vi hanno operato. In altri termini, l'Unione Sovietica doveva fare un balzo produttivo, industrializzarsi, armarsi, organizzarsi disciplinatamente, o doveva attendere inerme le orde hitleriane o democratico-liberali? Doveva mettersi al passo e servirsi della tecnica perfezionata dal mondo capitalistico borghese per costruire il socialismo e poi il comunismo o doveva partire dal nulla (poiché il nichilismo non è solo la posizione dinanzi al presente e all'avvenire, ma anche dinanzi al passato) e rifiutarla in nome della cosiddetta non neutralità della tecnica? L'URSS non doveva aumentare la produzione agricola servendosi di trattori, la produzione industriale guardando alla produzione capitalistica, la produzione di carri armati e di armi. No, avrebbe semplicemente dovuto limitarsi a negare con assolutezza (un pensiero che, tra l'altro, dimostra la completa subalternità a ciò che si intende combattere, poiché il soggetto riesce a concepirsi solo in negativo ed ha bisogno di reagire con un rifiuto dogmatico al preesistente, gettando via il bambino con l'acqua sporca. Tra l'altro se Bollettino Culturale riconosce alle classi dominanti la capacita di assorbire l'antitesi attraverso una rivoluzione passiva, non si capisce perché questa possibilità non debba essere riconosciuta ai rivoluzionari nella rivoluzione attiva)? Negare con assolutezza che cosa? Le comuni necessità umane? Negare con assolutezza è forse possibile, se non nella logica binaria, antidialettica, teologica manichea e persino infantile? Da quel che so nessun elemento parziale può essere assoluto, se non la stessa totalità; è l'abc della concezione dialettica. E totalità è anche quella storico-diacronica del genere umano.

A proposito, dove Bollettino Culturale ha letto che la fase socialista (dove ancora persiste la forma valore e lo scambio tra eguali ["altro che persistenza e persistenza!", dice con sicumera Bollettino Culturale]) per Marx dovesse essere necessariamente "breve" grazie al "rivoluzionamento permanente? Aveva forse Marx prescritto "ricette per l'osteria dell'avvenire", stabilendone la tempistica? A me non risulta.
Infine, che la dialettica marxiana sia strettamente binaria e che sostanzialmente non accolga il concetto hegeliano di aufhebung è affermazione a mio avviso del tutto infondata. Si attribuisce a Marx una logica e una concezione solo apparentemente dialettica, in realtà rigida ed estranea alla concezione universalistica e totalitaria, anche sul piano storico-diacronico, dell'umanità. Sono interpretazioni del pensiero di Marx debitrici del postmodernismo, con la sua logica frammentaria ed escludente (pensiero binario, appunto).
Altro veloce appunto: "la legge del conflitto tra superamento e reintegrazione" sarebbe ciò che permea la riflessione del Capitale. Mi sembra che ciò valga all'interno del sistema del capitale. Bollettino Culturale, invece, la assolutizza perché la estende anche alle società socialiste realizzate, in quanto premette ciò che dovrebbe dimostrare, ossia, che esse non siano altro che espressioni capitalistiche. Il suo modo di ragionare metafisico e teologico, mentre abusa del concetto di processualitá, non ne concepisce concretamente alcuna di alternative, poiché la sua rivoluzione permanente non è altro, questo sì, un messianesimo camuffato.
P.S. "biopolitico", "performante": è lecito pensare che lo stesso linguaggio usato celi ascendenze postmoderniste e antimarxiane non dichiarate?
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Franco Trondoli
Friday, 22 November 2019 17:50
Quoting Fabio:
@Bollettino culturale.
"In ogni caso tutte le tue osservazioni non fanno di Marx un antilluminsta e antiprogressista. Sono i reazionari ad essere antiilluministi, non i comunisti . Per Marx il capitalismo costituisce una tappa necessaria e progressiva verso la società comunista. Da qui la sua insistenza verso “un grande incremento della produzione, poiché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi con il bisogno ritornerebbe il conflitto per il necessario e ritornerebbe la vecchia merda”.
.Caro Fabio, scusami se mi permetto. Non posso non scriverti quello che penso. Se hai ragione Tu, allora per me, ha torto sicuramente Marx. Io non posso sapere se Marx ha ragione o torto in assoluto. Non credo che la questione debba essere in questi termini. Marx e' stato un Grande Studioso del suo tempo nel suo tempo. Sta a noi cercare di farne un uso positivo, critico e non dogmatico. Ognuno con le sue "piccole" o "grandi" possibilità. Ecco io non sono d'accordo con quanto dici in quello che ho "quotato". Non so' fino a che punto si possa dire di Marx se sia Illuminista e progressista, oppure no. Si potrebbe anche presumere, visto il tempo che ha vissuto, che lo fosse. È qui che ho i miei dubbi, nel suo processo storico, ll Capitalismo, e la Borghesia, sono stati Illuministi e progressisti; e lo sono ancora oggi !. E non si può dire che siano state, in ultima analisi, delle buone cose. A parte la" Borghesia" che non si sa bene cosa sia diventata. Ma e' un'altro tema. Per finire; perdonami, ma l'ultimo capoverso e' proprio la prova provata dell'eterogenesi dei fini. "Un grande incremento della produzione....ecc". Mi sembra evidente che, allo stato attuale del processo capitalistico, la" nuova merda" sia e possa diventare, paradossalmente, addirittura peggio della "vecchia merda". Almeno a me sembra così. Insomma se il problema e' fare la rivoluzione, non si vede perché non si poteva fare anche prima, senza il passaggio nel Capitalismo, visto appunto che si è partiti dalla cacca per ,alla fine, ritornarci. Per questo credo che le questioni per lo studio delle società umane e del genere umano siano piu complesse. La "catarsi rivoluzionaria", sono sincero, non la vedo proprio. Vedo dei processi lunghi, difficili e tragici, quelli si. Non possiamo prevederli nel dettaglio. Sappiamo solo che dobbiamo starci dentro. Specialmente i giovani. Che devono ragionare con la propria testa , e non farsi illusioni. Essere Pragmatici, sapendo che sono dentro l'Oceano in tempesta, ma devono salvarsi la vita. Prima di tutto. Scusami. In bocca al lupo.
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Fabio
Friday, 22 November 2019 15:07
@Bollettino culturale
Si, nessuna rivoluzione generica come se fosse fissata nei termini di una causazione lineare dello sviluppo capitalistico ( non a caso Marx ed Engels precisano, nel Manifesto, che “ogni lotta di classe è una lotta politica” : per loro , perché vi sia lotta di classe è necessaria una produzione di soggettività capace di trascendere le basi materiali da cui essa in ogni caso trae fondamento ). Quindi alcune tue osservazioni sono condivisibili oltre che apprezzabili ( ad es. la funzione di controllo e di rivoluzione passiva delle politiche keynesiane ecc ) ; su altre se ne può discutere ( ad es. sulla dialettica marxiana ) ; altre le respingo ( ad es. per me Michea c’entra poco con Marx e molto di più con i rossobruni ).
In ogni caso tutte le tue osservazioni non fanno di Marx un antilluminsta e antiprogressista. Sono i reazionari ad essere antiilluministi, non i comunisti . Per Marx il capitalismo costituisce una tappa necessaria e progressiva verso la società comunista. Da qui la sua insistenza verso “un grande incremento della produzione, poiché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi con il bisogno ritornerebbe il conflitto per il necessario e ritornerebbe la vecchia merda”.
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Bollettino culturale
Friday, 22 November 2019 06:54
Quoting Fabio:
Chiedo a Bollettino culturale in senso , "da comunisti", bisognerebbe "abbandonare l'illuminismo e la metafisica del progresso".
Nel Manifesto Marx esalta la rivoluzione in permanenza generata dalla espansione planetaria del modo di produzione capitalistico . Marx vede nello sviluppo delle forze produttive la vera rivoluzione, quella che modifica radicalmente le condizioni materiali di vita delle classi proletarie.


Caro Fabio, la tua asserzione è completamente corretta, è solamente doveroso integrarla in modo tale da non scadere in metanarrazioni che, tra il faceto e falso,sono affette sia dallo storicismo hegeliano e dall'altra il finalismo cristiano del paradiso terrestre prossimo al giudizio divino. In primis, la rivoluzione non è espressione di un mero sviluppo delle forze produttive, è in realtà la conseguenza del conflitto tra la processualità di sviluppo delle forze e i rapporti strutturali di produzione. Ergo, bisogna caratterizzare l'espansione del modo di produzione capitalistico quale espansione di una condizine di astrazione storicamente determinata espressiva della forma valore: tale visione non permette e premette di per sè progresso alcuno se visto sotto il punto di vista della necessità prescrittiva. Si scopre infatti che lo scarto tra forze e rapporti può trascendere la dialettizzazione dello stesso conflitto nella profilazione di condizioni di egemonia del potere e del biopotere, ovvero si scopre che gli opposti hanno equivalente possibilità di vittoria (affermazione di una nuova società, quella comunista) e di sconfitta (esser negazione determinata e, perciò, reintegrata nel sistema, e in questa reintegrazione nel discorso capitalista si sono scritti fiumi di inchiostro, dalla macroeconomia nella critica a Keynes sino alla psicoanalisi). Si scopre infatti che parlare di sviluppo delle forze produttive ha un'accezione sia estensiva (quantitativa) che intensiva (qualitativa, presa del per-sè), e che l'una può scindersi dall'altra sotto il profilo di diacronia storica, e può portare alla giustificazione di politiche quali il keynesianesimo, ben analizzate da Kaleki e Mattick nella loro funzione di controllo e di rivoluzione passiva. Si scopre che i "crolli verticali" dell'economia capitalistica, seppur sempre più devastanti (vedasi crollo delle dot.com e, poi, la crisi del 2008 sui subprime), non portano automaticamente al fenomeno rivoluzionario nei momenti di congiuntura storica, bensì in assenza del soggetto politico cosciente (leggasi poichè eterodiretto) riescono a autoriprodurre il meccanismo capitalista nella stessa meccanica che Hilferding trovò nel suo commento alle tabelle di riproduzione allargata del secondo libro del Capitale. Allo stesso tempo però, si scopre come questa sia una pura illusione, quella che dal finito possa derivare l'infinitezza quantitativa tanto criticata da Marx nei Grundrisse e nel discorso per il People's Paper del 1856; lo stesso aumento di volume della riproduzione allargata che alcuni compagni vorrebbero tacere (poichè, per loro, naturale nel capitalismo e, dirimpetto, nel cambio di invariante storico socialista, e questo è la conseguenza economica di un finalismo teologico), non capendo come fenomeni quali il produttivismo siano da associare a quell'anarchia di mercato che tanto Marx critica nel Das Kapital vol.1 sez.1 e che oppone una organizzazione razionale da imporre come distruttrice dei rapporti su cui essa stessa si è creata. Per fortuna ci soccorre Marx che, al contrario dei molti, capì queste problematiche in nuce: in effetti la dialettica marxiana non accetta conciliazione, è strettamente binaria, è la dialettica della "absulute negativitat" (leggasi negazione inconciliabile) in cui il soggetto dello sviluppo storico non è la legge della sintesi (come molti marxisti vorrebbero far credere, il naturale processo storico di arricchimento della determinazione del Capitale mediante la sua negazione e il suo superamento in un nuovo stadio dialettico), bensì è la legge del conflitto tra superamento e reintegrazione che permea l'andamento della trattazione marxiana sino ai caratteri tendenziali delle leggi di dinamica intima (caduta TENDENZIALE del saggio di profitto), i quali presuppongono l'argomento della lotta sul cui risultato non ci possono essere previsioni. Il marxismo invita ad una necessità di tipo performante, BISOGNA FARE, non DOVRA' ESSERE NATURALMENTE, ovvero è l'invito all'azione diretta in un'orizzonte dove il militante sa di salire sul treno della lotta senza sapere con certezza il proprio destino, la propria destinazione, se non sfruttarne i nodi storici per l'azione politica ottimale: socialismo o barbarie?

Con una battuta, dico che è preferibile sapere di ciò che si sta parlando e dei termini specifici a suffragio della propria tesi piuttosto che cercare di far il saccente (o il furbo, o lo stupito) in merito ad argomenti di sin troppo ampio respiro, postulando logiche binarie entro cui ci si arroga la pretesa di porre Marx, pensatore che per la sua poliedricità supera di gran lunga le nostre semplici persone. Posso solo dire questo, il Suo preferire la metafisica conciliativa hegeliana o il meccanicismo deterministico tipico di un certo positivismo (abbastanza legato ad una visione cristiana, tanto che mi sembra citare l'Apocalisse e l'imperante giudizio divino precedente ad un mondo migliore) ed il suo abortire le logiche del regresso e del nichilismo sono affar suo che a me non interessano nè garbano, vada a speculare di teologia con i vescovi e di eterno ritorno con alcuni postmoderni. Credere in un Marx non fatalista è come chiederle di comprendere un Marx di inedita natura nietzscana? Mai chiederò una cosa del genere, poichè frutto di un distinguo completamente figlio della disinformazione filosofica. L'unica cosa che possiamo dire in Marx, è che la storia è atto, è produzione continua e, perciò, mera, sola ed unica processualità: non esistono nè metanarrazioni di paradisi terrestri nè un nulla su cui ricade l'eterno ritorno degli enti come giustificazione del proprio nichilismo. In Marx esiste la lotta, che è una lotta tra termini pari (sennò non esisterebbero nè caratteri di performatività nella necessità storica, nè leggi tendenziali, nè caratteri assoluti posti in negazione - vedasi Ideologia Tedesca). Ed è proprio tale lotta che non permette di determinare facilmente il suo fine. Il """""mangiare deinde filosofare"""" della sua asserzione viene proprio tratto da un pensatore che, ancor prima di Feuerbach e dei materialisti volgari francesi, capisce come da una parte il finalismo e dall'altra il nulla siano termini adatti ad un pensiero tipico della vana religio (che Marx attaccò quale oppio dei popoli vorrei ricordare), ovvero Baruch Spinoza, che esprime una frase di contenuto simile, Primum vivere deinde philosophari espressa e parafrasata nel Trattato sull'Emendamento dell'Intelletto dello Stesso (si parla tralaltro di un autore, Spinoza, su cui Marx scrisse un'interessante tesi tra il suo periodo giovanile e la sua maturità e che non viene molto ricordata, forse perchè non ancora diffusa con una traduzione italiana). Per il resto, le sue sono solo provocazioni, oltre all'appellarsi a due fasi storiche di carattere ipotetico che, già in Critica al Programma di Gotha, vengono espresse come ipotesi basate sulle condizioni strutturali del tempo (dalle cui contraddizioni Marx prontamente vuole togliersi d'impiccio assurgendo al carattere perennemente rivoluzionario della breve fase socialista per estinguerle, cambiando in esso radicalmente la forma valore e non facendo inglobare le strutture in un flusso di accumulazione mondiale dove solo le variabili econometriche cambiano, che persistenza e persistenza!). Il Laudatio Temporis Acti è una disciplina che riesce bene ad un neoclassicista, non ad un socialista scientifico. In tal senso Marx esprime proprio cosa vuol dire "non prescrivere ricette per l'osteria dell'avvenire", ovvero affermando che ciò che bisogna fare, se si può programmare in un tempo circoscritto, non lo si può programmare come missione storica: la sua pianificazione è in negativo, cosa non bisogna fare, contro che logiche, che forme bisogna lottare.
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Mario Galati
Thursday, 21 November 2019 20:46
Dimenticavo di aggiungere che Bollettino Culturale fa una certa confusione tra socialismo e comunismo (o tra prima e seconda fase del comunismo), altrimenti non troverebbe alcuna contraddizione nella persistenza della forma valore. E pensare che avevo espressamente sottolineato questa condizione.
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Mario Galati
Thursday, 21 November 2019 20:36
Ho risposto alle obiezioni di Bollettino Culturale in un commento ad una sua nota. Evito di ripetermi. Con una battuta, dico che è preferibile la "metafisica" "storicistica" "finalistica" ed "economicistica" del progresso (quella che consente il gesto più metafisico del mondo: mangiare, deinde filosofare) a quella del regresso o del nichilismo. Con un'altra battuta, mi riesce difficile pensare che nel comunismo, per misurare il tempo, non si useranno gli orologi, prodotti della tecnica capitalistica; evidentemente torneremo alla clessidra o a metodi più naturali, come la posizione del sole, in attesa che la tecnica comunista soppianti le diavolerie capitalistiche.
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Bollettino Culturale
Thursday, 21 November 2019 20:18
Quoting Fabio:
Chiedo a Bollettino culturale in senso , "da comunisti", bisognerebbe "abbandonare l'illuminismo e la metafisica del progresso".
Nel Manifesto Marx esalta la rivoluzione in permanenza generata dalla espansione planetaria del modo di produzione capitalistico . Marx vede nello sviluppo delle forze produttive la vera rivoluzione, quella che modifica radicalmente le condizioni materiali di vita delle classi proletarie.


Significa rinunciare ad una direzione della storia e all'idea di progresso come la intendono molti a sinistra che vedono qualsiasi novità come un passo verso la giusta direzione della storia.
Significa anche ammettere che il capitalismo e il suo progetto di società non era necessario all'umanità per emanciparsi.
Questo è il discorso che fanno pensatori come Michea oppure la Critica del valore di Kurz.
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Fabio
Thursday, 21 November 2019 20:01
Chiedo a Bollettino culturale in senso , "da comunisti", bisognerebbe "abbandonare l'illuminismo e la metafisica del progresso".
Nel Manifesto Marx esalta la rivoluzione in permanenza generata dalla espansione planetaria del modo di produzione capitalistico . Marx vede nello sviluppo delle forze produttive la vera rivoluzione, quella che modifica radicalmente le condizioni materiali di vita delle classi proletarie.
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Bollettino Culturale
Thursday, 21 November 2019 19:06
Quoting Mario Galati:
Bollettino Culturale, bontà sua, è così magnanimo da degnarsi di confrontarsi anche con noi "stalinisti" e ci suggerisce la lettura di Bettelheim. Bene, io gli consiglio la lettura di Marx, così forse capirà che il salario e la divisione del lavoro in una economia collettivizzata non sono più tali (prodigi della dialettica, questa concezione a quanto pare misteriosa per Bollettino Culturale), che la tecnica e l'organizzazione di fabbrica in se stesse non sono essenze del capitalismo e che a giustificare l'esistenza della legge del valore e degli scambi mercantili in una società socialista (e sottolineo socialista) Stalin ha avuto un illustre predecessore non sospettabile di stalinismo, ovvero, Carlo Marx.


La forma valore capitalistica è indice di distribuzione e divisione del lavoro sociale totale. Come può esistere allora in una società dove è nominalmente superata pur mentendosi nella propria formalità?
Poi parla di "prodigi della dialettica" da materialista dialettico, ovvero una catena della finitudine sintetica che ha un fine e una direzione.
Ancora quindi il binomio storicismo-economicismo.

Da criticare anche la sua concezione della tecnica come elemento neutrale e non come prodotto dei rapporti di classe di una determinata società. Anche l'orologio che ha in casa è un prodotto della società capitalista e della sua volontà di razionalizzare il tempo in nome della produzione di merci.
Dobbiamo contestare da comunisti la società produttrice di merci e abbandonare l'Illuminismo e la metafisica del progresso, poiché alla base di ogni concezione borghese del mondo.
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Mario Galati
Thursday, 21 November 2019 08:48
Bollettino Culturale, bontà sua, è così magnanimo da degnarsi di confrontarsi anche con noi "stalinisti" e ci suggerisce la lettura di Bettelheim. Bene, io gli consiglio la lettura di Marx, così forse capirà che il salario e la divisione del lavoro in una economia collettivizzata non sono più tali (prodigi della dialettica, questa concezione a quanto pare misteriosa per Bollettino Culturale), che la tecnica e l'organizzazione di fabbrica in se stesse non sono essenze del capitalismo e che a giustificare l'esistenza della legge del valore e degli scambi mercantili in una società socialista (e sottolineo socialista) Stalin ha avuto un illustre predecessore non sospettabile di stalinismo, ovvero, Carlo Marx.
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Paolo Selmi
Thursday, 21 November 2019 07:54
Cari compagni
intervengo solo per una segnalazione. Domenica sono stato alla presentazione del libro di Hans Modrow, La perestrojka e la fine della DDR, Sesto S. Giovanni, Mimesis Edizioni, 2019 con l'Autore, ultranovantenne e ancora molto lucido nelle analisi. Segnalo questo testo perché, sia pur tardivamente e colpevolmente tradotto quest'anno (l'originale uscì nel 1998), rappresenta un elemento molto utile di informazione. Sulla base di quanto testimoniato nel libro e dall'Autore, a distanza di oltre vent'anni dalla pubblicazione dell'originale, lo spartiacque simbolico fu il muro, ma lo spartiacque vero, quello che fece crollare il tutto, fu la cosiddetta Perestroika, a ben vedere neppure "cosiddetta", perché in effetti fu una "ricostruzione" (trad. letterale), ma del capitalismo.
Scappo
a tutti una buona giornata.
Paolo
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Franco Trondoli
Wednesday, 20 November 2019 23:29
Dico ancora questo. Poi non scriverò più. O si studia, o niente. Sono un signor nessuno. Come posso aver la pretesa ,"platonica" , di "competere" per l'analisi di fatti ed idee così complessi come il capitalismo ed il comunismo ?. Paradossalmente ,potenza del web e della democrazia se vogliamo. Non vedo rivoluzioni e soggetti rivoluzionari. Se e' vero che il capitalismo si è sviluppato in tutto il mondo, e per questo inizia la sua fase invertita di progressiva implosione, e' possibile che il "crollo progressivo" appunto, sia già iniziato. Il "crollo" non è un taglio secco, su tutto un'unico piano. Ma un effetto zigzag. Su più piani ed in modi e intensità diverse. Con possibili alti e bassi. Rotture e tagli parziali, mai definitivi entro un certo ragionevole tempo. Ecco , il punto e' proprio questo: governare l'ingovernabile. Ma in che modo ?. Ora sono in accordo con questa idea: forse ci riuscirà chi saprà governare in maniera cibernetica ; come fa il timoniere con il timone della nave con tutto l'equipaggio. Assecondare il mare, piegarne i flutti solo nella misura in cui ci si lascia piegare da loro. Letteralmente "barcamenarsi". Non avendo illusioni sul "politico". Si pensava che l'arte della politica sia l'arte del possibile. Non e' vero; per il politico nessun possibile e' mai davvero dato. La sua azione e' sempre obbligata. Cordialmente
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Bollettino Culturale
Wednesday, 20 November 2019 19:53
Quoting michele castaldo:
Caro compagno del Bollettino,
il Comunismo non è un modello di rapporti sociali in concorrenza con il capitalismo, perché è un movimento storico del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione.
Per tutto il '900 c'è stata una disputa sulla possibilità che il Comunismo potesse abbattere il capitalismo attraverso una rivoluzione del proletariato. Una tesi che Gramsci più di molti altri espresse all'indomani della rivoluzione del '17 in Russia.
La storia ci ha dato torto - aveva già detto Engels ed io oggi con lui - ed ha dimostrato che il capitalismo non è un modello di rapporti sostituibile con un'altro modello, ma è un movimento storico e come tale deve esaurire ogni possibilità di riprodursi.
La mia tesi è che siamo entrati nella fase in cui il capitalismo - come movimento ripeto - va esaurendo in modo definitivo la possibilità di riprodursi e si affaccia l'ipotesi non ideologica ma reale di costruire sulle sue ceneri un Nuovo e perciò diverso rapporto degli uomini con i mezzi di produzione.
Capisco che si tratta di una impostazione molto diversa da quella novecentesca sulla quale ci siamo formati, ma questo è. Ne prendiamo atto e sviluppiamo la nostra azione teorica e politica in quella direzione.
Ti ringrazio per aver commentato la mia nota.
Michele Castaldo


Mi ricorda molto l'analisi fatta da Robert Kurz, la ritengo sicuramente interessante ma fatico ad accettare una visione che contempla la teoria del crollo del capitalismo senza l'azione di un soggetto rivoluzionario.
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Bollettino Culturale
Wednesday, 20 November 2019 19:47
Quoting Mario Galati:
Ai commentatori dico: continuate pure a cercare il socialismo e il comunismo nel mondo iperuranio e non nel movimento storico reale e nell'esperienza della storia. Sarebbe un esercizio innocuo se non fosse per la sua valenza fuorviante e perché tende ad impedire l'uso corretto della categoria storico-universale umana dell'apprendimento.
Continuate pure a scambiare lucciole per lanterne, così da credere sufficientemente illuminata la notte della ragione, nella quale tutte le vacche sono nere e rimangono tali alla flebile luce delle lucciole..
Al Collettivo, autore di questo buon articolo, che si dissocia dagli elogi espressi a I. Stalin, dico che questa dissociazione non intacca minimamente gli elogi a Stalin, i quali stanno nelle cose e nelle vicende richiamate.


Guardi, io sono aperto al confronto franco anche con voi stalinisti. Vorrei sapere di quale socialismo stiamo parlando.
Un modo di produzione in cui il salario resta tale come la divisione sociale del lavoro e quell'infame sistema di irreggimentazione degli uomini che è la fabbrica, nel nome della neutralità della tecnica.
Stalin ha sempre cercato di giustificare l'esistenza della legge del valore e degli scambi mercantili in quello che lui grosso modo definiva il socialismo.
Proprietà statale che diventa la proprietà di tutto il popolo, perché le classi non esistono più, ma che non lo gestisce realmente perché esiste un esercito di tecnici che comanda e riproduce i rapporti di potere e di produzione del capitalismo sotto la bandiera rossa.
Le consiglio vivamente di leggere "Le lotte di classe in URSS" di Charles Bettelheim .
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michele castaldo
Wednesday, 20 November 2019 19:42
Caro compagno del Bollettino,
il Comunismo non è un modello di rapporti sociali in concorrenza con il capitalismo, perché è un movimento storico del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione.
Per tutto il '900 c'è stata una disputa sulla possibilità che il Comunismo potesse abbattere il capitalismo attraverso una rivoluzione del proletariato. Una tesi che Gramsci più di molti altri espresse all'indomani della rivoluzione del '17 in Russia.
La storia ci ha dato torto - aveva già detto Engels ed io oggi con lui - ed ha dimostrato che il capitalismo non è un modello di rapporti sostituibile con un'altro modello, ma è un movimento storico e come tale deve esaurire ogni possibilità di riprodursi.
La mia tesi è che siamo entrati nella fase in cui il capitalismo - come movimento ripeto - va esaurendo in modo definitivo la possibilità di riprodursi e si affaccia l'ipotesi non ideologica ma reale di costruire sulle sue ceneri un Nuovo e perciò diverso rapporto degli uomini con i mezzi di produzione.
Capisco che si tratta di una impostazione molto diversa da quella novecentesca sulla quale ci siamo formati, ma questo è. Ne prendiamo atto e sviluppiamo la nostra azione teorica e politica in quella direzione.
Ti ringrazio per aver commentato la mia nota.
Michele Castaldo
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Mario Galati
Wednesday, 20 November 2019 19:33
Ai commentatori dico: continuate pure a cercare il socialismo e il comunismo nel mondo iperuranio e non nel movimento storico reale e nell'esperienza della storia. Sarebbe un esercizio innocuo se non fosse per la sua valenza fuorviante e perché tende ad impedire l'uso corretto della categoria storico-universale umana dell'apprendimento.
Continuate pure a scambiare lucciole per lanterne, così da credere sufficientemente illuminata la notte della ragione, nella quale tutte le vacche sono nere e rimangono tali alla flebile luce delle lucciole..
Al Collettivo, autore di questo buon articolo, che si dissocia dagli elogi espressi a I. Stalin, dico che questa dissociazione non intacca minimamente gli elogi a Stalin, i quali stanno nelle cose e nelle vicende richiamate.
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Bollettino culturale
Wednesday, 20 November 2019 18:39
Michele, è largamente condivisibile la tua analisi.
È giusto considerare quei modi di produzione come delle forme di capitalismo, come ha spiegato bene Charles Bettelheim.
È giusta anche l'interpretazione dell'accumulazione di recupero a cui sembri accennare.
Però non capisco proprio l'ultima frase che sembra proporre un'impostazione economicista, quella del socialismo preceduto dal piano sviluppo delle forze produttive del capitalismo o dal suo crollo spontaneo.
Non mi convince perché nega l'esistenza di un soggetto rivoluzionario che si incarichi attraverso un'azione politica di una lenta transizione al socialismo.
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michele castaldo
Wednesday, 20 November 2019 16:24
Il modo peggiore per difendere una causa, la nostra causa, è negare l'evidenza dei fatti.
Il muro di Berlino fu voluto innanzitutto dall'Urss perché si temeva che l'Occidente potesse - con i suoi livelli di sviluppo e di consumo -agire come cavallo di Troia in un mondo, quello del socialismo reale, che aveva assoluta necessità di centralizzare le proprie risorse e ripartire dopo una sanguinosissima guerra. Questo tentativo di mettersi al passo con l'Occidente fu interpretato e fatto vivere come un modello alternativo al capitalismo, mentre si trattava di una legittima aspirazione dei paesi dell'Est di partecipare a pieno titolo a un movimento generale dell'umanità che Marx aveva definito modo di produzione capitalistico.
Che l'Urss abbia avuto, con i paesi della sua sfera di influenza, un rapporto completamente diverso rispetto a quello degli Usa è fuori discussione. Il punto in questione non è questo, ma la definizione del "modello" economico, sociale e politico, che per molti era definito socialismo.
Se continuiamo a difendere quel modello come modello socialista della società non ci dobbiamo poi meravigliare se i democratici tendono a deriderci perché sconfitti.
La verità è esattamente l'opposto: non è stato sconfitto il socialismo e meno ancora il comunismo, no, ma è stata superata una fase storica di alcuni paesi che hanno dovuto fare di necessità virtù per non essere schiavizzati dall'Occidente, centralizzando al massimo grado le risorse e lo sviluppo economico. E se questi paesi si sono autodefiniti socialisti o comunisti, questo va ascritto tutto a merito del socialismo e del comunismo, teorie che comunque si rifacevano e tuttora si rifanno alla lotta degli oppressi e sfruttati.
Il nostro errore non consiste nel difendere l'azione di quei paesi, no, il nostro errore consiste nel voler mostrare al mondo un modello di rapporti sociali che erano e sono capitalistici e li vogliamo spacciare per socialisti e/o comunisti. Il comunismo non può convivere con il capitalismo semplicemente perché si genererà dalle sue ceneri. Questa è la vera questione.
Michele Castaldo
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