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trad.marxiste

‘Tutto il potere ai Soviet!’, parte sesta

Il carattere della Rivoluzione russa: il Trotsky del 1917 contro quello del 1924

di Lars T. Lih

trotsky c1917Nell’aprile del 1917, Georgii Plekhanov – venerando esponente della socialdemocrazia russa, ma in quel momento confinato nell’ala “difensista” dello spettro socialista – scriveva una coppia di articoli che, per una via inaspettata e sorprendente, sono divenuti la base dell’odierna narrazione del “riarmo” dei bolscevichi durante la rivoluzione. In questi articoli, Plekhanov formulava le seguenti asserzioni:

1. Nelle sue Tesi di aprile, Lenin proclamava il carattere socialista della Rivoluzione russa.

2. Così facendo, Lenin sottovalutava la natura arretrata della società russa.

3. La nuova posizione assunta da Lenin costituiva un’esplicita rottura rispetto all’ortodossia marxista da lui stesso propugnata in precedenza.

4. Affermare il carattere socialista della Rivoluzione russa rappresentava una necessità logica per chiunque sostenesse il trasferimento del vlast (l’autorità politica sovrana) ai soviet.

5. Il riconoscimento della natura democratica-borghese della rivoluzione implicava logicamente il sostegno al Governo provvisorio.

Queste cinque proposizioni sono ortodossia assolutamente incontrovertibile per la maggioranza degli autori, tanto accademici quanto militanti, che si occupano di Rivoluzione russa. Curiosamente, tuttavia, lo stesso Lenin respinse ognuna di queste affermazioni.

In un articolo rivolto contro Plekhanov, pubblicato sulla Pravda il 21 aprile, Lenin sottolineava che “se i piccoli proprietari costituiscono la maggioranza della popolazione e se non esistono le condizioni oggettive per il socialismo, come può la maggioranza della popolazione dichiararsi a favore del socialismo?! Chi può dire e chi dice di introdurre il socialismo contro la volontà della maggioranza?!”. Fatto cruciale, Lenin asseriva che la via verso il potere al soviet era cionondimeno dettata dalla natura democratica della rivoluzione: “Com’è allora possibile , senza tradire la democrazia, pur intesa alla maniera di Miliukov, pronunciarsi contro la «conquista del vlast politico» da parte della «massa lavoratrice russa»?” (Si veda il quinto post di questa serie, “‘Una questione fondamentale: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile’”).

Lenin non era il solo bolscevico di spicco a dare addosso a Plekhanov. Nell’agosto del 1917, Lev Trotsky dedicava un articolo alla demolizione della “sociologia plekhanovita”. Secondo Trotsky, l’argomentazione di Plekhanov veniva utilizzata dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari come debole scusa per il rifiuto di sostenere il potere del soviet: essendo questa una rivoluzione democratica, dobbiamo forse garantire ai partiti borghesi una maggioranza di governo in alcun modo giustificata dal loro effettivo sostegno popolare. O, come riassumeva sarcasticamente Trotsky “il vero motto dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi”: “Al diavolo la democrazia! Lunga vita alla sociologia plekhanovita!”.

Poiché sia Lenin che Trotsky si presero la briga di confutare Plekhanov, dobbiamo chiederci: in quale modo la caricatura della loro posizione fatta da quest’ultimo ha finito per risultare così accurata e incontrovertibile? La risposta è semplice: nel 1924, Trotsky compiva un voltafaccia, finendo per sostenere saldamente la “sociologia plekhanovita”. Nel suo breve volume Le lezioni d’ottobre, martellava sull’affermazione secondo la quale chiunque avesse definito la rivoluzione come “democratica-borghese” si trovava logicamente impossibilitato a sostenere la via del potere al soviet. Così – in maniera abbastanza sorprendente – Plekhanov, canalizzato da Trotsky (1924), poneva le basi per l’odierna ortodossia del “riarmo del partito”.

Le lezioni d’ottobre apparve per la prima volta come saggio introduttivo a un edizione in due volumi di discorsi, articoli e altri scritti di Trotsky risalenti al 1917 e ai primi del 1918. Sebbene tali scritti siano una miniera di materiali circa il dramma politico in questione, non sono a conoscenza di alcuna analisi approfondita che li riguardi (e ciò include le principali biografie, ovvero quelle di Isaac Deutscher, Tony Cliff e Pierre Broué) [1]. Sto lavorando a un esame su larga scala di questo materiale, e il presente post può considerarsi come un’anticipazione di tale sforzo più ampio. Per quanto in questo breve saggio mi concentri su un solo articolo, posso confermare che l’argomentazione di Trotsky in esso formulata è del tutto coerente con le sue altre dichiarazioni del 1917.

I testi dei pertinenti articoli di Lenin e Plekhanov sono disponibili in appendice alla parte quinta di questa serie. In calce al presente post viene data una nuova traduzione dell’articolo di Trotsky del 1917 intitolato “Il carattere della Rivoluzione russa”. Dopo aver fornito un commento a quest’ultimo testo, rivolgerò la mia attenzione al Trotsky del 1924 al fine di documentarne il drammatico cambio di posizione. In tal modo, il lettore interessato sarà pienamente in grado di giudicare la validità della mia interpretazione.

 

1917, Trotsky confuta Plekhanov

Nell’agosto 1917, Trotsky si trovava in prigione a seguito di un giro di vite repressivo nei confronti dei bolscevichi attuato dal Governo provvisorio. Questa pausa forzata gli permise di scrivere qualcosa di più esteso rispetto ai discorsi e agli appelli che avevano costituito la maggior parte della sua produzione nel 1917. Il risultato fu il pamphlet Dopo i giorni di luglio: cosa succederà? Una sezione di questo scritto, intitolata “Il carattere della Rivoluzione russa”, attaccava la “sociologia plekhanovita”, ovvero, l’argomentazione di Plekhanov circa la natura “borghese” della Rivoluzione russa originariamente avanzata in aprile. Verso la metà di agosto, tale argomentazione era divenuta luogo comune retorico, non solo tra i socialisti moderati come Fedor Dan, leader menscevico, ma persino fra i liberali come Pavel Miliukov.

Trotsky scrisse il suo articolo immediatamente dopo la Conferenza di Mosca (anche nota come Conferenza di stato) riunitasi agli inizi di agosto. Questa conferenza era un tentativo semiufficiale per dare ampia legittimità al Governo provvisorio ottenendo un sigillo di approvazione da un largo spettro di raggruppamenti politici – fatta eccezione, ovviamente, per i bolscevichi, i quali la boicottarono. La Conferenza di Mosca fu accompagnata da una crescente smania, nei circoli rispettabili, per un colpo di stato contro i soviet e altri “comitati” diffusi tra soldati e contadini (“comitato” divenne una parola maledetta nella società che contava), una smania particolarmente manifesta nell’estatica ricezione ottenuta dal generale Lavr Kornilov e dalle sue richieste di “disciplina”. (Nel momento in cui Trotsky portava a termine il suo articolo, Kornilov aveva fatto il suo tentativo di colpo di stato, il leader bolscevico poteva almeno farne menzione).

Secondo Trotsky, il momento che meglio riassumeva lo spirito della conferenza era la stretta di mano tra un rappresentante dei proprietari di industrie russi, Aleksandr Bublikov, e il più determinato fautore, tra i socialisti moderati, della coalizione, ossia il leader di partito menscevico Irakli Tsereteli. Questo episodio costituiva una perfetta icona del “conciliatorismo” tra socialisti e liberali obiettivo della rettorica bolscevica lungo tutto quell’anno.

“Gli scribi e i politici socialisti rivoluzionari-menscevichi sono molto assorti dalla questione del significato sociologico della Rivoluzione russa. È una rivoluzione borghese o un altro tipo di rivoluzione?”. Così esordiva il saggio di Trotsky. Gli “scribi e i politici” sostenevano che lo slogan bolscevico “Tutto il potere ai Soviet!” non aveva senso in una rivoluzione borghese. La risposta di Trotsky: assumiamo come ipotesi di scuola che l’attuale rivoluzione sia effettivamente una “rivoluzione borghese”. Una simile caratterizzazione giustifica forse la politica conciliatorista, mirante alla coalizione con la borghesia, e quindi il rigetto di un vlast esclusivamente nelle mani del soviet? Niente affatto. Al contrario, l’impulso verso il potere al soviet è dettato dall’imperativo di portare la rivoluzione borghese al suo pieno compimento.

Trotsky liquidava l’improvviso interesse dei liberali e dei socialisti moderati per il carattere sociologico della rivoluzione come un cinico arrampicarsi sugli specchi. Partiti borghesi come i liberali cadetti avevano subito una batosta nelle elezioni locali, e i socialisti moderati scoprivano che la loro insistenza su una coalizione tra “lavoratori e sfruttatori” era estremamente impopolare. Come avrebbero allora potuto giustificare, tanto i liberali quanto i socialisti moderati, una coalizione con una gabinetto dominato dai partiti “borghesi”?

Qui entrava in scena Plekhanov, la cui “sociologia” forniva una scusa pronta all’uso sia ai liberali che ai socialisti conciliatoristi. Plekhanov “dimostrava” l’impossibilità di realizzare una rivoluzione borghese senza la borghesia, cosicché i liberali e i socialisti conciliatoristi erano costretti dalle leggi della scienza a ignorare il fatto che “i soviet rappresentano la maggioranza della popolazione capace di vita politica”.

Di fatto (proseguiva Trotsky), “la socioologia di Plekhanov” non conteneva alcun valore teorico – solo codardia politica. I socialisti rivoluzionari erano il partito maggioritario nel paese e, se avessero preso seriamente l’idea di rivoluzione borghese, avrebbero energicamente “preso il vlast nelle [loro] mani quale strumento per la realizzazione di fondamentali compiti storici”. Invece, presi nel fuoco incrociato tra élite imperialista e proletariato militante, i socialisti moderati indulgevano in strette di mano emblematiche del loro “accordo” con gli industriali. In questo modo, i socialisti rivoluzionari e i loro alleati menscevichi si stavano “privando completamente di qualsiasi possibilità di liquidare realmente ogni forma della vecchia barbarie – sia pur solo quelle che più direttamente incatenano quei settori del narod che ancora li seguivano [questi partiti]”.

Perché i socialisti moderati insistevano nel ricorrere al metodo “da gentiluomini” degli “accordi”, anziché ai più spietati e plebei metodi di democratici piccolo borghesi autenticamente radicali come i giacobini? “È evidente che la spiegazione va rintracciata non nel carattere ‘borghese’ della nostra rivoluzione, bensì nel patetico carattere della nostra democrazia piccolo borghese”. (La locuzione “democrazia piccolo borghese” faceva riferimento ai partiti rappresentanti i settori non proletari del narod, o popolo più in generale). “Al diavolo la democrazia! Lunga vita alla sociologia plekhanovita!”: questa era il vero motto dei socialisti moderati.

Avendo per sua stessa soddisfazione eviscerato le pretese teoriche dei conciliatoristi, Trotsky procedeva alla giustificazione dello slogan bolscevico “Tutto il potere ai soviet!”. Ne fare ciò, riportava esplicitamente le dispute del 1917 allo scontro prebellico tra menscevichi e bolscevichi. “Non importa quanto contraddittorie possano essere le opinioni dei menscevichi e del loro mentore, Plekhanov, quando si comparano le loro opinioni prima della rivoluzione con quelle odierne, un pensiero rimane immutato: non si può realizzare una rivoluzione borghese senza la borghesia. A prima vista, una simile idea potrebbe apparire assiomatica. Ma, di fatto, è solo un’espressione di stupidità”.

Già nel 1906, Lenin, Trotsky e Kautsky erano concordi circa la stupidità di questo apparente assioma (come documentato nel secondo post di questa serie, Il proletariato e il suo alleato: la logica dell’‘egemonia bolscevica’). Così si esprimeva Kautsky, “L’epoca delle rivoluzioni borghesi, vale a dire, delle rivoluzioni in cui la borghesia è la forza motrice, è conclusa, anche in Russia”. Al contrario, il ruolo di guida nella rivoluzione “democratica borghese” ricadeva ora sul proletariato.

Dunque, il ruolo di guida del proletariato nella rivoluzione democratica era il nocciolo dello scenario dell’egemonia condiviso da Trotsky e dai bolscevichi. In “Il carattere della rivoluzione russa”, il testo del 1917 in esame, esponeva succintamente la logica di tale scenario. La classe che avrebbe dovuto guidare la rivoluzione aveva “disertato”, motivo per cui il proletariato avrebbe dovuto diventare la guida del narod:

Poiché essi hanno “volontariamente” consegnato il vlast alle cricche borghesi, la “democrazia” socialista rivoluzionaria-menscevica si è vista obbligata a consegnare definitivamente la sua missione rivoluzionaria al partito del proletariato… Un aspro contrasto tra la politica del proletariato rivoluzionario e l’infida defezione degli attuali vertici [vozhdi] dei soviet, non può che condurre a una salutare differenziazione fra i milioni di contadini, sottrarre i contadini poveri alla subdola guida dei forti mugichi socialisti rivoluzionari, nonché convertire il proletariato socialista in un autentico vozhd della rivoluzione narodnaia, o “plebea” che dir si voglia.

Sino alla conclusione del suo articolo Trotsky assumeva come ipotesi che la Rivoluzione russa fosse effettivamente “borghese”. Negli ultimi paragrafi ritornava su tale ipotesi: la Rivoluzione russa “non è una rivoluzione ‘nazionale’, né una rivoluzione borghese”. Fortunatamente, l’arretrata Russia aveva “enormi risorse” nella ben più avanzata e potenzialmente socialista Europa occidentale: “la Rivoluzione russa si trova di fronte un’Europa che l’ha di gran lunga superata, un’Europa che ha raggiunto il più alto grado di sviluppo capitalistico… l’ulteriore sorte della Rivoluzione russa dipende direttamente dal corso e dall’esito della guerra, vale a dire, dall’evoluzione delle contraddizioni di classe in Europa, alle quali questo conflitto imperialista sta dando un carattere catastrofico”.

Il potenziale impatto della rivoluzione democratica russa sull’Europa occidentale era moneta corrente nei circoli socialdemocratici di sinistra sin dal 1905, per cui, le osservazioni di Trotsky riguardo al carattere internazionale della rivoluzione erano del tutto compatibili con lo scenario dell’egemonia bolscevico prebellico. Il contesto internazionale non portava Trotsky a trarre implicazioni di alcun genere le dinamiche puramente “nazionale” della rivoluzione. I conciliatoristi erano ancora ritenuti politicamente codardi per il loro rifiuto del vlast. Il proletariato, essendo incaricato del compito della rivoluzione democratica nazionale, aveva ancora il dovere di prendere il vlast in quanto guida del narod.

Quando poniamo “Il carattere della Rivoluzione russa” di Trotsky accanto a “Una questione fondamentale” di Lenin, così come presentato nel post precedente, vediamo come il primo si allineasse al secondo al fine di lanciare un attacco concertato alla “sociologia plekhanovita”. I due esponenti bolscevichi avanzavano i medesimi punti fondamentali: non era necessario affermare il carattere socialista della rivoluzione allo scopo di giustificare il potere del soviet. Non era necessario negare che la Rivoluzione russa, presa di per sé, era una rivoluzione “democratica borghese”. Principi democratici basilari giustificavano il potere del soviet. Dinamiche di classe di lungo periodo giustificavano il ruolo del proletariato come vozhd del narod russo.

 

1924, Trotsky veicola Plekhanov

Nel 1917 i vertici “conciliatoristi” di socialisti rivoluzionari e menscevichi argomentavano come segue: la Russia sta sperimentando una “rivoluzione democratica borghese”, dunque, lo slogan “tutto il vlast ai soviet” è illegittimo e disastroso. In risposta, Trotsky, in linea con Lenin e tutti glia altri portaparola bolscevichi, così replicava: il vostro argomento non è altro che stupidità logica ed evasività codarda. Persino ammettendo che (considerata da sola, in un contesto puramente nazionale) l’attuale rivoluzione sia “democratica borghese”, tale fatto impone di prendere il vlast al fine di compiere un’ampia trasformazione democratica della società.

Nella primavera del 1917, all’interno delle stesse fila bolsceviche, vi fu una discussione su questioni analoghe. Lev kamenev e altri praktiki bolscevichi erano preoccupati: parte della retorica del loro leader, da poco rientrato in Russia, sembrava implicare che il partito non considerava più i contadini quali alleati nella rivoluzione. Per tanto, questi esponenti del partito insistevano sul fatto che i contadini non avevano ancora la terra e, dunque, la “rivoluzione democratica borghese” non era ancora compiuta. La vecchia prescrizione bolscevica era quindi ancora applicabile: stabilire un vlast operaio-contadino al fine di portare a termine la rivoluzione democratica.

In risposta, Lenin metteva in chiaro la sua posizione: egli non stava in alcun modo cancellando i contadini come alleati. La maggioranza contadina di cui era composta la Russia significava che il paese non era pronto per il socialismo, se non altro perché la trasformazione attraverso i soviet richiedeva il sostegno della maggioranza. Ciò nondimeno, così come contro i conciliatoristi del tipo di Plekhanov, Lenin insisteva che una rivoluzione democratica esigeva il potere al soviet. In questo modo, chiarivano i propri dubbi reciproci assumendo praticamente la stessa linea. L’obiettivo del partito era un vlast operaio-contadino, basato sui soviet, che avrebbe implementato ampie misure democratiche (la terra ai contadini, la pace immediata), con l’ulteriore fine di compiere ulteriori “passi verso il socialismo” senza alienarsi i contadini e, inoltre, ispirare una rivoluzione pienamente socialista in europa occidentale.

Nel 1924, col volume Le lezioni d’ottobre, Trotsky ritornava sulla disputa tra i bolscevichi della primavera 1917. La sua argomentazione prendeva ora una svolta sorprendente. Dopo aver menzionato la posizione di Kamenev nel 1917, secondo cui “la rivoluzione democratica borghese non era ancora compiuta”, egli affermava che tale punto di vista era incompatibile con qualsiasi autentico sostegno ad un vlast del soviet e, se per quello, a qualsiasi tipo di vlast rivoluzionario. In altri termini, Trotsky compiva una svolta di 180 gradi rispetto alla sua argomentazione del 1917. In effetti, ora si schierava con la “sociologia plekhanovita” che aveva un tempo deriso: insisteva che se la Russia stava sperimentando una rivoluzione democratica, allora il potere del soviet era illegittimo, e l’azione dei bolscevichi era confinata a nient’altro che porre pressione al Governo provvisorio “borghese”.

Tento di dimostrare questo cambio di posizione non per il semplice piacere di cogliere Trotsky contraddire se stesso, bensì per altri due motivi. Primo, il punto di vista di Trotsky nel 1924 è stato di enorme influenza, fondativo direi, per la nostra comprensione della politica bolscevica del 1917. Secondo, il Trotsky del 1917 fornisce una delle migliori confutazioni della sua interpretazione del 1924, che ritengo profondamente fuorviante ed errata. (In quanto segue immediatamente, la locuzione “secondo Trotsky” e simili fa riferimento solo al saggio di Trotsky del 1924 Le lezioni d’ottobre) [2].

Secondo Trotsky si ebbe una profonda spaccatura tra le fila bolsceviche nel corso del 1917, in particolare tra coloro che proclamavano “il carattere socialista della Rivoluzione russa” e quelli che insistevano sul “completamento [zavershenie] della rivoluzione democratica”:

Il discorso tenuto da Lenin, alla stazione di Finlandia, sul carattere sociale della rivoluzione russa ebbe l’effetto di una bomba per molti dirigenti del partito. La polemica fra Lenin e i sostenitori del “completamento della rivoluzione democratica” cominciò già il giorno del suo arrivo.

La posta in gioco era la questione del vlast: una parte voleva lottare per conquistarlo, l’altra no:

Il compito della conquista del potere venne sottoposto al partito solo il 4 aprile, ovvero dopo l’arrivo di Lenin a Pietrogrado… Tutta la conferenza di aprile del partito fu dedicata a questo problema fondamentale. Passiamo alla conquista del vlast in nome della rivoluzione socialista o aiutiamo (qualcuno) a completare la rivoluzione democratica?

Chiunque facesse appello al completamento della rivoluzione democratica in tal modo rinunciava alla lotta per il potere, confinandosi la propria azione alla mera pressione sul Governo provvisorio. Così non vi erano differenze fondamentali tra bolscevichi come kamenev o Bagdatev e i leader conciliatoristi dei menscevichi o dei socialisti rivoluzionari:

Di conseguenza, il periodo successivo alla Rivoluzione di febbraio può essere considerato da due punti di vista: come un periodo di rafforzamento, sviluppo o completamento [zavershenie] della rivoluzione “democratica”, o come un periodo di preparazione della rivoluzione proletaria. Il primo punto di vista veniva propugnato non solo dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari, ma anche da alcune frazioni degli elementi ai vertici del nostro stesso partito. La differenza era questa: questi elementi al vertice [bolscevichi] cercarono davvero di spingere la rivoluzione democratica quanto più possibile a sinistra. Ma il metodo era fondamentalmente uno e soltanto uno – “esercitare pressione” sulla borghesia dominante, un “pressione” talmente calcolata da rimanere nel quadro del regime democratico borghese.

Qualsiasi bolscevico sostenesse che la rivoluzione democratica non era ancora compiuta era ipso facto un nemico del “corso rivoluzionario”. Il loro punto di vista non era altro che una ricetta per il disastro:

La questione fondamentale in discussione, attorno alla quale ruotavano tutte le altre, era la seguente: lottare per il vlast? Conquistare il vlast? Questo fatto da solo dimostra come non avessimo a che fare con un’episodica divergenza di opinioni, bensì con due tendenze i principio del massimo significato…

Se questa politica [portare a termine la rivoluzione democratica] avesse prevalso, lo sviluppo della rivoluzione avrebbe scavalcato il nostro partito e, in ultima analisi, avremmo avuto un’insurrezione delle masse operaie e contadine senza guida di partito – in altre parole, una ripetizione delle giornate di luglio su scala colossale, ovvero non solo come un episodio, ma come una catastrofe.

In questo modo Trotsky dipingeva il quadro di due posizioni che si escludevano vicendevolmente: socialista/vlast/rivoluzionaria contro democratica/pressione/riforma. Il resoconto di Trotsky, come descrizione degli eventi del 1917, presenta diversi problemi. che cosa significava esattamente proclamare il “carattere socialista della rivoluzione”? Qual era la base testuale della presunta caratterizzazione fornita da Lenin? (per una storia della ricezione delle Tesi di aprile, si veda il primo post di questa serie, Biografia di uno slogan) Il resoconto di Trotsky nel 1924 quanto coincideva con l’argomentazione dello stesso Lenin rintracciata in “Una questione fondamentale“, pubblicato durante la Conferenza di aprile?

Il resoconto di Trotsky non ci prepara per le reali argomentazioni avanzate da bolscevichi come Kamenev, il quale insisteva che fintanto i contadini non avessero conquistato la terra, la rivoluzione democratica borghese non era conclusa (per l’appello di Kamenev a favore del potere al soviet prima del rientro di Lenin, si veda il terso post, “Lettera da lontano, correzioni da vicino: censura o rimaneggiamento?“). Dal punto di vista di Kamenev in aprile, a eludere la questione del vlast erano proprio coloro che parlavano prematuramente di rivoluzione socialista, ancor prima che quella democratica fosse compiuta – ovverosia, rifiutando di riconoscere i contadini come alleati nella lotta per un vlast rivoluzionario. Per questa ragione, Kamenev sosteneva che la prospettiva delineata da Lenin minacciava di trasformare i bolscevichi da partito votato all’azione a partito di propagandisti del socialismo. La questione non è stabilire se Kamenev avesse pienamente afferrato la posizione di Lenin (così non era, per cui Lenin si preoccupò di mettere le cose in chiaro) – semmai, le basi sulle quali Kamenev rigettava la presunta posizione di Lenin erano precisamente quelle di una lotta per il vlast.

La ricostruzione di Trotsky come rendeva conto di attivisti di partito come Sergei Bagdatev? Secondo Trotsky, la Conferenza di aprile aveva rivelato una profonda spaccatura tra chi invocava il completamento della rivoluzione democratica e coloro che facevano appello a una lotta per il vlast. Tuttavia, come abbiamo visto nei precedenti post (il quarto in particolare, “Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile“), Bagdatev aveva fatto appello sia perché si portasse a termine la rivoluzione democratica che per il potere al soviet. Di fatto, venne bacchettato nel corso della Conferenza per essersi mosso troppo aggressivamente nel senso di una vera e propria presa del potere. Se seguissimo l’argomentazione di Trotsky, dovremmo liquidare Bagdatev, nel migliore dei casi, come vittima di un “pensiero confuso”.

Nel leggere il resoconto di Trotsky del 1924 circa le discussioni fra i bolscevichi svoltesi nell’aprile 1917, dobbiamo essere consapevoli del fatto che egli stesso giunse in Russia ai primi di maggio. Ottenere una conoscenza dettagliata di tali discussione non era certo una priorità fino a dopo la scomparsa di Lenin all’inizio del 9124, quando Trotsky iniziò a leggere fonti in relazione con la pubblicazione dei suoi scritti del 1917. Sull’interpretazione avanzata nella raccolta di questi ultimi, le memorie di Sukhanov, all’ora di recente pubblicazione, ebbero una particolare influenza. Come menzionato dallo stesso Trotsky, gli atti della Conferenza di aprile non erano ancora stati pubblicati.

L’insistenza di Trotsky nel liquidare i sostenitori della “rivoluzione democratica” quali nemici del “corso rivoluzionario”, inoltre, rischiava di distorcere e sminuire l’effettiva rivoluzione del 1917. Sospinto dalla sua stessa retorica, Trotsky sembrava guardare dall’alto in basso la rivoluzione democratica, quasi si fosse trattato di uno spettacolo di poco conto, come una “serie di riforme”. Si guardi allora alla Rivoluzione d’ottobre stessa. Il Secondo congresso dei soviet fece tre cose: la terra ai contadini, una pace democratica e un governo basato esclusivamente sulla più vivace istituzione elettorale del paese, ovvero il soviet. Tutte e tre erano misure non di tipo socialista, bensì “democratico” – eppure trasformarono la Russia da cima a fondo. Trotsky era meno impressionato da da tali provvedimenti radicali che da un’eventuale “invasione puramente socialista, da parte dello stato dei lavoratori, nella sfera dei diritti di proprietà capitalistici” (non spiegando perché mai un energico e democratico vlast avrebbe dovuto temere di intromettersi nei diritti dei proprietari).

Ma per il momento lasciamo da parte tali più ampie questioni e rivolgiamo invece la nostra attenzione all’assunto di Trotsky, secondo il quale vi era un infrangibile collegamento logico tra l’appello al compimento della rivoluzione democratica, da una parte e, dall’altra, il conciliatorismo e l’esercitare “pressione” tipici dei menscevichi. Si tratta di un assunto fondamentale dell’intero resoconto di Trotsky. Tanta era la forza di questo collegamento nella mente di Trotsky che a malapena sentiva il bisogno di far riferimento a evidenze testuali. Qualcuno faceva appello al completamento della rivoluzione democratica? – Ebbene costui era poco più che un riformista, terrorizzato alla prospettiva di una minaccia ai diritti di proprietà borghesi.

Riguardo a quest’assunto del Trotsky del 1924 vi sono due cose sorprendenti. Primo, egli riprendeva in blocco le premesse della “sociologia plekhanovita”. Secondo Plekhanov, Lenin aveva proclamato il carattere socialista della Rivoluzione russa nelle sue Tesi di aprile. Egli aveva fatto ciò perché aveva compreso che il potere del soviet era giustificabile solo se la rivoluzione era socialista. L’inedita asserzione di Lenin costituiva una netta rottura rispetto alle precedenti posizioni, tanto sue che del suo partito, o almeno questo è quanto affermava Plekhanov. Coloro che si rendevano conto che la rivoluzione era democratica borghese nella sua natura (come Plekhanov riteneva) erano impegnati a sostenere il Governo provvisorio (ancora, come Plekhanov faceva). E Plekhanov stesso, aveva a lungo argomentato che soltanto la borghesia poteva essere l’autentica guida della rivoluzione democratica borghese – un argomento rapidamente liquidato da Trotsky, nel 1917, come “stupido”.

Ovviamente, nella versione di Trotsky del 1924 i segni di valore sono invertiti. Trotsky sosteneva il potere del soviet, per cui era felice anziché angosciato della presunta rottura di Lenin con il vecchio bolscevismo, così da proclamare il carattere socialista della rivoluzione. Ma altrimenti, l’argomento era identico: un rivoluzione socialista imponeva la lotta per il potere al soviet, laddove una rivoluzione democratica ingiungeva di limitarsi a fare pressione su un Governo provvisorio borghese.

La seconda cosa sorprendente circa l’argomentazione di Trotsky nel 1924 era che la più cogente delle confutazione, probabilmente, si poteva trovare nell’articolo da lui stesso scritto nel 1917. Passiamo dunque in rassegna le principali asserzioni contenute in Le lezioni d’ottobre, per poi vedere come l’articolo di Trotsky del 1917, “Il carattere della Rivoluzione russa”, le negava una per una.

Nel 1924, Trotsky sosteneva che decidere del carattere della Rivoluzione russa era “una questione di principio del massimo significato”, di fatto, una questione di vita o di morte per la rivoluzione. Se i bolscevichi non avessero trovato la risposta giusta a tale interrogativo, si profilava la catastrofe. Nel 1917, aveva invece deriso l’intera questione del carattere della rivoluzione ritenendola accademica e “sociologica”, priva di importanza politica, se non nel dimostrare quanto disperatamente i moderati volevano sfuggire alle proprie responsabilità.

Per il Trotsky del 1924, vi era una sola risposta corretta, dal punto di vista rivoluzionario, a questo interrogativo sociologico: la Rivoluzione russa era socialista. Egli non faceva distinzioni tra dinamiche interne e internazionali. Nel 1917,invece, Trotsky separava accuratamente le dinamiche politiche della rivoluzione nel suo contesto strettamente russo, da quelle dell’imminente rivoluzione socialista nell’Europa considerata nel suo complesso. Nel momento in cui parlava della rivoluzione, nel suo contesto strettamente russo, il Trotsky del 1917 non offriva alternative al definirla come “rivoluzione democratica borghese”, nel senso attribuito a tale locuzione nel discorso marxista (ovvero, una rivoluzione che svolgeva compiti storici necessari ma non socialisti, sulla base di un’ampia coalizione “delle classi rivoluzionarie”). E precisamente partendo da questa caratterizzazione, Trotsky arringava circa il fallimento dei socialisti moderati e per la legittimità degli slogan bolscevichi.

Nel 1924, Trotsky insisteva nel sostenere che i socialisti che definivano la rivoluzione come “democratica borghese” erano “logicamente” obbligati a rinunciare a qualsiasi sforzo mirante a prendere il vlast. Egli sottolineava che se i Socialisti rivoluzionari avessero preso sul serio i loro argomenti, allora avrebbero dovuto servirsi della loro condizione di partito di maggioranza per assumere il vlast, e quindi svolgere gli enormi compiti storici assegnati dal marxismo alla rivoluzione democratica borghese.

Nel 1924, Trotsky affermava che qualsiasi socialista volesse completare la rivoluzione democratica limitava il proprio agire al mero porre pressione sul Governo provvisorio dominato dalla borghesia. Nel 1917, questa stessa considerazione veniva espressa dai socialisti moderati, e Trotsky la liquidava come una flebile scusa per concedere ai partiti dell’élite una posizione dominante nel Governo provvisorio – posizione non certo giustificata dal supporto di cui godevano nella società.

Nel 19124, Trotsky sosteneva che i vertici bolscevichi erano rimasti scioccati e scandalizzati dall’idea che la borghesia non sarebbe stata la guida di governo della rivoluzione democratica borghese. Nel 1917, egli individuava correttamente la divisione di lunga data tra menscevichi e bolscevichi proprio in tale questione. Se con “vecchio bolscevismo” intendiamo “il punto di vista del bolscevismo prima della rivoluzione” (Lenin aveva usato il termine in un altro senso nell’aprile 1917), ebbene il nocciolo del vecchio bolscevismo consisteva precisamente nella negazione che la borghesia sarebbe stata, o avrebbe potuto essere, la guida della rivoluzione democratica borghese.

Nel 1924, Trotsky asseriva che chiunque avesse voluto completare la rivoluzione democratica si impegnava logicamente ad accettare l’egemonia della borghesia. Nel 1917, egli attribuiva questa argomentazione specificamente a Plekhanov a ai menscevichi, liquidandola come “stupida”.

Ancora più importante, nel 1917 Trotsky ci forniva un’eccellente formulazione dello storico scenario dell’egemonia bolscevico, così come applicato alla rivoluzione all’ora in corso: “stabilire una salutare differenziazione politica tra i milioni di contadini, sottrarre i contadini poveri dalla guida infida dei più forti muzhik socialisti rivoluzionari, e convertire il proletariato socialista in autentico vozhd della rivoluzione ‘plebea’ e narodnaia. Nel 1924, lo scenario dell’egemonia era ormai dimenticato, e Trotsky insisteva sul definire la rivoluzione “proletaria” in opposizione a “narodnaia”.

Per riassumere: nel 1917, Trotsky rigettava sprezzante il motto “Al diavolo la democrazia! Lunga vita alla sociologia plekhanovita!”. Nle 1924, appoggiava pienamente il ragionamento alla base di tale motto.

Com’è noto, Trotsky fu uno scrittore prolifico. Ho indicato dei testi specifici a supporto della mia tesi, secondo la quale un cambiamento radicale nell’analisi del bolscevismo compiuta da Trotsky avvenne tra il 1917 e il 1924. Il mio invito al lettore è quello di mettere sul tavolo altri scritti che possano sostenere, o indebolire, tali affermazioni.

In questa serie di post, ho argomentato contro la narrazione del “riarmo” così come difesa, tra gli altri, da Trotsky nel 1924 e in seguito. Alcuni, comprensibilmente, hanno domandato: chi è più probabile abbia inteso le dinamiche della Rivoluzione russa, Lars Lih o Trotsky? Messa in questi termini, una sola risposta appare intuitivamente ovvia. Tuttavia, l’interrogativo è mal posto. Sarebbe invece più adeguato chiedersi: chi è più probabile abbia inteso le dinamiche della Rivoluzione russa, il Trotsky del 1917 o quello del 1924? Chiunque sia interessato alla Rivoluzione russa dovrebbe confrontarsi con tale questione. Ahimè, non importa quale sia la risposta, il risultato sarà in disaccordo con Trotsky. D’altra parte, non importa quale sia la risposta, il risultato sarà in accordo con Trotsky.


Note
1 Per un breve, ma accurato, resoconto si veda Ian Thatcher, Trotsky (Routledge, 2005).
2 Il secondo capitolo è disponibile in Marxists Internet Archive (in italiano, in rete, è disponibile la traduzione di un estratto, la quale tuttavia non comprende molti dei passi citati da Lih, per tanto si e provveduto a tradurli dalla versione da quest’ultimo fornita, n.d.t.). Per una nuova edizione delle Lezioni, si veda Trotsky’s Challenge: The ‘Literary Discussion’ of 1924 and the Fight for the Bolshevik Revolution, traduzione, annotazioni e introduzione a cura di Frederick C. Corney (Brill, HM series, 2016); questa edizione, inoltre, contiene tutte le molteplici repliche avanzate all’epoca dagli oppositori bolscevichi di Trotsky. Per quanto mi è dato sapere, nessuno si è ancora chiesto fino a che punto gli scritti di Trotsky del 1917 confermano le affermazioni fate dallo stesso nel 1924.

La prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta parte di ‘Tutto il potere ai soviet!’: biografia di uno slogan; Il proletariato e il suo alleato; Lettera da lontano correzioni da vicino; Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile; ‘Una questione fondamentale’: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile.

Link al post originale in inglese John Riddell

Trotsky (1917): Il carattere della Rivoluzione russa

Il testo che segue venne pubblicato per la prima volta nell’agosto del 1917, come parte quinta del pamphlet di Trotsky “Dopo i giorni di luglio: cosa succederà?”.

Gli scribi e i politici socialisti rivoluzionari-menscevichi sono molto assorti dalla questione del significato sociologico della Rivoluzione russa. È una rivoluzione borghese o un altro tipo di rivoluzione? A prima vista, un simile interesse per questioni teoriche potrebbe apparire in qualche modo sorprendente. I liberali non hanno niente da guadagnare rivelando gli interessi di classe dietro alla “loro” rivoluzione. E come per i “socialisti” piccolo borghesi, la loro attività politica non è guidata dall’analisi teorica, bensì dal “senso comune”, ovvero, lo pseudonimo della mediocrità e della mancanza di principi. E, di fatto, questo pontificare dei Miliukov-Dan [rispettivamente leader cadetto e menscevico] – originariamente ispirato da Plekhanov – circa il carattere borghese della Rivoluzione russa non contiene un singolo granello di teoria.

Edinstvo [giornale del gruppo di Plekhanov], né il Rech [partito cadetto liberale], né il Den [partito socialista rivoluzionario], né l’ancor più avvilente Rabochaia gazeta [menscevico], si sono dati la minima pena di spiegare cosa si intenda con “rivoluzione borghese”. L’intento delle loro manovre è puramente pratico: dimostrare il “diritto” della borghesia a mantenere il vlast. Anche se i soviet rappresentano la maggioranza della popolazione capace di vita politica, anche se in tutte le elezioni democratiche, nella città come nella campagna, i partiti capitalisti crollano con un enorme tonfo – ebbene, poiché “la nostra rivoluzione è borghese”, dobbiamo preservare i privilegi della borghesia, nonché assegnarle un ruolo nel governo a cui l’allineamento dei gruppi politici nel paese non fornisce alcuna giustificazione. Se vogliamo agire in accordo coi principi del parlamentarismo democratico, allora il vlast appartiene chiaramente ai socialisti rivoluzionari, da soli o insieme ai menscevichi. Ma poiché “la nostra rivoluzione è borghese”, i principi della democrazia sono sospesi e i rappresentanti della stragrande maggioranza del popolo ottengono solo cinque posi nel gabinetto, mentre i rappresentanti di un insignificante minoranza ne ottengono il doppio. Al diavolo la democrazia! Lunga vita alla sociologia Plekhanovita!

“È quanto meno possibile realizzare una rivoluzione borghese senza la borghesia?”, questo l’interrogativo posto in modo insinuante da Plekhanov invocando il sostegno della dialettica di Engels.

“Proprio così”, interviene Miliukov. “Noi cadetti saremmo pronti a rinunciare al vlast, che il narod chiaramente non vuole lasciarci. Ma non possiamo fuggire di fronte alla scienza”. E a tal fine invoca il sostegno del marxismo di Plekhanov.

“Poiché la nostra rivoluzione è borghese”, spiegano Plekhanov, Potresov e Dan, “una coalizione politica tra lavoratori e sfruttatori è necessaria”. E, alla luce di tale “sociologia”, la claunesca stretta di mano [alla Conferenza di Mosca dell’agosto 1917] tra Bubikov [rappresentante degli industriali] e Tseretelli [leader menscevico] si rivela nel suo pieno significato storico.

Il problema è meramente questo, che lo stesso carattere borghese della rivoluzione, ora usato al fine di giustificare la coalizione tra socialisti e capitalisti, per un certo numero di anni è stato impiegato da questi stessi menscevichi a sostegno della conclusione opposta.

“Poiché, in una rivoluzione borghese”, erano soliti dire, “il vlast di governo non può avere altro compito che salvaguardare il dominio della borghesia, è chiaro come la socialdemocrazia non possa avere niente a che fare con esso: il suo posto non è al governo, bensì all’opposizione”. Plekhanov riteneva che i socialisti non potessero in alcun caso prendere parte a un governo borghese, e attaccava ferocemente Kautsky, la cui risoluzione ammetteva alcune eccezioni a questo proposito. “Tempora legesque mutantur”, i pedanti del vecchio regime così si esprimevano: i tempi cambiano, così le leggi. E, come abbiamo visto, la stessa cosa avviene con “le leggi della sociologia plekhanovita”.

Non importa quanto contraddittorie possano essere le opinioni dei menscevichi e del loro mentore, Plekhanov, quando si comparano le loro opinioni prima della rivoluzione con quelle odierne, un pensiero rimane immutato: non si può realizzare una rivoluzione borghese “senza la borghesia”. A prima vista, una simile idea potrebbe apparire assiomatica. Ma, di fatto, è solo un’espressione di stupidità.

La storia del genere umano non ha inizio con la [recente] Conferenza di Mosca. Le rivoluzioni sono avvenute anche nel passato. Alla fine del XVIII secolo c’è stata una rivoluzione in Francia, definita oggi, non senza ragione, “la Grande rivoluzione”, si è trattato di una rivoluzione borghese. In una delle sue fasi, il potere e caduto nelle mani dei giacobini, i quali contavano sull’appoggio dei “Sans-culottes”, le classi basse artigiane-proletarie dei centri urbani, e che instaurarono tra loro e i girondini, il partito liberale della borghesia, i cadetti dell’epoca, il netto rettangolo della ghigliottina. Fu solo la dittatura dei giacobini a dare alla Rivoluzione francese la sua ancor attuale importanza, a renderla insomma “la Grande rivoluzione”. Eppure, tale rivoluzione venne realizzata, non solo senza la borghesia, ma direttamente in opposizione a essa. Robespierre, che non ebbe l’opportunità di familiarizzarsi con le idee Plekhanovite, sconvolse tutte le leggi della sociologia e, invece di stringere le mani dei girondini, tagliò loro la testa. Ciò fu veramente crudele, no lo si può negare. Ma la crudeltà che la caratterizzò, non impedì alla Rivoluzione francese di divenire Grande, nei limiti del suo carattere borghese. Marx, il cui nome è aggetto di abuso da parte di tanti personaggi volgari nel nostro paese, ebbe a dire che “in Francia, tutto il Terrore non fu altro che un metodo plebeo di mettere fine ai nemici della borghesia”. E poiché la stessa borghesia temeva simili metodi plebei di sbarazzarsi dei nemici del narod, i giacobini non solo privarono la borghesia del vlast, ma applicarono una ferrea repressione contro la borghesia ogni qualvolta essa tentava di fermare, o “ammorbidire”, l’operato dei giacobini. È del tutto evidente: i giacobini realizzarono una rivoluzione borghese senza la borghesia.

In riferimento alla Rivoluzione inglese del 1648, Engels scriveva: “affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute, era necessario che la rivoluzione oltrepassasse di molto il suo scopo, esattamente come in Francia nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra che questa sia una delle leggi della evoluzione della società borghese”. Come possiamo vedere, la legge engelsiana si oppone direttamente alla trovata plekhanovita che i menscevichi accettano e spacciano come marxismo.

Naturalmente si può obiettare che i giacobini erano essi stessi borghesia, minima o “piccola”. È assolutamente vero. Ma cos’altro è la cosiddetta “democrazia rivoluzionaria” guidata dai socialisti rivoluzionari e dai menscevichi? Trai cadetti, partito dei grandi e medi proprietari, da una parte, e i socialisti rivoluzionari dalla’altra, alcun partito intermedio si è palesato in nessuna elle elezioni tenutesi in città e villaggi. Ne consegue con chiarezza matematica che la piccola borghesia trova la sua rappresentanza politica nei ranghi dei socialisti rivoluzionari. I menscevichi, la cui politica non differisce di un soffio da quella dei socialisti rivoluzionari, riflettono gli stessi interessi di classe. No vi è alcuna contraddizione col fatto che essi godono anche del sostegno di una parte dei lavoratori, quella più arretrata e conservatrice/privilegiata.

Perché i socialisti rivoluzionari sono stati incapaci di prendere in mano il vlast? In che senso, e perché, il carattere “borghese” della Rivoluzione russa (se diamo per scontato che tale sia il suo carattere) costringe i socialisti rivoluzionari, e i menscevichi, a scambiare i metodi plebei dei giacobini con quelli da gentiluomini dell’accordo [soglashenie] con la borghesia controrivoluzionaria? È evidente che la spiegazione va rintracciata non nel carattere ‘borghese’ della nostra rivoluzione, bensì nel patetico carattere della nostra democrazia piccolo borghese. Invece di prendere in mano il vlast quale strumento per la realizzazione di fondamentali compiti storici, la nostra pseudo-democrazia ha trasferito, con deferenza, il vlast reale alla cricca militar-imperialista e controrivoluzionaria, e Tseretelli, alla Conferenza di Mosca, vantava persino che il Soviet non aveva ceduto il vlast sotto pressione, dunque non in seguito a una lotta e a una sconfitta coraggiose, bensì volontariamente, come prova di “auto-limitazione” politica. la mitezza dell’agnello, che si mette nelle mani del suo macellaio, non è la qualità con cui si conquisteranno nuovi mondi.

La differenza tra i fautori del terrore nella Convenzione rivoluzionaria francese [che rovesciò la monarchia] e i capitolatori di Mosca [i socialisti moderati che facevano i carini con gli industriali] è la differenza tra tigri e agnellini – una differenza di coraggio. Ma questa differenza non è fondamentale. Dietro di essa vi è una differenza decisiva nella costituzione della democrazia stessa. I giacobini avevano la propria base nelle classi con scarsa o alcuna proprietà, compresi quei rudimenti di proletariato allora esistenti. Nel nostro caso, la classe operaia industriale è riuscita a separarsi dalla mal definita democrazia, così da formare una forza storica indipendente della massima rilevanza. La democrazia piccolo borghese ha perso le qualità rivoluzionarie più preziose, proprio nel momento in cui esse venivano sviluppate dal proletariato nel suo separarsi dalla piccola borghesia. Questo fenomeno, a sua volta, è dovuto al livello incomparabilmente più alto di sviluppo cui è giunto il capitalismo in Russia rispetto alla Francia di fine XVIII secolo. Il ruolo rivoluzionario del proletariato russo, non misurabile con la sua forza numerica, si basa su tale fondamentale ruolo produttivo, il quale diviene evidente sopratutto in tempo di guerra. La minaccia di uno sciopero nelle ferrovie ancora una volta ci rammenta, ai nostri giorni, la dipendenza dell’intero paese dal lavoro concentrato del proletariato.

Il filisteo partito contadino [i socialisti rivoluzionari], nelle primissime fasi della rivoluzione, si è trovato esposto a un fuoco incrociato tra i potentissimi gruppi delle classi imperialiste da una parte e, dall’altra, il proletariato internazionalista rivoluzionario. Nella lotta mirante a esercitare una sua influenza sugli operai, il partito filisteo costantemente contrapponeva il proprio “senso delle stato”, nonché il suo “patriottismo”, al partito del proletariato, ed esattamente in ragione di ciò è caduto in una dipendenza servile dai gruppi rappresentanti il capitale controrivoluzionario. Allo stesso tempo, si è del tutto privato di qualsiasi possibilità di liquidare realmente la vecchia barbarie in ogni sua forma – persino quella che direttamente incatena le frazioni del narod che ancora lo seguono.

La lotta dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi per influenzare il proletariato è stata, sempre più spesso, sostituita da una la lotta del partito del proletariato finalizzata a ottenere la guida delle masse semi-proletarie dei villaggi e delle città. Poiché essi hanno “volontariamente” consegnato il vlast alle cricche borghesi, la “democrazia” socialista rivoluzionaria-menscevica si è vista obbligata a consegnare definitivamente la sua missione rivoluzionaria al partito del proletariato. Già solo questo dimostra come il tentativo di decidere fondamentali questioni tattiche con vuote allusioni al carattere “borghese” della nostra rivoluzione può solo riuscire a confondere le menti degli operai più arretrati, nonché a ingannare i contadini.

Nel corso della Rivoluzione francese del 1848, il proletariato stava già compiendo sforzi eroici per conseguire un azione indipendente. Ma non disponeva ancora né di una chiara teoria rivoluzionaria né di un’autorevole organizzazione di classe. La sua importanza nella produzione era infinitamente inferiore all’attuale ruolo economico del proletariato russo. In aggiunta, dietro il 1848 si ergeva la grande rivoluzione [quella del 1789], la quale aveva risolto la questione agraria a modo suo, e questo [tale risposta agli interessi del contado] trovò espressione [nel 1848] in un pronunciato isolamento del proletariato, in gran parte parigino, dalle masse del narod.

La nostra situazione, a tal riguardo, è immensamente più favorevole. Rapporti simil-servili per quanto riguarda la terra, la confusione nello status legale dovuta al sistema soslovie [stati di tipo quasi castale], l’oppressione e la rapacità su base castale della chiesa, si pongono di fronte alla rivoluzione come questione non ulteriormente procrastinabili, richiedendo misure decisive e inesorabili. L'”isolamento” del nostro partito dai socialisti rivoluzionari e dai menscevichi, persino un estremo isolamento, per non dire volontario confinamento, non significherebbe in alcun modo l’isolamento del proletariato dalle masse oppresse, tanto contadine che urbane. Al contrario, un aspro contrasto tra la politica del proletariato rivoluzionario e l’infida defezione degli attuali vertici [vozhdi] dei soviet, non può che condurre a una salutare differenziazione fra i milioni di contadini, sottrarre i contadini poveri alla subdola guida dei forti mugichi socialisti rivoluzionari, nonché convertire il proletariato socialista in un autentico vozhd della rivoluzione narodnaia, o “plebea” che dir si voglia.

E, infine, un mero e vuoto riferimento al carattere borghese della Rivoluzione russa no ci dice assolutamente nulla circa il suo contesto internazionale. e si tratta della questione fondamentale. La grande rivoluzione giacobina si ritrovò circondata e contrastata da un’Europa arretrata, feudale e monarchica. Il regime giacobino cadde e si trasformò in quello bonapartista, a causa del peso dello sforzo sovrumano compiuto per difendersi dalle forze unite dell’arretratezza medievale. Al contrario, la Rivoluzione russa si trova di fronte un’Europa che l’ha di gran lunga superata, un’Europa che ha raggiunto il più alto grado di sviluppo capitalistico. L’attuale massacro mondiale dimostra che l’Europa ha raggiunto il punto della saturazione capitalistica, dunque essa non può ancora a lungo vivere e svilupparsi sulla base della proprietà privata dei mezzi di produzione. Tale caos, misto di sangue e rovine, rappresenta una selvaggia insurrezione delle oscure e cieche forze di produzione, l’ammutinamento di ferro e acciaio contro il dominio del profitto, contro la schiavitù salariata, contro la fondamentale stupidità di rapporti sociali umani. Il capitalismo, avviluppato dalle fiamme di una guerra da esso stesso scaturita, spara dalle bocche dei propri cannoni un messaggio diretto all’umanità: “o mi metti sotto controllo, o altrimenti nel mio cadere ti seppellirò sotto le mie rovine!”.

Tutti gli sviluppi del passato – le centinaia di anni di storia umana, lotta di classe, accumulazione culturale – si trovano ora concentrati in un unico problema, quello della rivoluzione proletaria. Non vi è altra risposta o vi di fuga. E qui risiede la tremenda forza dell Rivoluzione russa. Non è una rivoluzione ‘nazionale’, né una rivoluzione borghese. Chiunque la concepisca in tal modo vive nel reame delle allucinazioni dei secoli XVIII e XIX. E la nostra “patria temporanea” è il XX secolo. L’ulteriore sorte della Rivoluzione russa dipende direttamente dal corso e dall’esito della guerra, vale a dire, dall’evoluzione delle contraddizioni di classe in Europa, alle quali questo conflitto imperialista sta dando un carattere catastrofico.

Kerenski e Kornilov hanno troppo presto iniziato a ricorrere al linguaggio da autocrati in competizione [durante “l’affare Kornilov” di fine agosto]. I Kalediani [Alexey Kaledin era un generale controrivoluzionario] hanno mostrato i denti prima del tempo. Il rinnegato Tsereteli con eccessiva sollecitudine ha afferrato il dito, sprezzantemente alzato, della controrivoluzione. Al momento, la rivoluzione ha pronunciato solo la sua prima parola. Essa possiede ancora enormi riserve nell’Europa occidentale. In cambio della stretta di mano tra caporioni reazionari e filistei della piccola borghesia, verrà la stretta di mano tra la Rivoluzione russa e il proletariato europeo.


Link al post originale in inglese John Riddell

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