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sinistra

Alcune osservazioni in margine ai saggi di Thanasis Spanidis sulla politica antifascista e sulla pianificazione socialista

di Eros Barone

liberazione 25 aprile 900x600 1.jpgun nuovo, più profondo e più ampio senso di comunanza umana, che determina… ciò che può oramai dirsi l’etica del socialismo: cioè il postulato della solidarietà contrapposto all’assioma della concorrenza.

Antonio Labriola, Da un secolo all’altro, in Scritti varii di filosofia e politica, Laterza, Bari 1906, p. 458.

L’autore del contributo che qui viene proposto ritiene che la genesi della svolta opportunista del movimento comunista mondiale sia da ricercare: a) nel VII Congresso dell'Internazionale Comunista (1935); b) segnatamente, nella concezione bifronte del "partito operaio comune" e della democrazia antimonopolista (DAM), laddove l'uno è strettamente connesso all'altra ed entrambi sono correlativi a una strategia antimonopolista (SAM); c) nel conseguente abbandono della teoria marxista dello Stato come dittatura di classe. 1 Certamente, il VI Congresso dell’Internazionale Comunista (1928) merita, per il suo contenuto teorico, strategico e programmatico, di essere rivalutato rispetto al contenuto tattico-politico del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, distorto successivamente sia dal punto di vista strategico che teorico a causa della prassi opportunista. 2 È quindi del tutto conseguente il drastico giudizio formulato da Thanasis Spanidis il quale, pur senza trascurare taluni aspetti positivi in esso presenti, ravvisa essenzialmente nel VII Congresso l’atto di nascita del revisionismo che via via si affermerà nel movimento comunista mondiale e, in particolare, nel movimento comunista europeo. Tale giudizio sottolinea gli aspetti semi-opportunisti presenti nel discorso di Dimitrov e il tacito consenso di Stalin a un'impostazione che, ribaltando la direttrice rivoluzionaria del VI Congresso, rischiava di essere ambigua, come i fatti dimostreranno nel prosieguo delle vicende.

Del resto, anche per l'opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Sicuramente, il nodo non sciolto dal movimento comunista era, allora come oggi, quello del rapporto multilaterale, fatto di sovrapposizioni e di intrecci, fra guerra interimperialista e guerra di liberazione nazionale, così come tra democrazia borghese e fascistizzazione.

Sennonché la controprova della problematicità ed erroneità delle conseguenze teoriche e politiche che furono tratte dai gruppi dirigenti del movimento comunista che si misurarono con quel nodo - rapporto tra guerra interimperialista e guerra di liberazione nazionale ecc. ecc. - si ricava agevolmente da un esame del caso italiano, affrontando una questione cruciale che si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” (1944) e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il passaggio di Togliatti dal marxismo-leninismo al revisionismo? Non a caso, con rigorosa consequenzialità il medesimo processo di corrosione degenerativa delle basi del marxismo-leninismo, esemplificabile con la metafora del ferro e della ruggine, porterà Togliatti, vent’anni dopo la Liberazione, a teorizzare la c.d. “via italiana al socialismo”.

Nella ricerca della risposta corretta a questo interrogativo occorre tuttavia, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione, purché - cosa questa che non si è verificata in quanto, date le premesse, non poteva verificarsi - si sapesse distinguere e coniugare con la debita correttezza e con la massima chiarezza i tre concetti tattico-politici di 'fronte unico' (o ‘fronte unito’), 'fronte popolare' e 'fronte nazionale', mantenendo la centralità politica e strategica del proletariato quale soggetto rivoluzionario. Sennonché garantire tale centralità implicava in primo luogo, quale compito imprescindibile di un partito di classe, una lotta instancabile contro l'opportunismo sia di destra che di sinistra, facendo però battere l'accento più su quello che su questo. In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata.

In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, a impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico, usando la vaga formula della “democrazia progressiva” (un equivalente della DAM!), la quale, secondo la sua interpretazione, prospettava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi (ecco il browderismo più o meno camuffato sotto le vesti del gramscismo!). Insomma, in questo caso non fu Stalin a scambiare la tattica con la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo era la manifestazione più clamorosa a livello internazionale. 3

Tale linea era, da un lato, il prodotto della sfiducia nelle capacità e nelle possibilità rivoluzionarie del proletariato e dei suoi alleati, e dall’altro scaturiva dalla scelta di rimanere sul terreno preferito dalla borghesia e non su quello, più vantaggioso per il proletariato, di una lotta rivoluzionaria di massa per modificare i rapporti di forza e creare le condizioni della vittoria nel processo della rivoluzione ininterrotta che avrebbe dovuto portare dal capitalismo, attraverso la distruzione del fascismo, al socialismo/comunismo. Questo orientamento democratico-riformista era già evidente nelle istruzioni per la Direzione del partito che Togliatti inviò il 6 giugno 1944 “a tutti i compagni e a tutte le formazioni di partito”. In questo importante documento Togliatti, dopo aver affermato che la linea generale del partito è l’insurrezione generale delle regioni occupate contro i nazifascisti, precisa «che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata tutta l’Italia, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente». È quasi superfluo osservare che qui manca proprio il concetto di una rivoluzione ininterrotta per tappe ed è invece presente il riferimento ad una futura democrazia fondata sui partiti, sia borghesi che proletari (del resto, è opportuno rammentare che i CLN erano, per l’appunto, basati sui gruppi dirigenti dei partiti e non su organismi di massa). Le considerazioni qui avanzate alla luce del caso italiano confermano perciò la tesi sostenuta nell'articolo di Spanidis, secondo la quale il VII Congresso dell'Internazionale Comunista costituisce il 'terminus a quo' dello spostamento a destra del movimento comunista mondiale. 4

§ § §

Marx nella fondamentale Critica del programma di Gotha (1875) ha sottolineato la necessità del massimo sviluppo quali-quantitativo delle forze produttive in quanto ‘conditio sine qua non’ del passaggio al comunismo. Marx, inoltre, ha chiarito sul piano scientifico, e Lenin e Stalin hanno concretizzato sul piano pratico, l’importanza fondamentale del processo di accumulazione nella prima fase della società comunista (caratterizzata dal principio: “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro”, e di regola denominata come socialismo) al fine di realizzare il salto di qualità nella seconda fase del comunismo caratterizzata dal principio: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Pertanto la pianificazione centralizzata è una caratteristica fondamentale del socialismo ed è coessenziale alla instaurazione, nonché al mantenimento della dittatura del proletariato, oltre che allo sviluppo quali-quantitativo delle forze produttive. Le fasi storiche della transizione dal capitalismo al comunismo sono infatti tre: dittatura del proletariato, prima fase del comunismo (ossia socialismo), seconda fase del comunismo (ossia comunismo propriamente detto).

Forse nel ricco, articolato e complesso elaborato di Spanidis 5 sarebbe stato opportuno riservare uno spazio più ampio alla confutazione dell’idea secondo cui la proprietà statale è, nel quadro della transizione dal capitalismo al capitalismo, una nuova forma di sfruttamento, in genere definita con lo pseudoconcetto di “capitalismo di Stato” (pseudoconetto, questo, ben distinto dalla categoria leniniana indicata con la stessa espressione nel periodo della NEP). L’ostilità ideologica di principio verso la proprietà statale rappresenta infatti l’orientamento politico-sociale teoricamente adottato e sistematicamente applicato dalla borghesia negli ultimi decenni al fine di ridurre il peso delle imposte pubbliche sui patrimoni e sui profitti e di scatenare la concorrenza più rovinosa tra le diverse frazioni dei lavoratori salariati (privati e pubblici, autoctoni e immigrati, meridionali e settentrionali, stabili e precari, pensionati e attivi ecc.). Al contrario, occorre ribadire che la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere, seguendo un processo storico-dialettico, una delle contraddizioni fondamentali - e, nella fase di transizione, quella principale - del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendone il lato dialetticamente progressivo, costituito per l’appunto dalla pianificazione, a tutta la società). Così, la "regolamentazione socialmente pianificata della produzione" di engelsiana memoria (cfr. l’Anti-Dühring), cioè la pianificazione socialista, pur non determinando da sola il passaggio alla fase socialista/comunista, ne è la condizione di base essenziale.

La pianificazione socialista si configura, in altri termini, come la spina dorsale di una società nuova: espressione di una libertà conquistata e mezzo per consolidarla ed estenderla senza posa. Una società, per dirla con Gramsci, in cui tutti dirigono o controllano chi dirige. In conclusione, il massimo della centralizzazione statale (laddove questa è indispensabile per mettere fine allo “sviluppo ineguale” proprio del sistema capitalistico), insieme con il massimo del controllo popolare (laddove questo è altrettanto indispensabile per coinvolgere tutti i lavoratori nella pianificazione ed elevare la loro coscienza in quanto individui che rappresentano ed esprimono “insiemi di rapporti sociali”). La pianificazione diviene perciò, in una società socialista in marcia verso il comunismo, il principio vitale di ogni scelta di vita e l’espressione della massima libertà compatibile con l’allargamento della frontiera del ricambio organico tra natura e società umana.

Si tratta allora di capire che il partito comunista, come ben sapevano Lenin e Stalin, può diventare la sede dei maggiori pericoli che il socialismo incontra all’interno della società socialista e che questa verità ‘ex negativo’ discende dal meccanismo stesso di una produzione resa certamente “pubblica”, cioè statale, ma non ancora socializzata, talché la creazione di plusvalore continua, entro certi limiti, a sussistere e l’arduo compito della direzione politica e tecnica delle società socialiste è proprio quello di distribuirlo, attraverso la pianificazione, non solo in modo proporzionale fra i diversi settori della produzione e riproduzione, ma anche di usarlo, in termini di appropriazione collettiva del prodotto sociale, a fini parimenti sociali. Dunque, chi vuole rovesciare dall’interno il socialismo non può farlo che prendendo le mosse dal partito comunista, il che conferma il ruolo chiave del partito comunista nel mantenimento del potere e nella conduzione del processo di transizione dal capitalismo al comunismo. Durante la costruzione del socialismo il partito comunista riunisce infatti i dirigenti di tutti i settori della vita sociale: è quindi il posto dove più aspirano a entrare carrieristi, arrivisti e opportunisti di ogni specie.

“Il partito epurandosi si rafforza” (Stalin): questo ha quindi da essere il principio-guida per prevenire la degenerazione del partito, come dimostrano le misure concrete ripetutamente promosse dai grandi dirigenti rivoluzionari con le espulsioni, le epurazioni e i movimenti di critica di massa. È infatti inevitabile che dopo la conquista del potere uno dei punti in cui la lotta di classe diventa più acuta e senza esclusione di colpi sia proprio il partito comunista, la sua composizione, i suoi rapporti con il proletariato e con le larghe masse, la sua funzione educativa e pedagogica nei confronti della società, la sua linea. Non a caso i primi passi compiuti dai revisionisti moderni quando iniziarono ad affermarsi nella direzione del partito furono la cessazione delle misure per tutelare il carattere proletario del partito e l’introduzione di misure che favorirono l’ingresso dei carrieristi e provocarono la degenerazione del partito. Infine, per quanto riguarda l’importanza della competenza, è senz’altro giusto e necessario sostenere che i comunisti debbono diventare esperti, ma sostenere che la direzione è una questione principalmente tecnica vuol dire o non capire nulla dei processi sociali e dei compiti dei dirigenti in una società socialista o mirare a rovesciare il socialismo. Non a caso una delle parole d’ordine dei revisionisti moderni fu che un dirigente doveva essere principalmente un esperto, mentre la sua concezione del mondo e i suoi rapporti con le masse erano secondari.

Tornando allo scritto sui Problemi economici del socialismo nell’URSS, è opportuno precisare che si tratta di una raccolta di articoli pubblicata nel 1953 da Stalin il quale nel 1951 aveva proposto la pubblicazione di un Manuale di economia politica per diffondere tra i comunisti non solo sovietici ma di tutto il mondo gli insegnamenti tratti dall’esperienza di oltre quarant’anni di costruzione del socialismo in Unione Sovietica. La prima cosa da dire è che esso non costituisce una trattazione sistematica della questione della transizione, nemmeno per quanto concerne la sola esperienza sovietica. La sua importanza sta invece, oltre che nell’analisi di alcuni aspetti particolari della transizione, nel sottolineare questioni fondamentali come il carattere oggettivo delle leggi economiche e le contraddizioni fra paesi imperialisti: le stesse questioni che saranno al centro di un’altra importante discussione sulla legge del valore e sulla pianificazione centralizzata dell’economia nazionale - discussione che avrà luogo all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, nel vivo di un processo rivoluzionario che aveva operato il salto di qualità della presa del potere, fra Ernesto Che Guevara, ministro dell’Industria dello Stato cubano dopo la svolta in senso socialista compiuta dalla rivoluzione, ed economisti cubani e stranieri, fra i quali merita di essere citato l’economista francese Charles Bettelheim.

Va detto, d’altra parte, che la questione della transizione socialista, se per un verso è quella sul cui terreno si manifesta con grande evidenza nei paesi occidentali, sia a livello storico che a livello teorico, la subalternità dei rivoluzionari all’ideologia borghese, per un altro verso è una questione centrale per i comunisti dei paesi imperialisti, dal momento che questi ultimi, in linea generale e salvo isolate e circoscritte eccezioni, non hanno più saputo esporre il loro programma articolandone i contenuti alla luce della crisi generale del capitalismo e tenendo conto degli insegnamenti che vanno tratti dalle esperienze concrete della transizione socialista, che hanno caratterizzato il XX secolo e i primi due decenni del XXI. Da questo punto di vista, quello che colpisce – e che rivela l’immaturità di buona parte dei comunisti occidentali – consiste in ciò, che essi non hanno mai saputo porre la questione se non nei termini astratti e libreschi della abolizione del denaro, così come della legge del valore e della produzione mercantile, riproponendo in buona sostanza i contenuti e le forme del periodo del “comunismo di guerra” in Unione Sovietica. Sennonché, fino a quando le basi materiali dell’esistenza del denaro e della produzione e circolazione delle merci non vengono comprese, non è neppure possibile comprendere le condizioni della loro soppressione nella transizione verso il comunismo (e altrettanto dicasi per altre fondamentali questioni come la divisione tra lavoro intellettuale e manuale, tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, tra produzione socializzata e produzione individuale, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo).

In realtà, lo scritto di Stalin, nonostante il carattere, come si è detto, contingente e non sistematico che non consente di assumerlo come teorema di carattere generale, presenta vari aspetti di notevole pregio riguardanti la pianificazione dell’economia e la dialettica, finemente analizzata dall’autore, tra le varie forme di proprietà esistenti nella società socialista sovietica, tra le leggi oggettive e le pratiche istituzionali ecc. La questione dei fondamenti teorici della transizione può invece essere affrontata prendendo le mosse da un passo del terzo libro del Capitale (cfr. la Seconda sezione sulla “Trasformazione del profitto in profitto medio” in K. Marx, Il Capitale, Libro terzo a cura di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1968, in particolare le pp. 218 sgg.) in cui Marx, esaminando la legge del valore, prospetta, quale forma di scambio, quella di una società in cui gli operai siano essi stessi proprietari dei mezzi di produzione e quindi le merci non siano prodotti del capitale. Sennonché, osserva Marx a tale proposito, anche in una società comunistica di produttori associati i quali scambiano reciprocamente i prodotti del loro lavoro sussisterebbe una diversità della composizione tecnica del capitale pur socializzato. In questo tipo di società, poiché il tempo di lavoro dovrebbe essere uguale per tutti e, di conseguenza, i valori nuovi incorporati nelle merci dal lavoro sarebbero anch’essi uguali, i valori delle merci varierebbero solo in quanto, per adottare l’ottica capitalistica, varierebbero i saggi di profitto (ossia il rapporto tra il plusvalore e il valore complessivo dato dalla somma del capitale costante e del capitale variabile). Ma per i produttori di una siffatta società questa variazione non avrebbe alcuna influenza. Essi avrebbero infatti i loro eguali mezzi di sussistenza, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama salario, e inoltre riceverebbero eguali frazioni di valori, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama plusvalore.

In questo tipo di società la cui riproduzione è regolata razionalmente dall’autogoverno dei produttori, i profitti non avrebbero quindi alcun ruolo da esplicare e «la differenza del saggio del profitto sarebbe dunque nell’ipotesi fatta senza importanza, precisamente come per l’operaio salariato è oggi indifferente quale sia il saggio del profitto che corrisponde al plusvalore che gli è estorto, e precisamente come nel commercio internazionale la differenza dei saggi del profitto non interessa le diverse nazioni che scambiano i loro prodotti» (ivi, p. 219). Pertanto, in una società comunistica di liberi produttori il problema sarebbe soltanto quello di acquisire collettivamente il corrispettivo di ciò che nella società capitalistica si chiama salario e plusvalore, detraendo dal valore il capitale costante necessario al ricambio organico con la natura. Certamente, essendo diversi i valori delle merci, il produttore che lavora là dove la frazione di valore dei mezzi di produzione è maggiore avrebbe bisogno di fare degli anticipi maggiori che, argomenta Marx, «sarebbero rimborsati da una frazione maggiore del valore della sua merce, che sostituisce questa parte costante e in conseguenza... sarebbe costretto a riconvertire una parte più cospicua del valore complessivo del suo prodotto in elementi materiali di questa parte costante». Per converso, il produttore che lavora là dove è minore la frazione dei mezzi di produzione impiegati e maggiore la frazione di lavoro vivo «incasserebbe... una parte minore, ma avrebbe anche meno da riconvertire» (ibidem, p. 218). Questo significa che in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà collettiva e sono regolati dai produttori associati il problema del profitto non esiste in quanto non sorge il problema del rapporto tra il plusvalore e la totalità del capitale investito, mentre l’importanza del capitale costante si riduce al problema tecnico della ricostituzione (o dell’incremento) delle condizioni di base della riproduzione. Nella società comunistica il calcolo del valore passa quindi attraverso la separazione dei due suoi componenti (capitale costante e capitale variabile) con la correlativa destinazione del capitale costante allo sviluppo umano. In questo senso, non è difficile capire che oggettivamente il capitalismo sviluppato non è che la gestazione di questa separazione. D’altronde, in queste pagine del III libro del Capitale Marx riprende e approfondisce un tema analogo svolto nel I libro (cfr. la Prima sezione su “Merce e denaro” in K. Marx, Il Capitale, Libro primo a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 110), là dove egli delinea «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale». Nel III libro del Capitale (in questo passo che ha un’importanza centrale ai fini della comprensione dell’idea di valore) Marx riprende dal I libro proprio questa ipotesi e se ne avvale per dimostrare che in una società siffatta non sorge più il problema del profitto, ma solo quello della destinazione di ciò che nella vecchia società si chiamava salario e plusvalore. Tale ipotesi getta una viva luce sulla concezione marxiana del funzionamento della legge del valore nella società comunistica. Il problema allora non è quello di restaurare la legge del valore nella forma che ha caratterizzato la società nell’epoca del comunismo primitivo, ma è quello di instaurare un uso sociale delle forze produttive che assicuri la disponibilità individuale di ciò che, nel linguaggio mutuato dalla vecchia società, Marx chiama salario o plusvalore. Pertanto ciò che resta naturale e, in un certo senso, eterno non è la legge del valore nella forma in cui essa appare nella circolazione semplice, ma è qualche cosa di più profondo e di meno storico che si esprime nella tautologia secondo la quale ogni prodotto vale come oggettivazione del lavoro umano. Di conseguenza, il modo come tale legge naturale eterna si configura nella società comunistica non ha più bisogno di quel rapporto il cui rispecchiamento è dato dal profitto e il cui aggiustamento è imposto dal mercato, poiché, avendo come assi di riferimento l’appropriazione del plusvalore da parte dei lavoratori associati e la pianificazione razionale del ricambio organico con la natura, non è più mediato da rapporti formali, ma dall’intelletto sociale dei produttori.


Note
1 Il saggio di Thanasis Spanidis sulla politica antifascista del Comintern è reperibile in Rete al seguente indirizzo: https://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtml02-025563a001.pdf.
2 L’importanza storica e la rinnovata attualità teorica e politica delle analisi e delle tesi formulate dal VI Congresso dell’Internazionale Comunista sono chiaramente esposte e pienamente riconosciute nell’articolo che segue: https://associazionestalin.it/IC_6_intro.html.
3 Rivelatore fu l’atteggiamento di Togliatti nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform (1947-1956). Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “"Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e diluite nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana).
4 Per una disamina della genesi del revisionismo togliattiano nella cruciale congiuntura storica del periodo 1944-1948 si veda il seguente articolo: https://www.sinistrainrete.info/storia/30337-eros-barone-dalla-resistenza-alla-rivoluzione-la-via-esclusa.html. Non vi è dubbio, come sottolinea Spanidis, che anche nel dopoguerra l'Unione Sovietica sia stata oggettivamente costretta a una posizione difensiva, nonostante (e in parte proprio per) le notevoli acquisizioni territoriali ottenute nel corso della guerra. Muovendo da questa situazione, la dirigenza sovietica orientò i partiti fratelli europei a non sfruttare la condizione di instabilità del capitalismo postbellico per la conquista rivoluzionaria del potere, ma a contribuire alla stabilizzazione dell'ordine appena stabilito in Europa. Non si trattava di valutare l’esistenza o l’assenza delle condizioni per il successo di una rivoluzione: senza dubbio tali condizioni esistevano almeno in Grecia nel 1944, probabilmente in Italia nella primavera del 1945 e forse anche in Francia, ma non furono utilizzate nel senso di una rivoluzione socialista perché il movimento comunista mondiale di allora non riteneva di poter condurre la lotta antifascista come aspetto ed elemento della lotta per il potere.
5 Il saggio di Spanidis, intitolato «L’Unione Sovietica è “capitalismo di Stato” e “socialimperialista”?», può essere letto in Rete al seguente indirizzo:
https://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtmi21-025517a001.pdf.
6 Sulla logica dialettica della contraddizione in Lenin può risultare proficua la lettura dei seguenti articoli:
https://sinistrainrete.info/marxismo/20017-eros-barone-le-ragioni-del-materialismo-dialettico-di-lenin.html,
https://sinistrainrete.info/marxismo/16525-eros-barone-buscar-el-levante-por-el-ponente.html e
https://sinistrainrete.info/filosofia/29516-eros-barone-marxistizzare-la-dialettica-hegeliana-geymonat-colletti-e-althusser-a-confronto-con-lenin.html.
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