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marxismoggi

Le origini della Rivoluzione Cinese

di Salvatore Tinè

danzachina2La fondazione del Partito Comunista Cinese il 1° luglio del 1921 a Shangai costituisce certamente un passaggio fondamentale nella lunga e complessa vicenda della rivoluzione cinese. Tale avvenimento è infatti destinato a segnare una svolta decisiva nel processo rivoluzionario che, iniziato in Cina con il crollo dell’Impero e l’avvento della Repubblica nel 1911, già nel 1919 con il cosiddetto Movimento del 4 maggio aveva impresso nel paese una poderosa spinta verso una profonda modernizzazione politica e culturale del paese.

Le grandi manifestazioni studentesche e giovanili contro il trasferimento dei diritti della Germania sullo Shantung al Giappone deciso dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale con il Trattato di Versailles sono la prima grande manifestazione del carattere insieme nazionale e antimperialista della Rivoluzione cinese. Le decisioni ratificate nel Trattato di Versailles rivelavano il carattere del tutto illusorio e demagogico dei 14 punti di Wilson e delle idee di autodeterminazione dei popoli che le avevano ispirate. Esse dimostravano come nell’epoca dell’imperialismo, anche dopo la fine della prima guerra mondiale, non esisteva per la Cina una prospettiva riformista e pacifica di conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionali, ma solo una prospettiva democratico-rivoluzionaria. Il tema della modernizzazione al centro del sommovimento culturale della Cina teso al superamento della vecchia cultura feudale e alla conquista delle idee e dei valori di una cultura nuova e scientifica si intreccia a quello patriottico della difesa dell’indipendenza e dell’autonomia nazionale della Cina.

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antiper

Per una rilettura delle riletture dei “bienni rossi”*

di Marco Riformetti

biennio rossoIntroduzione

Nell’ambito del corso di Storia del movimento operaio e sindacale abbiamo avuto modo di leggere il testo di Steven Forti dedicato ai bienni 1919-1920 e 1968-1969 (FORTI [2009]).

Questo nostro intervento intende essere una sintetica analisi critica di quel testo che peraltro ripropone meritevolmente alla riflessione dei lettori e degli studiosi un’epoca storica – il biennio 1919-1920, detto “rosso” – di grandissima rilevanza per la storia del movimento operaio italiano (e se diciamo epoca, al singolare, e non epoche è perché malgrado l’intenzione dichiarata nel titolo in realtà il testo di Forti si sofferma quasi esclusivamente sul primo biennio rosso e accenna solo fugacemente al secondo – quello del 19681969 –).

Del resto, pur essendo certamente stimolante, il parallelo tra i due “bienni rossi” deve essere accolto soprattutto come suggestione. Basta infatti confrontare le premesse storiche – per il primo biennio: la Grande guerra e soprattutto la Rivoluzione d’Ottobre, con le relative conseguenze politiche e sociali…; per il secondo biennio: la rinascita del movimento operaio seguita al cosiddetto “miracolo italiano”, il ciclo di lotte di liberazione anti-imperialiste e anti-coloniali… – con gli esiti storici – per il primo biennio: la contro-rivoluzione fascista e la repressione del movimento operaio e “democratico”…; per il secondo biennio: lo sviluppo politico negli anni ‘70, i movimenti delle donne e dei giovani, la “strategia della tensione”, la guerriglia metropolitana… – per constatare che le similitudini sono piuttosto relative e spesso incentrate solo sul comune ricorso al termine “consigli” e sul relativo accostamento tra il movimento dei Consigli di fabbrica e delle occupazioni del 191920 e l’azione dei Consigli di fabbrica (in special modo nel triangolo industriale del Nord-Ovest, Milano-Torino-Genova) durante il cosiddetto “autunno caldo”.

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illatocattivo

La Comune di Parigi

Qualche lezione da un'insurrezione passata per un'insurrezione futura

di François Martin

[La Commune de Paris : quelques leçons d’une insurrection passée pour une insurrection future, ciclostilato, 1970; trad. it. in Karl Marx et alii, La Comune di Parigi del 1871 e la guerra civile in Francia, Edizioni La Vecchia Talpa, Napoli 1971, pp. 7-14; traduzione riveduta e corretta]

jk952odj«I proletari della capitale, di fronte alle deficienze e ai tradimenti delle classi governanti, hanno compreso che era giunta per essi l'ora di salvare la situazione prendendo nelle proprie mani la direzione degli affari pubblici... il proletariato... ha compreso che era suo dovere imperioso e suo assoluto diritto prendere nelle proprie mani i suoi destini, e di assicurarsene il trionfo impadronendosi del potere».

Così si esprimeva il comitato centrale della Guardia Nazionale nel suo manifesto del 18 marzo 1871. Alcune settimane dopo, questo stesso proletariato1 che aveva fatto tremare tutti i poteri reazionari d'Europa, veniva schiacciato. È proprio questa «situazione», che bisognava salvare, ad aver determinato la disfatta.

È in questa «situazione», nella sua concreta particolarità, e nella condizione del proletariato del tempo che bisogna cercare il segreto degli avvenimenti e in definitiva le cause del suo fallimento.

Da un secolo a questa parte, tutte le battaglie di classe, per poco che siano state vittoriose, sono state seguite dalla ricostituzione e dalla dominazione sempre più estesa del modo di produzione e di scambio capitalistici. Tanto meglio! Nella misura in cui la classe operaia non giungeva a porre le premesse di una trasformazione radicale, a instaurare il comunismo, le sue stesse lotte sembravano creare le condizioni di questa dominazione sempre più compiuta del capitalismo, distruggendo gli ostacoli che esso trovava sul suo cammino e dissolvendo le strutture arcaiche2.

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jacobin

Spettri della Comune

di Enzo Traverso*

Come spiegare la longevità e la freschezza del ricordo della Comune? La risposta si trova nella sua straordinaria dimensione simbolica. Il suo lascito è stato difeso o condannato, ma nessuno ha potuto sminuirne l’impatto

comune parigi jacobin italia 1320x481C’è una contraddizione paradossale tra l’ascesa e la caduta fulminea della Comune di Parigi, un’esperienza straordinariamente effimera la cui vita non superò i settantadue giorni, e la sua presenza durevole nella nostra coscienza storica.

Visto attraverso la lente di quella che gli studiosi chiamano convenzionalmente «storia globale», ciò che accadde a Parigi tra il 18 marzo e il 28 maggio 1871 è quasi insignificante. I lavori più recenti sulla storia del XIX secolo – si pensi alle opere di studiosi come Christopher Bayly e Jürgen Osterhammel – la evocano soltanto come un dettaglio minore della guerra franco-prussiana. Se l’Ottocento fu il secolo del decollo del capitalismo industriale e finanziario, dell’urbanizzazione e della modernizzazione, del consolidamento degli imperi coloniali e della persistenza dell’Antico Regime in un continente già dominato dalla borghesia, la Comune di Parigi non significa quasi nulla.

La Comune, infatti, non ebbe un ruolo decisivo neppure nella guerra franco-prussiana, poiché arrivò sette mesi dopo la capitolazione di Napoleone III e la proclamazione della Repubblica, e due mesi dopo la firma dell’armistizio che trasferì l’Alsazia-Lorena alla sovranità tedesca. All’inizio di marzo, l’esercito prussiano vittorioso aveva già sfilato sugli Champs-Élysées, previamente isolati dal resto della città con un «cordone sanitario».

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sinistra

La Cina e la Rivoluzione d'ottobre

di Marco Pondrelli

Questo articolo di Marco Pondrelli è contenuto nel libro collettivo “La Cina e il leninismo del Ventunesimo secolo” con contributi di F. Giannini, A. Pascale, M. Pondrelli, D. Burgio, M. Leoni e R. Sidoli, e si può trovare per intero su www.mondorosso.wordpress.com.

lenin itIl 1917 segnò la storia mondiale così come, ovviamente, la storia dei comunisti. Il movimento comunista internazionale si legherà all'esperienza sovietica facendo della difesa di quell'esperienza un imprescindibile fronte della sua battaglia. Guardando al resto del mondo Lenin e tutto il gruppo dirigente bolscevico sapevano che per rafforzare l'esperienza sovietica era necessaria la vittoria della Rivoluzione in Germania, paese che era individuato come il tassello fondamentale dello scontro. La rivoluzione tedesca fu però sconfitta e con essa la possibilità di far dilagare la rivoluzione nel resto d'Europa.

A questo punto a Mosca il confronto fra i bolscevichi si articola su due piani fra loro intrecciati, che ancora oggi attraversano il dibattito fra i comunisti.

Innanzitutto si crea una contrapposizione che potrebbe essere riassunta da due termini: cosmopolitismo e patriottismo. Dopo la morte di Lenin il dibattito si incarnerà nelle due figure di Stalin e di Trockij, quest'ultimo si fa portavoce della necessità di esportare la rivoluzione incarnando la prima posizione, quella cosmopolita. I comunisti non devono limitarsi a governare il loro paese ma devono esportare la rivoluzione nel mondo. Stalin incarna la seconda posizione. Trovo illuminante l'opinione di Luciano Canfora il quale scrisse che dopo la presa del potere i bolscevichi si trovarono “dinanzi ad un bivio: o compenetrarsi con il Paese e fare i conti con l'enorme peso della sua tradizione e della sua storia, ovvero continuare a mantenersi 'straniero in patria' in attesa della 'rivoluzione mondiale'. Un dilemma che si incarna […] in due persone concrete: Trockij, ebreo, cosmopolita e fortemente internazionalista; Stalin, georgiano e convinto assertore della necessità dell'innesto nel concreto terreno di 'un Paese solo' del credo comunistico”[1].

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la citta futura

Il Komintern e il fascismo

di Salvatore Tinè

Parte I

In questa prima parte dell’analisi sull’atteggiamento dell’Internazionale Comunista riguardo al fenomeno fascista, si mette in evidenza come il Komintern abbia rilevato fin dalla marcia su Roma la pericolosità del fascismo e il suo carattere internazionale in quanto espressione della crisi mondiale del capitale, e abbia individuato nella tattica del fronte unico la modalità per combatterlo

bbd44809af8bd382d98a1c38fe25dd14 XLIl tema del fascismo, delle sue cause e della sua natura, è al centro della discussione politica e dell’elaborazione strategica del Komintern già a partire dal suo IV Congresso apertosi a Pietroburgo il 5 novembre del 1922, pochi giorni dopo la marcia su Roma. Non sfugge al gruppo dirigente del “partito mondiale della rivoluzione” la dimensione internazionale degli avvenimenti italiani, il loro riflettere un contesto di generale controffensiva capitalistica che sembra rallentare i ritmi e i tempi del processo rivoluzionario innescato in Europa centrale e occidentale dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Di fronte alla sfida lanciata dalla prima rivoluzione operaia vittoriosa della storia, e nonostante l’estrema gravità della crisi economica e sociale seguita allo sfacelo della guerra imperialista, le classi dominanti del mondo capitalistico dimostrano di possedere ancora una forte capacità di resistenza e di tenuta politica e organizzativa. Il fascismo è una delle forme politiche che assume la controffensiva e la reazione borghesi. Di fronte a esse i comunisti sono chiamati proprio mentre si costituiscono come tali su basi totalmente rinnovate rispetto alle vecchie tradizioni del socialismo della II Internazionale, a muoversi e agire anche sul terreno della politica unitaria, sia per accumulare e unificare le forze rivoluzionarie che per conquistare la maggioranza del proletariato e una parte delle stesse masse popolari.

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machina

La potenza dell’anticipazione

di Matteo Montaguti

0e99dc 6ae821604e144651b9a2730a42cc50c1mv2Guido Bianchini è stato una figura decisiva nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico italiano, in particolare della sua matrice veneto-emiliana. Centrale è stato il suo apporto alle elaborazioni collettive e alla formazione di una generazione militante, benché la sua scarsa produzione letteraria, elemento controcorrente rispetto a un ambiente intellettuale in certi aspetti fin troppo prolifico, lo ha reso apparentemente clandestino alla dimensione cartacea, soprattutto se firmata. È stata quindi una figura fino a oggi colpevolmente trascurata dalla ricerca degli storici e dei militanti, cui finalmente, grazie al volume della collana Input di DeriveApprodi a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, e allo Scavi pubblicato su «Machina», Socrate a Porto Marghera. Inchiesta, anticipazioni e metodo militante di Guido Bianchini, si comincia a dare giustizia. Partendo da questi materiali Matteo Montaguti mostra le basi di un metodo calato nella prassi, per trasformare la potenza dell’anticipazione in forza organizzata, materiale e collettiva. Come probabilmente avrebbe pensato Guido, moltissimo c’è ancora da fare: moltissimo è possibile fare.

* * *

«Non potevamo rimanere a rimorchio dei fatti»

Guido Bianchini

Sgombriamo subito il campo. Guido Bianchini è stata una figura decisiva, baricentrale, nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico degli anni Sessanta, in particolare della sua matrice veneto-emiliana: un nodo importante nel filo che si dipana dal laboratorio delle riviste «Quaderni rossi» e «Classe operaia» e che arriva alla sperimentazione di Potere operaio – veneto-emiliano prima, gruppo nazionale poi – nei primi anni Settanta; un filo le cui fibre avrebbero continuato a intrecciarsi, volenti o nolenti, con le varie forme di conflittualità sociale organizzata – tra cui le esperienze dell’Autonomia – fino al termine (e oltre) del decennio.

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marxismoggi

Note sul movimento comunista internazionale. Dalla storia ad oggi

di Salvatore Tinè*

una pittura astratta di donna di notte su tela impressionismo moderno il modernismo marinism kgwf4yQuesto numero della rivista “Marx Ventuno” mi pare molto importante per vari motivi. In primo luogo, per gli elementi di informazione e di riflessione sullo stato attuale del movimento comunista internazionale contenuti nel rapporto del gruppo di ricerca della Accademia Marxista dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali. E’ un rapporto interessante perché la riflessione sullo stato dei principali partiti comunisti nel mondo contemporaneo e quindi sui modi e le forme anche nuove e originali in cui viene ridefinendosi l’unità del movimento comunista ne ripercorre le origini e la storia. Il centenario della nascita del Komintern caduto nel 2019 è stato per tanti partiti comunisti l’occasione per riflettere su una fase della loro storia per molti aspetti cruciale e decisiva.

E’ stato infatti proprio negli anni della nascita e della formazione dell’Internazionale comunista, come partito mondiale centralizzato della rivoluzione proletaria internazionale, ma imperniato sulla funzione dirigente del partito e dello stato sovietici, che il movimento comunista ha acquisito già nel corso degli anni ’20 e poi nel decennio successivo certo in uno dei periodi più drammatici e convulsi dell’intera storia mondiale, alcuni dei tratti caratteristici destinati a segnarne l’intera storia.

Come si rileva nel Rapporto dell’Accademia marxista cinese, questa forma organizzativa del partito mondiale centralizzato assunta dall’unità movimento comunista in quel periodo è stata oggetto di una approfondita riflessione critica e anche di giudizi e valutazioni diversi tra loro nel corso delle molte iniziative e dibattiti organizzati dai partiti comunisti in occasione del centenario del Komintern.

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Intervista a Karl Marx (1871)

di R. Landor

Landor, corrispondente del The World, intervista Marx a Londra il 3 luglio 1871. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi era stata soffocata nel sangue. Il testo venne pubblicato il seguente 18 luglio

0e99dc 02d17f1867224d06bf29025b8e4b3f23 mv2Londra, 3 luglio 1871. Mi avete chiesto di raccogliere informazioni sull’Associazione Internazionale e io ho cercato di farlo. Attualmente, si tratta di un’ardua impresa. Londra è indiscutibilmente il quartier generale dell’Associazione, ma gli inglesi sono spaventati e sentono odor d’Internazionale dappertutto, come re Giacomo sentiva odor di polvere da sparo dopo la famosa congiura. Naturalmente, il livello di consapevolezza dei membri dell’Associazione è aumentato con la sospettosità del pubblico e se gli uomini che la dirigono hanno un segreto da custodire, il loro stampo è tale da custodirlo bene. Ho fatto visita a due dei suoi esponenti più in vista; con uno di essi ho parlato liberamente e qui di seguito riferisco il succo della nostra conversazione. Mi sono personalmente accertato di una cosa, e cioè che si tratta di un’associazione di veri lavoratori, ma che questi lavoratori sono guidati da teorici politici e sociali appartenenti a un’altra classe. Uno degli uomini che ho visto, fra i massimi dirigenti del Consiglio, si è fatto intervistare seduto al suo banco da lavoro, e a tratti smetteva di parlare con me per ascoltare le lamentele espresse in tono tutt’altro che cortese da uno dei tanti padroncini del quartiere che gli davano da lavorare. Ho sentito quello stesso uomo pronunciare in pubblico discorsi eloquenti, animati in ogni loro passo dalla forza dell’odio verso le classi che si autodefiniscono governanti. Ho capito quei discorsi dopo aver assistito a uno squarcio della vita domestica dell’oratore. Egli deve essere consapevole di possedere abbastanza cervello da organizzare un governo funzionante ma di essere costretto a dedicare la sua vita alla più estenuante routine di un lavoro puramente meccanico.

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materialismostorico

Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti

di Roberto Fineschi (Siena School for Liberal Arts)

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

influenza spagnola   1. Pare che le epidemie siano un qualcosa di tipicamente umano, un tutt’uno con la vita associata. Quando nell’antica Mesopotamia sono nate le prime civiltà si è creato il contesto ideale perché esse prosperassero e si diffondessero. La vita comune di ingenti masse di individui che mangiano, bevono, espletano le proprie necessità fisiologiche, producono nello stesso luogo creò presupposti mai esistiti in precedenza per cui condizioni igieniche estreme e contiguità massiccia favorirono malattie e contagi; a ciò va aggiunta la convivenza promiscua con animali di vario tipo dai quali e ai quali trasmettere germi, bacilli ed ogni altra forma di vita potenzialmente nociva. La domesticazione umana, animale e ambientale va all’unisono con infezioni e malattie. Si calcola che, anche al tasso naturale di crescita, la popolazione mondiale dal 10.000 a.C al 5.000 a.C avrebbe dovuto almeno raddoppiare, invece, alla fine del periodo, essa era aumentata di appena un 25%, passando da 4 a 5 milioni, nonostante condizioni che in teoria avrebbero dovuto implicare anche più di una duplicazione (rivoluzione neolitica). Nei cinquemila anni successivi aumentò invece di una ventina di volte. Si ipotizza che, proprio a causa di epidemie e di un plurimillenario processo di adattamento della specie alle nuove condizioni di vita, l’espansione della popolazione sia stata drasticamente rallentata. Epidemiologicamente, si trattò con tutta probabilità del periodo più mortifero della storia umana. Sembra che le popolazioni mesopotamiche avessero già l’idea del contagio per trasmissione e che adottassero misure analoghe a quella della quarantena.

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maggiofil

La follia senza speranza della Comune

di Valerio Romitelli

comne parigi 1871La proporzione è quasi certa: più le figure di rivoluzionari sono state sfortunate, “dannate”, più sono oggi rivalutate; più le loro biografie sono state con esiti tristi e tragici, più la sensibilità dominante si dimostra benevola, favorendo e accogliendo persino saggi, articoli, video o film che ne celebrano le gesta. Si pensi ad esempio ai casi di Rosa Luxemburg, Benjamin, Gramsci, Che Guevara o le Pantere Nere, tutti finiti nei peggiori dei modi e negli ultimi anni oggetto di un non trascurabile culto culturale.

Una spiegazione facile facile non manca: così in effetti si confermerebbe la predominanza contemporanea di quello che è stato chiamato il “paradigma vittimario”. Sarebbe a dire la propensione a dire male di tutto e tutti i più noti protagonisti della Grande Storia, salvo appunto le vittime, i perdenti di qualunque provenienza; con, come morale della favola, che solo tra questi ultimi si possono trovare dei paladini di autentici valori, comunque mai operativi, se non idealmente, e solo per “anime belle”.

Un’altra spiegazione la troviamo in La rivoluzione napoletana. Biografie, racconti, ricerche del 1799 scritto da Benedetto Croce[1]. Secondo lui non c’è alcun mistero del perché i protagonisti, per lo più giovani e raffinati intellettuali (come la famosa ed ammirata Eleonora Fonseca Pimentel), di questo breve e alla fin fine quanto mai tragico evento non possono non suscitare simpatie. La chiave di questa benevola e immarcescibile fama postuma starebbe proprio nel precoce e cruento spegnimento della loro impresa ad opera di lazzaroni incitati dal clero più oscurantista.

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lafionda

Gli operai si organizzano in partito

A cento anni dalla nascita del PCd’I

di Cristina Quintavalla

pdci nascita“Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne ed ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e di resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perchè da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano stati ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento famigliare, eppure hanno resistito per un mese[…] sapevano che ormai alla classe operaia erano stati tagliati i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat.”[1]

Questo articolo de L’Ordine nuovo fa riferimento alla cocente sconfitta subita dai lavoratori della Fiat dopo l’estrema lotta ingaggiata all’annuncio da parte della dirigenza dell’azienda e di altre fabbriche di Torino di voler licenziare migliaia di operai.

In particolare il 16 marzo 1921 la Fiat, in crisi, come altre aziende costrette a riconvertire la produzione da bellica in civile, comunicò la volontà di licenziare 1500 operai e di ridurre l’orario di lavoro agli altri.

Alle proteste operaie Agnelli contrappose la serrata e fece presidiare le officine dall’esercito.

Il 6 maggio, dopo una lunga resistenza, gli operai, quelli non licenziati, furono richiamati al lavoro uno ad uno, su chiamata individuale. [2] Col capo chino, a testa bassa, sconfitti, umiliati rientrarono nei loro stabilimenti dove pochi mesi prima avevano innalzato le bandiere rosse sulle ciminiere.

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conflitti e strategie 2

Una vera donna

di G. P.

rosa luxemburg grav ll mese scorso è stato l’anniversario della nascita della comunista polacca Rosa Luxemburg. Il contributo teorico di costei alla comprensione degli eventi della sua epoca storica è stato piuttosto fuorviante ma la sua passione rivoluzionaria non può essere messa in discussione, considerato che pagò con la vita il tentativo di una sollevazione socialista in Germania.

La sua polemica con Lenin sull’importanza del partito e dell’avanguardia organizzata nei processi rivoluzionari, che la Luxemburg negava perché confidava nella spontaneità della classe operaia, portò il russo ad affermare che: “le aquile possono saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline non potranno mai salire alle altitudini delle aquile. Rosa Luxemburg sbagliò sulla questione dell’indipendenza della Polonia; sbagliò nel 1903 nella sua valutazione del menscevismo; sbagliò nella sua teoria dell’accumulazione del capitale; sbagliò nel luglio 1914, quando, con Plekhanov, Vendervelde, Kautsky ed altri, sostenne la causa dell’unità tra bolscevichi e menscevichi; sbagliò; in ciò che scrisse dal carcere nel 1918 (corresse poi la maggior parte di questi errori tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, dopo esser stata rilasciata). Ma a dispetto dei suoi errori lei era – e per noi resta – un’aquila”.

La Luxemburg aveva, inoltre, fornito una interpretazione del capitalismo assolutamente errata, purtroppo recuperata anni dopo dalle correnti terzomondiste e “sottosviluppiste” che fecero perdere altro tempo sull’intendimento  delle questioni sostanziali della dinamica capitalistica.

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thomasproject

L’urbanesimo rivoluzionario e la critica della vita quotidiana della Comune di Parigi

di Francesco Biagi

[La redazione di Thomas Project pubblica in forma estesa l’intervento orale di Francesco Biagi intervenuto nel convegno online “La Comune di Parigi 150 anni dopo” (qui il video completo del convegno organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista). Una versione più breve di questo testo sarà pubblicata la prossima settimana, in un volume che raccoglie gli atti per le edizioni della rivista settimanale “Left”]

Schermata 2021 03 19 alle 02.25.39Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza “dell’ordine naturale”, deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano. (Mark Fisher, Realismo Capitalista, p. 53)

In questo intervento cercherò di esporre brevemente l’innovativa interpretazione che Henri Lefebvre ha dato della Comune di Parigi. Non c’è qui lo spazio per raccontare l’importanza dell’autore ancora troppo ignorato nel dibattito marxista italiano, ma ci basti pensare che nella sua vita si occupò di riattualizzare il contributo di Marx ed Engels alla luce dei problemi posti dalla modernità capitalistica lungo il XX secolo. Mi concentrerò in modo particolare sull’evento della Comune in quanto (1) “rivoluzione urbana” capace di sovvertire l’oppressione di classe imposta a livello spaziale e urbanistico e in quanto (2) possibilità realizzata di trasformazione concreta della vita quotidiana grazie all’agire politico del movimento operaio. È necessaria tuttavia un’altra piccola postilla: le riflessioni di Lefebvre che qui espongo, come vedremo, sono fortemente debitrici delle discussioni che l’autore ha intrattenuto con Guy Debord e l’Internazionale Situazionista.

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jacobin

L’alternativa possibile della Comune di Parigi

di Marcello Musto

Il 18 marzo del 1871 scoppiò in Francia una nuova rivoluzione che mise in pratica la democrazia diretta e l'autogoverno dei produttori. Quell'esperienza indica ancora come si può costruire una società radicalmente diversa da quella capitalista

comune parigi jacobin italia 990x361I borghesi avevano sempre ottenuto tutto. Sin dalla rivoluzione del 1789, erano stati i soli ad arricchirsi nei periodi di prosperità, mentre la classe lavoratrice aveva dovuto regolarmente sopportare il costo delle crisi. La proclamazione della Terza Repubblica aprì nuovi scenari e offrì l’occasione per ribaltare questo corso. Napoleone III era stato sconfitto e catturato dai tedeschi, a Sedan, il 4 settembre 1870. Nel gennaio dell’anno seguente, la resa di Parigi, che era stata assediata per oltre quattro mesi, aveva costretto i francesi ad accettare le condizioni imposte da Otto von Bismarck. Ne seguì un armistizio che permise lo svolgimento di elezioni e la successiva nomina di Adolphe Thiers a capo del potere esecutivo, con il sostegno di una vasta maggioranza legittimista e orleanista. Nella capitale, però, in controtendenza con il resto del paese, lo schieramento progressista-repubblicano era risultato vincente con una schiacciante maggioranza e il malcontento popolare era più esteso che altrove. La prospettiva di un esecutivo che avrebbe lasciato immutate tutte le ingiustizie sociali, che voleva disarmare la città ed era intenzionato a far ricadere il prezzo della guerra sulle fasce meno abbienti, scatenò la ribellione. Il 18 marzo scoppiò una nuova rivoluzione; Thiers e la sua armata dovettero riparare a Versailles.

 

Di lotta e di governo

Gli insorti decisero di indire subito libere elezioni, per assicurare all’insurrezione la legittimità democratica. Il 26 marzo, una schiacciante maggioranza (190.000 voti contro 40.000) approvò le ragioni della rivolta e 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della rivoluzione.