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Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes

di Carlo Formenti

Marchiodoc Giuseppe Di Vittorio.jpgL’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.

Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.

Una volta incisa nell’opinione pubblica l’idea che la crisi iniziata negli anni Settanta era attribuibile alle intemperanze del sindacalismo di base e dei consigli dei delegati di reparto, (e non alla fine della copertina balzano.jpegbonanza delle materie prime a buon mercato, ai conflitti interimperialistici, all'avvio di un nuovo ciclo di finanziarizzazione dell'economia, ecc.), e una volta imboccata la via della "compatibilità" fra livelli salariali e margini di profitto, si è scesi lungo un piano inclinato sempre più ripido. Incassata la sconfitta della Fiat nel 1980, celebrato (con la scarsa opposizione, se non con la benedizione, di una sinistra sempre più sensibile alle sirene neoliberali) il divorzio fra Banca Italia e Tesoro (1981), a partire dal quale è divenuto impossibile ricorrere al debito pubblico per finanziare politiche economiche anti regressive, si è benedetto il compromesso storico PCI-DC celebrato all'insegna dell'austerità come valore "di sinistra" (2). Finché nel 1985 i sindacati, sposando la tesi che attribuiva la causa dell'inflazione al meccanismo di indicizzazione dei salari, firmano il protocollo Scotti che taglia del 15% la scala mobile, che verrà finalmente soppressa nel 1992, lo stesso anno di quel Trattato di Maastricht che segna la definitiva abdicazione dello Stato italiano alla possibilità stessa di praticare politiche economiche anticicliche.

La cronistoria che Balzano stende dei tradimenti perpetrati nei confronti degli interessi dei lavoratori si articola su due linee, parallele ma strettamente connesse. Da un lato, si impegna a smascherare il mito di un'Europa chiamata a legittimare le politiche di contenimento di retribuzione e spesa pubblica come via obbligata per evitare la catastrofe del fallimento. Un’Europa che letteralmente non esiste, scrive Balzano, ove si consideri che non condividiamo una lingua né un’identità comuni, né tanto meno, uno spirito solidaristico unitario; ma se non esistono una comunità o un popolo europei, esiste la UE in quanto sistema giuridico, ingegneria istituzionale, un organismo che, ancorché privo di legittimazione democratica, può dettare ai paesi membri le politiche pubbliche. Esiste l'Europa come spazio che impone la concorrenza fra stati per attirare capitali garantendo bassa pressione fiscale, tagli allo stato sociale, basso costo del lavoro. L'Europa che nel 2012 ci ha imposto di integrare il Fiscal Compact nella Costituzione, cancellandone con un tratto di penna tutti gli articoli formulati a tutela della dignità del lavoratore e del cittadino.

Dall'altro lato l'autore elenca gli obiettivi che, sfruttando l’inquadramento del Paese nella gabbia europea e la trasmigrazione di vertici sindacali e partitici sotto i vessilli del liberismo, questa spietata guerra di classe dall'alto (3) è riuscita a realizzare sul fronte interno. Di anno in anno, accusa, la classe operaia è stata inondata di menzogne, un coro cui hanno partecipato non solo sindacalisti e politici ma anche intellettuali, studiosi, giornalisti unanimemente impegnati ad assicurare, in occasione di ogni taglio di salario diretto e indiretto (sanità, pensioni, welfare), e di ogni cambiamento peggiorativo delle regole sui contratti di lavoro, che questi “sacrifici” avrebbero garantito un aumento dell’occupazione.

Ciò che in realtà si è ottenuto è stato l’aumento della precarietà. Così, in un crescendo culminato con il famigerato Jobs Act varato da Renzi, i lavoratori hanno “conquistato”: la liberalizzazione dei contratti a termine; i contratti di apprendistato che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento semi gratuito di persone congelate a tempo indeterminato nello status di lavoratori “in formazione” e “in prova” (per tacere dell’alternanza scuola-lavoro, che ha consentito di imporre a migliaia di studenti di sgobbare gratuitamente, e di pagare un sanguinoso tributo alla strage dei caduti per incidenti sul lavoro); la creazione di un esercito di finte partite Iva, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei “privilegi” dei colleghi regolarmente assunti (operazione accompagnata da una tambureggiante retorica sulle magnifiche sorti e progressive di una nuova generazione di aspiranti “imprenditori di se stessi”); infine, a correzione dell’ “eccesso di tutela” garantito dallo Statuto dei lavoratori, i vincitori delle cause contro licenziamenti immotivati non hanno più potuto ottenere la reintegrazione del posto di lavoro ma solo modesti rimborsi.

Per colmo di ironia, una volta creato questo variegato esercito di precari, lo si è aizzato contro gli ingiusti “privilegi” di lavoratori garantiti e pensionati, tentando di dirottare la rabbia delle nuove generazioni contro gli anziani, una delle tante guerre fra poveri al pari dei conflitti fra uomini e donne, immigrati e autoctoni, ecc. Nel frattempo, le sinistre liberal progressiste sventolavano la bandiera arcobaleno (simbolo di quei diritti civili – riservati a individui e gruppi minoritari (4) - che Balzano definisce senza peli sulla lingua il nuovo oppio dei popoli) dimentiche di essere le prime responsabili della falcidia di salari, occupazione e stato sociale. Nel corso dei decenni in cui l’esercito del lavoro abbandonato dai propri generali passava di sconfitta in sconfitta, l’unico provvedimento in controtendenza è stato, pur con i suoi limiti, quel Decreto dignità varato nel 2018 dal governo M5S – Lega, provvedimento che, nella misura in cui poneva un minimo argine agli effetti dell’abolizione dell’Articolo 18, è stato criticato da PD e CGIL perché foriero di rischi di “irrigidimento” del mercato del lavoro. A rassicurare i padroni in merito ai rischi in questione hanno del resto provveduto i successivi governi Draghi e Meloni.

A questo punto perché non guardare con favore alla proposta di istituire un salario minimo fissato per legge? In primo luogo, risponde Balzano, perché a sostenerla sono gli stessi soggetti, come la UE, le sinistre liberal progressiste e persino la Confindustria (“non poniamo ostacoli, anche perché noi già paghiamo di più”) che hanno gestito lo scempio dei diritti delle classi lavoratrici appena descritto: timeo danaos et dona ferentes, per citare l’avvertimento di Laocoonte agli imprudenti troiani che si apprestavano a introdurre il cavallo nelle mura cittadine. Per corroborare il proprio sospetto, Balzano cita fra gli altri il guru del neoliberismo von Hayek: l’uomo che aveva individuato nell’Europa il dispositivo ideale per abbattere il costo del lavoro si è infatti speso a favore di un reddito minimo “per impedire che i poveri possano rappresentare una minaccia”.

Eppure, gli si potrebbe obiettare, è indubbio che i lavoratori non coperti da contratti collettivi potrebbero trarne giovamento. Vero, replica Balzano ma, a parte il fatto che lavoratori in nero e finti autonomi ne resterebbero fuori, si tratterebbe comunque di una minoranza, visto che la maggioranza gode di retribuzioni superiori alle soglie minime previste. Ma soprattutto, aggiunge, il rischio è che, in un contesto di debolezza contrattuale, il salario minimo legale potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni. Un simile provvedimento potrebbe funzionare solo in un contesto contrattuale favorevole alla forza lavoro, svolgendo il ruolo di base retributiva incomprimibile per gli strati più deboli e di primo gradino di una mobilità verso l’alto per quelli più forti, viceversa, in un contesto di debolezza generalizzata, qual è quello attuale, agirebbe da “tappo”, legittimando il rifiuto padronale nei confronti di ogni velleità di aumento (vi diamo già più del minimo) o addirittura le decurtazioni di salari “eccessivi” in situazioni di crisi aziendali e/o di crisi settoriali o generalizzate (non possiamo darvi più del minimo fissato per legge, ed è già fin troppo). Del resto, scrive Balzano, la stessa CGIL ha già siglato contratti che prevedono paghe sotto i 9 euro l’ora (cioè la base che si ipotizza per il salario minimo legale).

Per capire il vero nodo sollevato da Balzano, occorre però andare al di là delle argomentazioni fin qui esposte. Il fatto è che la sua diffidenza è rivolta in generale contro la regolazione politica dei rapporti di forza fra classi sociali. Un esempio? I diritti acquisiti con lo Statuto dei lavoratori, argomenta, sono stati operativi solo finché gli operai hanno avuto la forza di imporne l’applicazione. Venuta meno tale condizione si è capito come quella “conquista” fosse servita a congelare, istituzionalizzandolo, il processo di democratizzazione delle imprese innescato dalla rivoluzione dei delegati di reparto, per poi decapitarlo in una fase successiva. Insomma: le vere conquiste non derivano dalla legge ma dagli equilibri di potere, solo i lavoratori possono salvare i lavoratori, mentre delegare alla legge (cioè alla politica) la gestione dei loro interessi “significa firmare una cambiale in bianco ai partiti”, gli stessi che li hanno massacrati.

Eppure nemmeno Balzano può esimersi dall’evocare la legge nella sua forma più alta, vale a dire quegli articoli della nostra Costituzione che trattano del lavoro, per spiegare a quale modello dovrebbero a suo avviso ispirarsi i rapporti fra capitale e lavoro. Un modello al quale, sembra di capire da alcuni passaggi del libro, si sarebbe in qualche modo avvicinato, pur senza realizzarlo, il capitalismo del trentennio postbellico, (un modello capitalistico “che è stato svenduto” scrive). Dopodiché riconosce che quel modello costituzionale appare oggi insostenibile (5), per cui conclude ammettendo francamente di non essere in grado di proporre una pars construens, tanto è vero che l’unica affermazione “positiva” che ho trovato nel libro è che ci vorrebbe un sindacato “animato da una visione del lavoro e della società”. Perché piuttosto non un partito radicalmente altro da quelli che giustamente critica, un partito diverso sul piano di principi, valori e modalità di intervento politico e sociale? Evidentemente perché Balzano è a sua volta parte di quella cultura radicalmente antipolitica che caratterizza anche l’ala più onesta e incazzata (tanto da rivendicare il proprio diritto all’odio di classe) di una sinistra occidentale ormai arresasi alle ragioni del verbo liberale. Una cultura che, nel suo caso, assume toni che non esisterei a definire pansincalisti, visione di cui la sua generosa denuncia sconta inevitabilmente i limiti. Vedi laddove scrive che quello del lavoro è un mercato, non un mercato qualunque ma pur sempre un mercato; ebbene: questo è esattamente il confine al di là del quale nessuna prassi sindacale, anche la più radicale, potrà mai spingersi. Oltre c’è solo il riconoscimento di Marx - ma anche di Polanyi (6) – che la forza lavoro (non il lavoro!) è, al pari della terra e del denaro, una finta merce, e che questa finzione, su cui si fonda l’oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici, può essere superata solo da una società socialista, magari “imperfetta”, come quelle di cui mi occupo nel mio ultimo libro (7), ma in cui è comunque la politica a governare sull’economia e non viceversa.


NOTE
(1) Savino Balzano ha pubblicato Contro lo smart working (Laterza 2021) e Pretendi il lavoro (GOG Edizioni 2019)
(2) Parlando delle responsabilità di Berlinguer, Balzano usa il termine "ingenuità", parola decisamente blanda per un leader di sinistra che ha dichiarato di sentirsi protetto dall'ombrello della NATO
(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
(4) Per dirla tutta la cultura dei diritti civili (con il suo corredo di linguaggi "politicamente corretti") inalberata dalle sinistre postmoderne è qualcosa di più e di peggio di un nuovo oppio dei popoli: è l'ideologia ufficiale della sinistra del capitale, come l'ho definita nel mio Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023). E i popoli ne sono talmente consapevoli che, quando non si astengono, votano a destra in odio ai partiti che ne professano i valori.
(5) Posto che il modello di capitalismo cui si riferisce Balzano è, se non sbaglio, quello dell'economia mista che ha caratterizzato il trentennio postbellico nel nostro come in altri Paesi occidentali, inspirato al compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, è giusto dire che appare oggi insostenibile, anche se va precisato che è tale per ragioni politiche e non economiche, in quanto politiche che un tempo avremmo definite socialdemocratiche e riformiste oggi potrebbero essere imposte solo con metodi rivoluzionari (tanto è vero che le uniche economie miste nel mare del neoliberismo globale si trovano oggi nei Paesi socialisti di Asia, Africa e America Latina).
(6) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
(7) "Elogio dei socialismi imperfetti" è il titolo del secondo volume di Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023) in cui analizzo l'esperienza cinese e quelle di alcuni Paesi latinoamericani.

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AlsOb
Sunday, 31 March 2024 15:47
La logica andrebbe preservata, invece, da decenni, la supposta sinistra è diventata lo stereotipo della assenza di logica e intelligenza e il regno di mezze calzette spregiudicate, come già osservava Pasolini.
Del resto con ingenua, irrazionale passione per decenni si sono fatti abbindolare e diseducare da giornali e bollettini neoliberali fascisti sedicenti progressisti e comunisti. Pertanto l'unica (s)logica sopravvissuta tende a essere quella di rifiutare e etichettare a priori ogni tentativo di pensiero critico come logorroica analisi e pervicacemente affidarsi a autolesionisti emotivi e fragili slogan.
I dominanti nella istituzione della praxi del neoliberalismo hano incluso paradigmaticamente e astutamente una robusta e efficace ontologica dialettica fascista, da un lato i neocons responsabili delle politiche di demolizione dello stato sociale e dello stato tout court, della finanziarizzazione e dell’aggressivo imperialismo e dall’altro la catturata sinistra incaricata di fare proselitismo neoliberale e agitare sciocche ma funzionali distrazioni.
Probabilmente, secondo una logica di reddito e consumi i proletari avevano molteplici ragioni per votare la DC, che con il suo modello di accumulazione capitalistico marxiano kaleckiano generò incremento di redditi e consumi.
Forse meno motivazione potrebbero avere a votare partiti di sinistra che per obbligatoriamente adeguarsi a attuare un programma imperialistico e neoliberale, (interpretato come l’unica alternativa concessa), produce inesorabilmente e prevedibilmente diminuzione dei redditi e povertà per i più e stratosferici arricchimenti per i pochissimi padroni del mondo.
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Italo Pelinga
Saturday, 30 March 2024 18:25
Il fatto che in tutto questo ragionamento, con tanto di citazione forbita, alla fine manchi la "pars construens" non è dettaglio da poco. Infatti sta proprio lì il difficile, indicare un progetto pratico e soprattutto praticabile, che sia un po' più credibile di una semplice evocazione della rivoluzione proletaria che nessuno vuole nelle società anestetizzate dal consumismo, soprattutto tra i "proletari" (e non mi dite che la gente vota a destra perché la sinistra non fa più la sinistra). Il lamento ricorrente ormai come un mantra del tradimento della sinistra trasformata in una "sinistra del capitale" da Lama e Berlinguer in giù, non spiega il vero motivo per cui questo sia avvenuto, ammesso che veramente sia avvenuto, almeno così come semplicisticamente viene narrato. La cosa sarebbe plausibile se fosse un problema solo italiano, quando invece la "sinistra" arranca un pò ovunque, il che vuol dire che quanto meno il capitalismo perfetto ha conquistato anche i "socialismi imperfetti" e non con un antiquato cavallo di Troia, ma oltre che con l'anestetico di cui sopra, anche con la tattica più raffinata e cinica dell'incaprettamento: più ti agiti per liberarti dai lacci e più il cappio si stringe e ti strozza. Alla sedicente "vera sinistra" non rimane che elucubrare contorte e verbose analisi socio-filosofiche che sono come le pomate, che servono solo a chi le fa e a chi le vende.
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AlsOb
Saturday, 30 March 2024 11:34
Ampiamente condivisibili le conclusioni dell’autore dell’articolo.

Il progetto unitario dei colonizzati poodles europei, fin dall'origine, si è basato sul più estremistico e fanatico paradigma neoliberale, (entusiasticamente sostenuto dalla sedicente sinistra), secondo il quale, contro ogni insegnamento di Adam Smith, Marx, Keynes, Minsky, e contro la ragione e il buon senso, i mercati finanziari, supposto perno del funzionamento del capitalismo neoliberale, sarebbero armonicamente in equilibrio e efficienti. Di conseguenza sono state applicate ciecamente e nazisticamente le più dogmatiche e sconclusionate politiche economiche e finanziarie liberistiche, dagli esiti non poco contraddittori.
Un fatto degno di rilievo, che si dovrebbe studiare nella sua unicità e arbitrarietà di invasivo autoritarismo, è il ruolo e compito politico che la banca centrale si è assunto, nel promuovere sistematicamente l’adozione delle più intransigenti misure deflazionistiche contro i lavoratori, il salario, le pensioni e lo stato sociale.
Dispongono perciò di qualche solido argomento coloro che ritengono che solo gli ingenui, (o disperati), e quelli in malafede possono credere che in un quadro di rapporti di forza caratterizzato dal dominio incontrastato del capitale, specie finanziario e delle sue numerose e stolte marionette politiche e tecniche non elettive, il concetto derivato di salario minimo incorpori una qualche minima intenzione e funzione di difesa dei redditi dei lavoratori, ai quali peraltro, nel clima di fascismo velocemente emergente, viene anche prospettato l’obbligo di prepararsi a fungere come schiavi da carne da cannone.
Per esempio il salario minimo nei numerosi paesi di bidonvilles e favelas, paesi nei quali, al netto di vernici democratiche, la classe dominante detiene il potere reale assoluto, il salario minimo è soprattutto il sanzionamento e legittimazione di feudalesimo e salari appena o al di sotto della sussistenza, a garanzia di eternità delle bidonsville e favelas e della concentrazione di redditi e ricchezza.
PS. Il concetto marxiano di oppio continua a essere frainteso e più in sintonia con le guerre dell'oppio associato a pratiche di criminalità della guerra di classe dei dominanti.
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Nicolai
Friday, 29 March 2024 11:44
Il salario minimo e' cosi come applicato nei vari Paesi, una garanzia contro il supersfruttamento. Un lavoratore in nero potrebbe rivendicare un salario appunto minimo e in questo appoggiato da una legge dello stato. Un lavoratore che guadagna al di sotto del salario minimo legale potrebbe rivendicare un adeguamento, in forza della legge. Forse bisognerebbe spiegare che salario minimo non significa che tutti devono guadagnare un minimo . Queste sono argomentazioni da ignoranti o che si fingono tali. Il contratto collettivo di lavoro non e' in competizione col salario minimo. Il CCL va avanti per fatti suoi. Cio' di cui si tratta di garantire e' la fascia, sempre piu' numerosa, di lavoratori precari o nelle varie forme di sfruttamento che non hanno nessuna protezione. Bisogna essere sindacalisti aristocratici per fare opposizione a una legge che garantisca un salario minimo vitale da adeguare ogni anno in relazione all'inflazione.
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