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“La guerra e l’oligarchia finanziaria”

Recensione del saggio di Federico Fioranelli

di Ascanio Bernardeschi

Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico rendono necessario l’intervento dello Stato, ma le classi dominanti preferiscono la spesa pubblica per la guerra a quella sociale. Nella fase monopolistica del capitalismo si ha l’intreccio fra industria e finanza e la trasformazione delle economie dei paesi occidentali in parassitari e usurai, sorretti dalla potenza militare

9788869247033.jpgFederico Fioranelli è un giovane docente di economia politica, autore di diversi articoli e saggi sia di teoria economica che di analisi delle concrete economie, facente parte del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.

A fine 2023 ha pubblicato per le edizioni Simple di Macerata il libro La guerra e l’oligarchia finanziaria, che è un’analisi dell’economia di guerra nell’attuale fase di finanziarizzazione dell’economia, un agile volumetto di 94 pagine, inclusa la ricca bibliografia, dalla lettura molto scorrevole.

La tesi da cui parte questo lavoro è che non è stata tanto la spesa civile ma quella militare, in particolare quella degli Usa, che ha consentito di sostenere, tramite il moltiplicatore keynesiano, la domanda e quindi di scongiurare per alcuni decenni la recessione. Questa tesi è sostenuta dopo un excursus essenziale ma illuminante della storia economica degli Usa, mettendo in fila una serie di dati statistici assai utili, che evidenziano la stretta correlazione fra spesa militare e crescita economica.

Fioranelli ci fornisce anche una spiegazione della preferenza per la spesa militare su quella civile, che pure sarebbe ugualmente in grado di attivare il moltiplicatore. Tale preferenza non sta solo nelle ragioni geostrategiche e nella natura imperialistica degli States, ma esiste anche una spiegazione più strettamente economica: mentre la spesa civile sottrae spazio al settore privato, quindi ai profitti, quella militare, attivando le imprese private del comparto, non presenta questo inconveniente. Inoltre la militarizzazione produce “un rispetto cieco per l’autorità” e “una condotta di conformismo e di sottomissione” che rassicura l’oligarchia finanziaria riguardo alla “sua autorità morale” e alla “sua posizione materiale” (p. 50). Ciò spiega perché, dopo la grande crisi del ’29-30, il new deal di Roosevelt abbia incontrato forti resistenze da parte delle classi dominanti e in ragione di ciò sia stato attuato in forma timida e contraddittoria, non producendo i risultati sperati, risultati ottenuti pienamente invece con la corsa agli armamenti a partire dal 1940.

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economiaepolitica

Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare

Crisi di egemonia e pulsioni belliche degli Stati Uniti d’America

di Aldo Barba, Massimo Pivetti

1709289785001.jpegI. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie

La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati ​​è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.

 

II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito

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sbilanciamoci

La trappola dell’efficienza

di Mauro Gallegati, Pier Giorgio Ardeni

La crescita del Pil di oggi è sempre più realizzata a scapito del benessere futuro, e la crisi ecologica è un segno di come il mercato non possa funzionare come regolatore del sistema economico. Un’anticipazione dal libro “La trappola dell’efficienza”

1485415336 sironi paesaggio urbano cam.jpgIl capitalismo ha cambiato il mondo di vivere di gran parte dell’umanità, migliorandone enormemente le condizioni materiali di vita.

Negli ultimi duecento anni, l’aumento del reddito globale e medio – oggi incomparabilmente maggiore di ogni altra epoca – è avvenuto in modo non uniforme per tutti i Paesi e le fasce sociali, beneficiando più alcuni di altri, sistematicamente, provocando una distribuzione delle ricchezze iniqua. L’aumento del reddito non è stato lineare e costante, ma soggetto a variazioni e a crisi che hanno contribuito a esacerbare le disparità. A ciò si aggiunga che lo sviluppo capitalistico industriale ha portato a un degrado ambientale sempre più insostenibile, all’origine della crisi ecologica attuale, di cui il riscaldamento globale è solo un aspetto.

Il nostro benessere, che era parso migliorare a ritmi vertiginosi negli ultimi decenni, ci appare compromesso se guardiamo a come sostenerlo. Vi sono tante storture nella distribuzione, nei meccanismi di funzionamento del sistema, nei presupposti per la sua riproducibilità, che è lo stesso capitalismo ad apparirci giunto a un punto critico. Oggi non siamo più sicuri che esso sarà in grado di produrre ulteriore benessere. Come se una parte del nostro benessere di oggi dovesse essere sacrificato se voglio garantircene uno domani. E ciononostante sembriamo procedere nella stessa direzione, pur consci dei problemi che si prospettano.

Questo libro si occupa di come siamo potuti arrivare a sacrificare il benessere futuro in cambio del Pil di oggi e di come uscirne. Il capitalismo è un sistema economico affermatosi negli ultimi due secoli e mezzo in questa parte del mondo. Un sistema che per consolidarsi ha plasmato la società e la politica, creando un ordine sociale.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II (III)

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

Schermata del 2024 04 16 16 04 28.pngPubblichiamo la terza puntata della seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato, nella prima parte, il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori, dell’idrogeno e della logistica, ai processi di digitalizzazione industriale.

Qui la prima puntata, qui la seconda.

* * * *

IV. La digitalizzazione industriale

La Missione 1, Componente 2 del Pnrr italiano vuol dare impulso a processi di digitalizzazione e innovazione industriali, nonché a «un’infrastruttura di reti fisse e mobili ad altissima capacità (Very High Capacity Network)»[1]. Investire per rendere le imprese più tecnologiche sarebbe un inutile sperpero di risorse nel caso in cui il territorio nazionale non offrisse una capacità di connettività sufficiente all’utilizzo ottimale delle nuove tecnologie.

Se da un lato, dunque, questa Componente elargisce soldi pubblici per gli investimenti in tecnologia e in ricerca e sviluppo, supportando poi in maniera più corposa alcuni settori strategici dal punto di vista comunitario[2], dall’altro «include importanti investimenti per garantire la copertura di tutto il territorio con reti a banda ultra-larga (fibra FTTH, FWA e 5G), condizione necessaria per consentire alle imprese di catturare i benefici della digitalizzazione e più in generale per realizzare pienamente l’obiettivo di gigabit society»[3].

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coku

La trappola del debito

di Eugenio Donnici

debito 1220x600.jpgLa questione del debito pubblico e privato, sebbene sia diventata un tabù, pesa come un macigno sulle decisioni di politica economica. Debiti e crediti sono dei pilastri sui quali si regge il modo di produzione capitalistico, ma tali relazioni sociali, anche se in forma rozza, hanno influenzato la vita associata degli individui appartenenti alle città-stato, i regni e gli imperi del mondo antico, quando i loro governanti hanno iniziato a coniare monete o meglio quando gli scambi commerciali, mediati dal denaro, s’imposero, in qualche misura, sul baratto.

Nei rapporti tra debitori e creditori, occorre precisare che affinché un debito possa essere estinto, è necessario, in primo luogo, che esso non sia astronomico, altrimenti si rientra nel circolo vizioso dell’usura, sul quale ritornerei nel procedere del discorso.

Nel mondo antico, stando alle fonti storiche, durante il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750 A.C.) ci furono quattro annullamenti del debito, proprio perché partirono dal presupposto che i sudditi non potevano pagare quelle cifre. Annullamenti del debito avvenivano anche durante il Giubileo per i cristiani e il Torà per gli ebrei. La valenza di una preghiera come il Credo, con la quale i credenti si rivolgono a Dio, racchiude il concetto del “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ovviamente, prima che si affermasse il modo di produzione capitalistico, l’annullamento dei debiti era più semplice, in quanto la somma data in prestito non generava l’interesse o quantomeno non si applicava la legge dell’interesse composto. Con lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, dapprima in Inghilterra, come ci ricorda Marx, il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II (II)

Politiche energetiche e filiere produttive

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

0a99dc 82f6e650afc84fceb84123596b75c34fmv2Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.

Qui la prima parte.

* * * *

III. La filiera dell’idrogeno

La Missione 2, Componente 2, Sottocomponente 3 del nostro Pnrr punta a creare e rafforzare un comparto industriale italiano per la produzione, la distribuzione e l’utilizzo dell’idrogeno come risorsa energetica alternativa. Al suo interno, una buona quantità di fondi viene destinata allo sviluppo dell’idrogeno per applicazioni industriali (soprattutto chimica e raffinazione petrolifera). Al di là delle ragioni economiche di un simile orientamento tale scelta riflette il fatto che gli impianti produttivi che già utilizzano idrogeno sono più facilmente integrabili all’interno della filiera dell’idrogeno inteso come vettore energetico: l’utilizzo di questo gas per produrre ammoniaca, ad esempio, consente di trasportarlo all’interno del composto ammoniaco, rendendolo molto più «stabile» e facile da controllare, e abbassando i costi del trasporto logistico.

L’Investimento 5.2, infine, prevede «l'installazione in Italia di circa 5 GW di capacità di elettrolisi [uno dei procedimenti per produrre idrogeno] entro il 2030 (…) [e] lo sviluppo di ulteriori tecnologie necessarie per sostenere l’utilizzo finale dell'idrogeno (es. celle a combustibile per autocarri)»[1].

Cosa sono, però, l’idrogeno e la sua filiera? E che importanza possono avere in relazione allo sviluppo economico e alla riduzione dell’impatto ambientale del capitalismo?

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perunsocialismodelXXI

Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes

di Carlo Formenti

Marchiodoc Giuseppe Di Vittorio.jpgL’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.

Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)

di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera

Schermata del 2024 03 25 18 01 20.pngPubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.

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I. Articolazione del Piano e REPowerEU

Missioni, componenti e investimenti

Il Pnrr si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai Programs europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in Componenti, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).

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sbilanciamoci

Stellantis, l’auto elettrica e i cinesi

di Vincenzo Comito

Il governo vorrebbe che l’Italia tornasse a produrre un milione di veicoli e apre all’ingresso di partner cinesi, che finora ha ostacolato. Un’operazione difficile, considerando gli investimenti già annunciati di Byd in Ungheria, la scarsa appetibilità del mercato elettrico italiano, la nebulosa dei piani di Stellantis

come funzionano batterie auto elettriche.jpgIl settore dell’auto, data la sua persistente importanza per la gran parte delle economie del nostro continente e considerando le grandi trasformazioni in atto, si è negli ultimi tempi conquistato un posto importante nella cronaca economica dell’Unione Europea e anche del nostro paese, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina, per la questione dell’auto elettrica e per le difficoltà dell’Italia sul tema; tali questioni sono tra di loro interconnesse.

 

Alcuni dati di base

Può essere utile ricordare preliminarmente alcuni dati di base relativi al settore.

Quella dell’auto è una delle tante attività economiche nelle quali il primato produttivo, tecnologico e di mercato si è andato spostando sempre più verso l’Asia e verso la Cina in particolare. Così nel 2023, rispetto a una produzione totale di veicoli a livello mondiale pari a circa 82 milioni di unità, in Asia ne sono uscite dalle fabbriche per un volume vicino al 60% del totale e nella sola Cina si è superato un terzo del totale. Anche per quanto riguarda le esportazioni, nel 2023 la Cina si è collocata al primo posto nel mondo, con 5.1 milioni di unità vendute all’estero, seguita peraltro nella classifica da un altro paese asiatico: il Giappone.

Ancora più rilevante il predominio cinese nel comparto delle vetture elettriche. Su una produzione totale di circa 9,5 milioni di unità nel 2023, con un aumento del 33% sull’anno precedente, la quota della Cina si è collocata vicino al 60%.

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coniarerivolta

La revisione del PNRR: un gioco delle tre carte per regalare soldi ai padroni

di coniarerivolta

trecartepnrr.pngNei giorni scorsi, mentre l’attenzione pubblica era concentrata sulle vistose crepe aperte nella maggioranza dalle elezioni regionali in Sardegna, il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo decreto-legge in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il mirabolante programma messo in piedi dall’Unione Europea per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia. Abbiamo seguito fin dal suo avvio questo programma, non senza una certa curiosità: la classe dirigente europea, di cultura neoliberista e ideologicamente contraria alla spesa pubblica e alla pianificazione dell’economia (quante battute sulla politica economica sovietica e sui piani quinquennali?), varava un piano di investimenti addirittura sessennale (2021-2026) e annunciava una pioggia di centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica per riparare i danni causati dalla pandemia.

Come abbiamo avuto modo di spiegare, si trattava di mera propaganda, mentre l’obiettivo politico del PNRR era legare le finanze dei Paesi europei a una serie di condizionalità che li impegnano a varare riforme strutturali orientate alla deregolamentazione e alla liberalizzazione, nonché a vincolare il contenuto dei principali investimenti al negoziato con la Commissione europea, che così non si limita a imporci l’austerità, cioè i tagli alla spesa, ma anche il suo contenuto, ossia l’indicazione dei tagli e delle risorse da salvare. Ecco da cosa deriva il ritrovato favore verso la pianificazione: il PNRR è la pianificazione del neoliberismo e dell’austerità imposta alle economie europee nel momento in cui queste si trovavano nella necessità di spendere oltre i vincoli del Patto di stabilità e crescita per uscire dalla crisi pandemica.

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Mario Draghi, la competitività europea e i nuovi Mezzogiorni

di Guglielmo Forges Davanzati*

draghi mezzogiorni.jpg1 – L’economia europea perde posizioni nella competizione internazionale e sperimenta, al suo interno, una costante crescita delle divergenze regionali (l’impoverimento relativo del Mezzogiorno rispetto al Nord è parte di questa dinamica).

A Mario Draghi, come è noto, è stato affidato il compito di redigere il rapporto sulla competitività europea, che verrà ultimato verosimilmente a giugno prossimo. Nel discorso dello scorso 15 febbraio all’Economic Policy Conference di Washington (durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award), che va letto insieme a quello a3ll’Ecofin del 24 febbraio, ne ha resi noti i fondamentali ingredienti.

Partiamo dalla diagnosi. L’ex Governatore della BCE formula due critiche. La prima è rivolta al modello della globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni, che avrebbe portato squilibri commerciali in un contesto di crescente partecipazione agli scambi commerciali internazionali di Paesi che avevano punti di partenza, in termini di livello di sviluppo, molto diversi.

Draghi riconosce che le delocalizzazioni prodotte dalla globalizzazione hanno considerevolmente ridotto la quota dei salari sul Pil, creando ostilità in coloro che ne sono risultati danneggiati. Così come, contrariamente alle promesse, la globalizzazione non si è associata alla diffusione dei valori orientati al rispetto delle libertà individuali e della democrazia.

La seconda critica attiene alla politica economica e da qui origina la sua proposta.

Draghi osserva correttamente che l’Unione Monetaria Europea (UME) ha puntato, per la sua crescita, su un modello trainato dalle esportazioni, in una condizione di competizione fra i Paesi membri, che risulta perdente nel lungo periodo.

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machina

Attraversando il PNRR (I)

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

 

I: Piani Ue e classe dirigente italiana

Schermata del 2024 02 29 14 55 35.pngLe difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico o hanno radici più profonde?

Quale la ratio dietro l'implementazione del PNRR e quali gli obiettivi generali che si pone il piano italiano? In che modo potrà incidere sul tessuto produttivo e sul posizionamente dell'economia italiana nella divisione internazionale del lavoro?

Parte da queste domande il preciso studio, articolato in più parti di cui oggi pubblichiamo la prima, che proponiamo su «transuenze» a cura di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera.

* * * *

I. La situazione dell’economia produttiva italiana

Non saremo certo i primi a parlare delle difficoltà nelle quali da tempo si dibatte l’economia italiana. Lo hanno fatto governi e centri studi, fondazioni legate a poteri economici e finanziari e analisti di varia provenienza ogni qual volta dovevano proporre, supportare e approvare controriforme in materia di lavoro, previdenza e spesa pubblica. Del resto sono decenni che, a confronto con i Paesi più sviluppati, l’Italia sta accumulando ritardi nello sviluppo dei propri fondamentali (produttività del lavoro, entità e rendimento degli investimenti, implementazione dei processi produttivi e delle infrastrutture territoriali). È possibile che questi ritardi strutturali stiano determinando un rischio sempre più concreto di espulsione dell’Italia da alcuni dei mercati più importanti e remunerativi nei quali le imprese nazionali sono da tempo collocate e, secondo la nostra lettura, ciò finirebbe per comportare un ulteriore progressivo impoverimento delle fasce popolari.

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jacobin

Fare debito è di sinistra?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi

Anche le forme dell'indebitamento hanno un segno di classe, riflettono i rapporti di forza. Quelle di questi anni hanno accresciuto le disuguaglianze

debito jacobin italia 1536x560.jpgDipende. Non intendiamo, con il pretesto di una provocazione, ribaltare il senso delle cose come fecero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ascrivendo il liberismo al campo della sinistra in un celebre libro, ma provare a fare qualche riflessione sugli ultimi decenni.

Per ragioni anagrafiche chi scrive è cresciuto in uno schema del dibattito politico abbastanza consolidato. Da una parte le politiche europee vocate al «rigore» di bilancio, cementate dal trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio del 1992, dall’altro l’opposizione alle politiche di austerity portata avanti dai movimenti sociali, da alcuni settori sindacali radicali, poi dal movimento antiglobalizzazione e dalla sinistra politica antiliberista che lo appoggiava (e di cui chi scrive faceva parte attivamente). Un’opposizione che via via si è allargata a forze politiche e intellettuali crescenti, seppur contraddistinte da tonalità differenti. Le ragioni dell’opposizione erano semplici: le politiche di austerity bloccavano la spesa sociale e gli investimenti pubblici, comprimevano diritti e riducevano il salario indiretto. Molti riproponevano un tradizionale e generico orientamento keynesiano, una politica in deficit spending che avrebbe permesso maggiore redistribuzione, ma anche maggiore crescita, che avrebbe ripagato (almeno in parte) il deficit iniziale.

La cosa interessante di questo schema politico sta nel risultato a trent’anni di distanza. Un risultato che ha il gusto forte del triplo paradosso.

 

I paradossi dell’austerity

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crs

La tempesta perfetta della crisi tedesca

di Alessandro Scassellati

Senza l'energia a basso costo e con un forte calo delle esportazioni il modello tedesco si muove rapidamente verso la deindustrializzazione. Mentre i lavoratori del trasporto ferroviario, i camionisti e gli agricoltori stanno scioperando si intravede un disastro politico e socio-economico legato al ritorno dell'austerità

crisi germania.jpgDa sempre motore economico (a cui l’industria italiana è molto legata attraverso le supply chains) e potenza politica dell’Unione Europea, la Germania è alle prese con un potente mix di problemi strutturali profondi e a breve termine che – insieme a un Governo diviso e apparentemente inefficace – hanno spinto gli osservatori e gli economisti a parlare (di nuovo, come alla fine degli anni ’90) di “malato d’Europa”.

I lavoratori ferroviari, i camionisti e gli agricoltori sono tra coloro che sono scesi in strada o in sciopero in tutta la Germania dall’8 gennaio con proteste a livello nazionale, per rivendicazioni che vanno dalle retribuzioni e condizioni di lavoro ai tagli ai sussidi agricoli e all’aumento dei pedaggi autostradali per i veicoli pesanti entrato in vigore all’inizio di dicembre. Con elezioni chiave in programma quest’anno negli Stati della Germania orientale, molti osservatori temono che il nuovo spirito di mobilitazione dei lavoratori possa giocare direttamente nelle mani di una vivace estrema destra.

Le proteste di lavoratori autonomi come gli agricoltori e i trasportatori di merci, così come gli scioperi nel settore ferroviario statale, non sono coordinati, concentrandosi su rivendicazioni diverse e in alcuni casi legati a controversie che precedono l’attuale Governo. Ma il loro consenso ha dato all’estrema destra un’occasione perfetta per alimentare le fantasie populiste di un colpo di Stato. Sui suoi canali di social media, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) ha dipinto l’immagine di gente comune “portata alla rovina da una leadership politica irresponsabile come nel Medioevo”, e ha esortato i cittadini a unirsi a quello che ha chiamato uno “sciopero generale”. Lo stesso hanno fatto altre organizzazioni di estrema destra come i Liberi Sassoni (un piccolo partito estremista di destra fondato nel 2021) e La Terza Via (Der Dritte Weg, un partito neonazista formato nel 2013 da ex membri del gruppo estremista di destra NPD)1.

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L’Italia nel Triangolo delle Bermuda tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità

di Fulvio Bellini

La politica economica e quella estera dettate dagli Usa, confezionate dall’Unione Europea e applicate dal Partito Unico in salsa urbana (Pd) e da quello in salsa burina (Fratelli d’Italia), ci stanno conducendo fuori dal tunnel, dove ci sta… l’Argentina e il suo default

720x410nbgtrs.jpg“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.

Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu

 

Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato

Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermuda, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire.