La fabbrica loquace della moltitudine. Omaggio a Paolo Virno
di Collettivo Le Gauche
Paolo Virno, scomparso recentemente, scrisse un libro per noi ancora fondamentale dal titolo Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee. Il nucleo della riflessione prende le mosse dalla riattivazione di un’antica alternativa concettuale, quella tra popolo e moltitudine, che oggi si ripropone come strumento ermeneutico decisivo per decifrare le forme della sfera pubblica contemporanea. Questa dicotomia, forgiata nel fuoco delle contese pratiche e teoriche del Seicento, dalla fondazione degli Stati moderni alle guerre di religione, vide la netta prevalenza del concetto di popolo mentre moltitudine divenne il termine perdente, espulso dal lessico politico dominante. La tesi di fondo è che, al tramonto di un lungo ciclo storico e nel pieno di una crisi radicale della teoria politica moderna, sia proprio la nozione allora sconfitta a mostrare una straordinaria vitalità, offrendosi per una clamorosa rivincita teorica.
Le due polarità hanno i loro padri putativi in Hobbes e Spinoza che le definiscono in opposizione radicale. Per Spinoza la multitudo designa una pluralità che persiste in quanto tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva e nella cura degli affari comuni, senza fondersi in un Uno, senza dissolversi in un moto centripeto. È la forma di esistenza politica e sociale dei molti in quanto molti: una forma permanente, non episodica o interstiziale, che egli considera l’architrave stessa delle libertà civili. All’estremo opposto, Hobbes, con un atteggiamento che Virno non esita a definire di “odio”, vede nella moltitudine il massimo pericolo per il “supremo imperio”, per quel monopolio della decisione politica che è lo Stato. Per Hobbes la sfera pubblica moderna può avere come baricentro o la moltitudine o il popolo ma non entrambi. Il popolo è un’entità unificata, dotata di una volontà unica, ed è un riverbero diretto dell’esistenza dello Stato: dove c’è lo Stato, lì si costituisce il popolo. La moltitudine, al contrario, inerisce allo “stato di natura”, è il retaggio antecedente all’istituzione del corpo politico, un rimosso che può sempre riemergere per scuotere la sovranità statale. La moltitudine, per il suo carattere intrinsecamente plurale, rifugge dall’unità politica, recalcitra all’obbedienza e, soprattutto, non trasferisce mai i propri diritti naturali al sovrano. La celebre frase hobbesiana “i cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la moltitudine contro il popolo” cristallizza questa opposizione portata al suo diapason.
La domanda cruciale che sorge è come la moltitudine sia sopravvissuta all’egemonia del modello statale-popolare. La risposta è che essa è stata esorcizzata e confinata in forme dissimulate e rachitiche all’interno delle due grandi tradizioni politiche moderne. Nel pensiero liberal, l’inquietudine suscitata dai “molti” è stata addomesticata attraverso la diade pubblico-privato. La moltitudine, privata di voce e presenza pubblica, è stata relegata nella sfera del privato, inteso nel suo senso etimologico di privus, cioè “privo”, carente di rilevanza pubblica. Nel pensiero democratico-socialista un’eco dell’arcaica moltitudine risuona invece nel secondo termine della coppia collettivo-individuale. Il popolo è il collettivo, la volontà generale, mentre la moltitudine viene adombrata nella presunta impotenza e nell’irrequietezza sregolata del singolo individuo, percepito come un resto ininfluente e ineffabile.
Oggi, nelle odierne forme di vita e nella produzione materiale, si assiste a un appannamento di queste linee di confine. Le coppie concettuali pubblico/privato e collettivo/individuale “non reggono più, mordono l’aria, conflagrano”. L’esperienza collettiva e quella individuale, così come la sfera pubblica e quella privata, si confondono e si sovrappongono inestricabilmente. La moltitudine contemporanea non è più composta né da “cittadini” nel senso classico, né da “produttori” nell’accezione tradizionale, essa occupa una regione mediana e ibrida. È fondamentale sottolineare che questa moltitudine non si contrappone in modo semplicistico all’Uno, come in certa retorica postmoderna che celebra il molteplice come bene assoluto, ma lo ridetermina radicalmente. Anche i molti hanno bisogno di una forma di unità ma questa unità non è più lo Stato, il punto di arrivo di una convergenza. È, piuttosto, una premessa, uno sfondo: il linguaggio, l’intelletto, le facoltà comuni del genere umano. L’Uno da cui i molti, in un movimento centrifugo, si differenziano e persistono come tali, è un universale condiviso che autorizza la differenziazione stessa.
Per analizzare concretamente questa moltitudine Virno propone di sviluppare tre blocchi tematici, il primo dei quali è la dialettica tra paura e ricerca di sicurezza. Il modello tradizionale, da Kant a Heidegger, distingueva nettamente tra una paura determinata, legata a un pericolo circoscritto (una slavina, la disoccupazione), e un’angoscia indeterminata, provocata dalla pura esposizione al mondo nel suo insieme, dal “non sentirsi a casa propria” (Heidegger). A queste due forme di timore corrispondevano due forme di riparo: una sicurezza empirica per la paura e un rifugio assoluto, spesso di natura religiosa o morale, per l’angoscia. Questa distinzione era funzionale al concetto di popolo, legato all’esistenza di comunità sostanziali che delimitavano un “dentro” stabile e rassicurante contrapposto a un “fuori” ignoto e angosciante.
Questa netta separazione è venuta meno per tre motivi fondamentali. In primo luogo le comunità sostanziali, con il loro ethos consolidato e i loro “giochi linguistici” risaputi, si sono dissolte. Gli individui sono ormai abituati al mutamento repentino e sono permanentemente esposti all’imprevisto, vivendo in una realtà già sempre innovata. Non esiste più un “dentro” protetto, per cui ogni pericolo fattuale si colora immediatamente dei toni dell’angoscia indeterminata. Paura e angoscia si sovrappongono in un sentimento che Virno propone di chiamare perturbante. In secondo luogo questo “non sentirsi a casa propria” non è più un’esperienza solitaria e interiore ma è diventata la condizione comune e condivisa, un fatto pubblico che accomuna la moltitudine. Infine, e questo è il punto più radicale, la stessa sequenza logica timore-riparo viene rovesciata. L’esperienza originaria non è la percezione di un pericolo a cui si cerca una risposta ma è l’originario attivo procacciarsi di un riparo. È nel tentativo di proteggerci che mettiamo a fuoco, spesso retrospettivamente, i pericoli. Il vero pericolo spesso non è altro che una strategia di salvezza orripilante e velenosa (il sovrano forte, la xenofobia, la carriera forsennata). La dialettica si trasforma così in una dialettica tra forme alternative di protezione. È in questo panorama modificato che si radica l’esperienza della moltitudine, accomunata dallo spaesamento e caratterizzata da una continua oscillazione tra strategie di rassicurazione contrapposte.
La risorsa essenziale a cui la moltitudine attinge per orientarsi e proteggersi in questo mondo privo di certezze sono i luoghi comuni (topoi koinoi). Questi, nel senso aristotelico originario e non in quello moderno di banalità, sono le forme logico-linguistiche di valore generalissimo (il rapporto più/meno, l’opposizione dei contrari, la reciprocità) che costituiscono l’impalcatura di ogni discorso. Con il declino dei luoghi speciali (topoi idioi), quei codici settoriali e contestuali propri di specifiche comunità (il partito, la chiesa, il gruppo di tifosi), i luoghi comuni perdono il loro carattere di sfondo inavvertito e affiorano in superficie, diventando visibili e immediatamente utilizzabili come unica bussola disponibile. La “vita della mente”, l’intelletto nella sua forma più astratta e generica, diventa così un bene pubblico e condiviso. È qui che Virno recupera la nozione marxiana di General Intellect, l’intelletto generale che, da forza produttiva principale nel capitalismo contemporaneo, diventa anche la risorsa apotropaica della moltitudine. Si rovescia così l’analogia aristotelica tra il pensatore e lo straniero: non è più il pensatore che si estrania temporaneamente dalla comunità ma è l’intera moltitudine degli “stranieri”, di coloro che non si sentono a casa propria, a doversi comportare, per necessità, come un pensatore, facendo ricorso all’intelletto astratto per navigare la contingenza.
Questa pubblicità dell’intelletto, questo General Intellect che diviene patrimonio comune, è profondamente ambivalente. Se non si traduce in una sfera pubblica non statale, in uno spazio politico in cui i molti possano deliberare sugli affari comuni, può produrre effetti terrificanti. Virno richiama il saggio freudiano sul Perturbante, dove la credenza nell’onnipotenza dei pensieri e la situazione fusiva della seduta spiritica esemplificano gli esiti angosciosi di un pensiero che ha un’efficacia pratica immediata ma non si articola in una mediazione politica. Nel processo produttivo postfordista, dove la condivisione di attitudini linguistico-cognitive generiche è il requisito tecnico fondamentale, questa stessa condivisione, se non diventa repubblica, si traduce in una proliferazione di gerarchie personali e infondate, in una dipendenza personale che sottomette l’intera persona del lavoratore. La pubblicità senza sfera pubblica è dunque il versante negativo e pericoloso dell’esperienza della moltitudine.
L’Uno della moltitudine non è e non può essere l’Uno statale del popolo. È un Uno di natura diversa, costituito dai luoghi comuni della mente, dal General Intellect, dal linguaggio stesso. Se la moltitudine seicentesca, erede delle repubbliche comunali, esercitava uno jus resistentiae per difendere consuetudini e prerogative locali già esistenti, la moltitudine contemporanea, pur condividendo questa logica difensiva e non rappresentativa, ha come sfondo un Uno molto più universale dello Stato ed è profondamente segnata dalla storia del capitalismo e della classe operaia. La sua peculiarità è di fomentare il collasso della rappresentanza politica in nome della ricerca di nuove forme politiche che si appropriano del sapere/potere oggi congelato negli apparati statali. Contro la tentazione di vedere nella moltitudine la fine della classe operaia Virno sostiene che essa ne rappresenta piuttosto una nuova configurazione storica. La classe operaia, in quanto produttrice di plusvalore, non scompare, è il suo modo di essere a cambiare, da popolare a multitudinario, con tutto ciò che questo comporta in termini di mentalità, organizzazione e conflitto.
La fabbrica loquace
Angelo Nizza in Linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Natura e storia di una relazione sostiene che la prospettiva operaista, all’interno della quale si situa il pensiero di Paolo Virno, interpreta la contemporanea alleanza tra linguaggio e lavoro come il segno di una fondamentale trasformazione per cui la poiesi, l’attività produttiva finalizzata a un esterno, sta diventando praxis, un agire che contiene in sé il proprio fine. Il merito specifico di Virno è di aver cristallizzato questo nesso in un’implicazione logica particolarmente efficace: se la comunicazione diventa un elemento costitutivo del lavoro, allora si incrina inevitabilmente il suo impianto finalistico e, una volta venuta meno la predominanza del modello teleologico, si dissolve anche il monismo del concetto di produzione. Questa serie di conseguenze negative trova la sua espressione più densa nella nozione di lavoro senza teleologia che designa una poiesis entrata in una zona di indeterminatezza semantica proprio per aver assorbito in sé i caratteri tipici della praxis. Virno costruisce la sua argomentazione decostruendo il concetto tradizionale di lavoro come poiesis attraverso due movimenti logici fondamentali. Con il primo ancora saldamente il concetto di lavoro alla teleologia, riprendendo la distinzione aristotelica per cui, contrariamente alla praxis che ha il proprio fine in se stessa, il lavoro è regolato da un rapporto causale mezzo-fine e trova la sua unità di misura in un prodotto esteriore. Con il secondo argomento Virno identifica la condizione di possibilità di questo finalismo: la saldezza del rapporto lavoro-teleologia dipende in modo integrale dal carattere ristretto del lavoro, ovvero dalla rigorosa esclusione della comunicazione linguistica dal concetto di produzione. Affinché il lavoro possa mantenersi come poiesi pura è necessario che esso espunga l’interazione linguistica. In questo modo Virno, con l’obiettivo polemico di confutare Habermas, esaspera l’opposizione tra lavoro e interazione indicando nel linguaggio l’aldilà specifico della nozione di poiesis. Il carattere distintivo dell’agire comunicativo, infatti, non è l’impiego di un mezzo in vista di uno scopo. L’azione linguistica non si inscrive nel regime delle cause naturali e, quindi, nel suo svolgersi il mezzo non transita in un fine esterno. Risulta dunque evidente che la comunicazione, nel momento in cui diventa il termine medio del processo lavorativo, ne dissolve la struttura rigidamente finalistica. La tesi sul lavoro senza teleologia coglie l’indistinzione tra praxis e poiesis senza sopprimere la coppia concettuale, preservando così l’idea dell’esistenza umana come vita attiva, in netto contrasto con le posizioni di Agamben. Inoltre individua con precisione sia l’operatore di questa trasformazione, il linguaggio, sia l’operazione specifica, ovvero la penetrazione del linguaggio nel lavoro che è all’origine della mescolanza tra agire e fare, distanziandosi anche dalle tesi di Rossi-Landi.
Nel saggio Virtuosismo e rivoluzione. La teoria politica dell’esodo e in Grammatica della moltitudine Paolo Virno prende le mosse da un paradosso palpabile nella condizione contemporanea: l’azione politica, un tempo nozione familiare e operante, appare oggi avvolta in un’aura di enigmatica inaccessibilità. Questa paralisi dell’agire, sostiene Virno, non è riconducibile semplicemente a una congiuntura sfavorevole o all’egemonia di un’ideologia rassegnata, bensì affonda le sue radici in una trasformazione essenziale e duratura dello sfondo stesso della nostra esperienza. Per comprenderla è necessario mettere in discussione la consolidata tripartizione dell’esistenza umana in Lavoro (poiesi), Azione politica (prassi) e Intelletto (vita della mente), una distinzione cardine della tradizione filosofica da Aristotele a Hannah Arendt. Secondo questo schema classico il Lavoro si caratterizza per il suo carattere strumentale, finalizzato alla produzione di un’opera duratura e separabile dall’atto che l’ha generata. L’Azione politica, invece, trova il suo fine in se stessa, ha a che fare con l’imprevedibile, il possibile e l’inizio di processi nuovi e si dispiega necessariamente nella “presenza altrui”, in uno “spazio a struttura pubblica”. L’Intelletto puro, infine, è un’attività solitaria e inappariscente, ritirata dal brusio del mondo.
Virno contesta radicalmente l’attualità di questo schema. Le frontiere tra questi ambiti, un tempo percepite come nette, sono ormai cedute dando vita a permeabilità e ibridazioni decisive. La sua tesi centrale, in netto contrasto con quella di Hannah Arendt, la quale vedeva nella politica moderna una degenerazione in forma di lavoro produttivo, è che sia avvenuto esattamente il contrario: è il Lavoro postfordista ad aver assorbito in sé i tratti distintivi dell’Azione politica. La figura chiave per comprendere questa metamorfosi è quella del virtuoso, dell’artista esecutore come il pianista o il ballerino. La sua performance, come notavano sia Aristotele che la Arendt, è un’attività “senza opera” che non produce un oggetto estrinseco e durevole ma trova compimento in se stessa e che per esistere richiede costitutivamente un pubblico, una relazione con la “presenza altrui”. Ciò che un tempo era un caso speciale e marginale, analizzato con una certa perplessità persino da Marx che nei suoi scritti sul lavoro intellettuale distingueva le attività che producono un’opera da quelle in cui “il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre”, assimilando spesso queste ultime al lavoro servile e improduttivo, è diventato il prototipo del lavoro salariato contemporaneo.
Nel capitalismo postfordista il lavoro vivo non è più principalmente l’agente principale del processo produttivo immediato ma si colloca “accanto” ad esso, assumendo sempre più le funzioni di “sorveglianza e coordinamento”. La sua attività consiste sempre meno nel conseguire uno scopo particolare e sempre più nel modulare, variare e intensificare la cooperazione sociale stessa. Questa modulazione avviene attraverso prestazioni linguistiche e comunicative che, esaurendosi nell’interazione che determinano, sono per l’appunto “senza opera”. Lo “spazio a struttura pubblica” di cui il virtuoso e l’uomo politico hanno bisogno è ora incorporato direttamente nel processo produttivo. Il linguaggio, il cui atto enunciativo è il virtuosismo per eccellenza (in quanto non presuppone uno spartito definito ma attinge alla pura potenzialità della facoltà di linguaggio), diventa la materia prima del lavoro. Lo slogan capitalistico della qualità totale si rivela come la richiesta di mettere a profitto il gusto per l’azione, l’attitudine a fronteggiare l’imprevisto e la capacità di cominciare qualcosa di nuovo, tutte doti che la tradizione attribuiva alla prassi politica. La conseguenza, profondamente paradossale, è l’eclissi e la paralisi della politica in senso stretto: essa appare ora come una duplicazione superflua e impoverita di un’esperienza che si vive già, sia pure in forma asservita e distorta, all’interno della sfera produttiva. La moltitudine postfordista è dunque una moltitudine spoliticizzata proprio perché il suo lavoro è già, strutturalmente, saturo di politica.
Questa ibridazione tra Lavoro e Azione è stata resa possibile da un secondo, cruciale evento: l’irruzione pubblica dell’Intelletto. Virno sviluppa la categoria marxiana di General Intellect ma operando una significativa correzione. Se per Marx il sapere sociale generale si oggettivava principalmente nel capitale fisso, nel sistema delle macchine, per Virno esso si presenta oggi soprattutto come un attributo diretto del lavoro vivo, come il repertorio di facoltà generiche (linguaggio, capacità di astrazione, apprendimento, autoriflessione) che costituiscono una risorsa condivisa, un bene comune. È questo intelletto divenuto pubblico, questa potenza mentale e linguistica, lo “spartito” sui generis che i lavoratori-virtuosi eseguono nelle loro performance produttive. Questa pubblicità dell’Intelletto, invece di tradursi in una sfera pubblica autonoma, viene catturata e distorta dal Lavoro salariato.
Le conseguenze di questa cattura sono gravide di implicazioni. Si assiste a una statizzazione dell’Intelletto. La sua peculiare pubblicità, privata di una espressione propria, si rifrange nello Stato sotto forma di una crescita ipertrofica e autoritaria degli apparati amministrativi. L’Amministrazione, soppiantando il sistema politico-parlamentare, diventa il cuore dello Stato, rappresentando una concrezione dispotica del General Intellect, un punto di fusione tra sapere e comando. L’antica espressione “ragion di Stato” acquista per la prima volta un significato non metaforico: non si tratta più del mero trasferimento del diritto naturale al sovrano (Hobbes) ma di un vero e proprio trasferimento della pubblicità dell’Intelletto all’apparato statale. La natura “senza opera” del lavoro virtuosistico, unita alla sua subordinazione, dà luogo a un universale lavoro servile. Siccome l’attività non si oggettiva in un prodotto separabile, chiama in causa direttamente la persona di chi la compie e la sua relazione con chi comanda o è il destinatario della prestazione. La messa al lavoro di ciò che è più comune (l’intelletto e il linguaggio), non tradotta in comunità politica, genera una vischiosa e asfissiante “personalizzazione dell’assoggettamento”.
Di fronte a questo scenario la via d’uscita indicata da Virno è un rovesciamento delle alleanze. La scommessa è di recidere il legame che unisce l’Intelletto al Lavoro salariato e di costruire una nuova, feconda alleanza tra l’Intelletto e l’Azione politica. A questo passaggio radicale, che è al contempo una sottrazione e una fondazione, Virno dà il nome di Esodo. L’Esodo è una “sottrazione intraprendente”, una defezione di massa che, invece di protestare all’interno delle regole date, modifica il contesto stesso del conflitto, inventando nuove possibilità e alterando le regole del gioco. Esempi storici di tale defezione sono la fuga degli operai americani dell’Ottocento verso le terre di frontiera o la preferenza della forza-lavoro giovanile italiana degli anni ’70 per il precariato rispetto al posto fisso in fabbrica. Oggi la “frontiera” da colonizzare è il sovrappiù di saperi, comunicazione e agire di concerto implicato dalla pubblicità del General Intellect. La defezione dà a questo sovrappiù un’espressione autonoma e affermativa, sottraendolo al doppio ricatto del profitto e dell’amministrazione statale.
Il soggetto di questo Esodo non è il popolo, unitario e rappresentabile nello Stato, ma la moltitudine, un insieme di singolarità irriducibili che cooperano orizzontalmente senza fondersi in un’unità sovrana. La moltitudine, il cui modo di essere è l’agire-di-concerto, ostruisce per sua natura i meccanismi della rappresentanza politica, esprimendosi piuttosto come un insieme di “minoranze agenti” che non aspirano a diventare maggioranza. La crisi della rappresentanza, lungi dall’essere un male assoluto, diventa così l’occasione per sperimentare forme di “democrazia non rappresentativa ed extraparlamentare”. Gli organismi di questa democrazia sono i soviet, i consigli, le leghe, che si oppongono alla delega con la logica dell’Esempio, ossia di azioni paradigmatiche che, esibendo in un caso particolare la possibile alleanza tra intelletto e repubblica, hanno la forza del prototipo riproducibile e non la fredda normatività del comando.
Le forme d’azione di questa moltitudine sono la disobbedienza radicale che non contravviene una legge specifica in nome di una fedeltà superiore all’ordinamento ma mette in discussione il presupposto hobbesiano dell’obbedienza preliminare e senza contenuto che fonda la validità di ogni comando. Inoltre abbiamo la virtù dell’intemperanza che, diversamente dalla volgare incontinenza, oppone una conoscenza intellettuale (il General Intellect) alla norma etico-politica statale, traendo da esso conseguenze pratiche in rotta con le leggi civili. In questo nuovo contesto anche la geometria del conflitto muta: l’inimicizia non è più “assoluta” come nella guerra civile per la conquista dello Stato ma “illimitatamente reattiva”, asimmetrica, poiché gli amici non si schierano su un fronte opposto al nemico ma lo prendono alle spalle attraverso linee di fuga. La violenza, infine, perde il suo carattere rivoluzionario e innovatore per assumere la forma, premoderna, dello jus resistentiae, del diritto di resistenza volto a conservare e proteggere le nuove forme di vita comunitaria e le istituzioni non statali sperimentate durante l’Esodo.
Il concetto di moltitudine
Virno, richiamando l’epistemologia di Gaston Bachelard, suggerisce che il concetto di moltitudine, al pari dei paradossi della meccanica quantistica, esiga per essere pensato adeguatamente una costellazione di predicati filosofici eterogenei, attinti da autori e ambiti diversi. Virno esplora la moltitudine a partire dalle forme della soggettività, servendosi di quattro predicati fondamentali: il principio di individuazione, la biopolitica, le tonalità emotive (opportunismo e cinismo) e, infine, la coppia heideggeriana di chiacchiera e curiosità, radicalmente riletti.
Il primo e fondamentale predicato è il principio di individuazione. La moltitudine, intesa come pluralità che si contrappone all’unità coesa del popolo, è una rete di individui che vanno compresi non come punti di partenza atomistici ma come punti di arrivo, come l’esito ultimo di un processo di individuazione che ha le sue radici in una realtà preindividuale. Questa realtà preindividuale, che è comune, universale e indifferenziata, è identificata in tre strati distinti. In primo luogo vi è il fondo biologico della specie, quell’anonimo apparato percettivo e sensoriale per cui, come nota Merleau-Ponty, non si dice “io vedo” ma “si vede” perché la percezione precede e rimane estranea alla vita personale. In secondo luogo vi è la lingua storico-naturale che è di tutti e di nessuno e il cui uso iniziale è interpsichico e pubblico. A differenza della percezione che resta anonima la lingua è l’ambito in cui il processo di individuazione prende forma, specificamente quando il locutore prende coscienza del rapporto tra la sua generica facoltà di parlare (la potenza di dire) e l’atto enunciativo particolare, definendo così uno spazio del “proprio mio”. In terzo luogo vi è una realtà preindividuale squisitamente storica: il rapporto di produzione capitalistico, che nell’epoca postfordista mobilita direttamente le facoltà generiche della specie, come percezione, linguaggio, memoria, affetti, ovvero ciò che Marx chiamava Gattungswesen o “esistenza generica”, oggettivata nel General Intellect.
La riflessione del filosofo Gilbert Simondon fornisce gli strumenti per articolare ulteriormente questo rapporto. La sua prima tesi cruciale è che l’individuazione non è mai completa: il soggetto non è solo la parte individuata ma è l’intreccio permanente e spesso conflittuale tra elementi preindividuali (la specie, la lingua, la cooperazione) e aspetti singolarizzati. Il soggetto è dunque un “campo di battaglia”, un’entità anfibia sospesa tra l’io e il “si”, dove l’armonia è precaria e possono generarsi crisi, angosce o, all’opposto, la pretesa paranoica di un io di assorbire tutto in sé. La seconda tesi di Simondon, ancor più decisiva, rovescia la concezione comune del collettivo: l’esperienza collettiva non è il luogo in cui l’individuo si annulla ma il terreno di una nuova, più radicale individuazione. È nel collettivo che la quota di preindividuale che ciascuno reca in sé può, almeno in parte, essere a sua volta individuata. È questo che fonda la differenza ontologica tra popolo e moltitudine. Per la moltitudine il collettivo non è centripeto e fusivo, non produce una “volontà generale” da delegare a un sovrano. Visto che radicalizza il processo di individuazione, fonda la possibilità di una democrazia non rappresentativa che può essere definita proprio come l’individuazione del preindividuale storico-sociale (scienza, sapere, cooperazione). I “molti” persistono come “molti” perché hanno già alle spalle l’universalità del preindividuale e perché la loro azione collettiva non fa che accentuare il processo di singolarizzazione. Questo complesso intreccio trova la sua sintesi nel concetto marxiano di individuo sociale, un ossimoro che designa l’individuo in cui il General Intellect e l’esistenza generica si manifestano apertamente accanto all’Io singolare, esibendo la propria ontogenesi.
Il secondo predicato è il concetto, spesso equivoco, di biopolitica. Per coglierne il nocciolo razionale occorre risalire alla nozione paradossale di forza-lavoro. Quest’ultima non è il lavoro effettivo ma la pura potenza di produrre, la dynamis che incorpora “la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali”. La sua peculiarità, come sottolinea Marx, è di essere una merce che, in quanto pura potenza, non ha un’esistenza autonoma (“chi dice capacità di lavoro non dice lavoro”) eppure viene comprata e venduta. Poiché questa potenza è inseparabile dalla “corporeità” vivente del venditore, è il corpo vivo, il puro bios, a diventare l’oggetto indiretto di interesse. Il capitalista acquista la facoltà e, per farlo, deve avere a che fare con il suo sostrato vivente. L’origine della biopolitica foucaultiana va dunque rintracciata in questo fatto primario: la compravendita della potenza in quanto potenza che chiama in causa il suo ricettacolo corporeo, rendendo la “vita” il bersaglio di molteplici e differenziate strategie governative. La biopolitica è quindi un effetto del fatto che la dimensione potenziale dell’esistenza (la facoltà di parlare, di pensare, di agire) diventa prominente, assumendo le vesti empiriche della forza-lavoro.
Il terzo predicato analizza le tonalità emotive della moltitudine contemporanea, intese come modi di essere pervasivi e ambivalenti, caratterizzati da un “nocciolo neutro” suscettibile di declinazioni opposte. Nel postfordismo si verifica una coincidenza immediata tra produzione ed eticità, per cui i requisiti richiesti nel lavoro, come mobilità, adattabilità, duttilità, abitudine a non avere abitudini, non sono il frutto del disciplinamento industriale ma il risultato di una socializzazione che avviene essenzialmente fuori dal lavoro, nell’attesa precaria e negli choc metropolitani. Il nichilismo, un tempo contrappunto della vita moderna, entra direttamente in produzione, diventando egli stesso un requisito professionale. Su questo sfondo, due “cattivi sentimenti” predominano: l’opportunismo e il cinismo. L’opportunismo strutturale è una sensibilità acuminata per le possibilità sempre intercambiabili, una dimestichezza con il possibile in quanto tale che diventa una risorsa tecnica indispensabile in processi lavorativi non più ordinati da scopi univoci ma da classi di possibilità equivalenti. Il cinismo, a sua volta, nasce dall’esperienza diretta della convenzionalità e infondatezza delle regole che strutturano i contesti sociali. Il cinico, avendo smascherato l’arbitrarietà delle regole, le utilizza con perfetta aderenza momentanea ma senza illusioni, per una brutale affermazione di sé. Questo cinismo è fortemente correlato alla centralità del General Intellect. A differenza del denaro, il quale funzionava come astrazione reale basata sul principio di equivalenza (e poteva quindi sostenere ideologie egualitarie), il sapere sociale come forza produttiva immediata non equipara ma funge da premessa costruttiva per azioni eterogenee. La caduta del principio di equivalenza si manifesta nel cinico come un abbandono dell’istanza di uguaglianza e l’acquiescenza alla moltiplicazione delle gerarchie. La dimestichezza con il possibile e la prossimità alle regole convenzionali costituiscono il “nocciolo neutro” di questa situazione emotiva, un modo di essere fondamentale che, pur manifestandosi oggi in forme deteriori, potrebbe in linea di principio dare luogo a conflitti e a esiti radicalmente diversi.
Il quarto e ultimo gruppo di predicati è costituito dalla chiacchiera e dalla curiosità, analizzate da Heidegger come manifestazioni della “vita inautentica” del “si” anonimo. Contrariamente a Heidegger che le relega nell’ozio e le contrappone al laborioso “prendersi cura” del mondo-cantiere, la chiacchiera e la curiosità sono viste da Virno come attributi centrali della produzione contemporanea. La chiacchiera, con la sua emancipazione dal paradigma referenzialista (il discorso che non deve rispecchiare la realtà per essere compreso) e il suo carattere performativo e infondato, costituisce la materia prima del virtuosismo postfordista. È l’agire comunicativo informale e duttile, la mobilitazione della langue e della pura facoltà di linguaggio, che caratterizza il lavoro odierno, al punto da poter immaginare cartelli che invitino a “Parlare!” per lavorare. La curiosità, quella “concupiscenza della vista” già analizzata da Agostino, non è più l’estraneazione dal mondo delle opere. Attraverso una rilettura di Walter Benjamin, la curiosità mediatica e “distratta” viene elogiata come una nuova forma di apprendimento sensoriale. I mass media, soddisfacendo questa curiosità onnivora, addestrano i sensi a considerare il noto come ignoto (scoprendo margini di libertà nell’usuale) e l’ignoto come noto (acquisendo dimestichezza con l’inatteso). La distrazione, condannata da Heidegger, diventa per Benjamin l’atteggiamento proprio di un esaminatore che, senza l’attenzione richiesta dall’apprendimento intellettuale, assimila percettivamente i prodotti intellettuali e i paradigmi astratti della tecnica.
Moltitudine e postfordismo
Virno è convinto in Grammatica della moltitudine che per descrivere in modo perspicuo il modo di produzione contemporaneo, il postfordismo, sia necessario ricorrere a una costellazione di categorie tratte dalla filosofia politica, dall’etica, dall’epistemologia e dalla filosofia del linguaggio. Questo non è un vezzo accademico ma una necessità dettata dalla natura stessa del suo oggetto di indagine poiché il matter of fact centrale di quest’epoca consiste nella progressiva e sempre più stretta identificazione tra poiesi e linguaggio, tra l’attività produttiva e la comunicazione. Per nominare in modo unitario questo nuovo panorama di forme di vita e giochi linguistici, Virno fa riferimento al concetto di moltitudine intesa come un insieme di rotture e innovazioni: la vita da stranieri come condizione ordinaria, la prevalenza dei luoghi comuni del discorso su quelli specialistici, la pubblicità dell’intelletto come risorsa apotropaica e pilastro della produzione, l’attività senza opera che coincide con il virtuosismo, la centralità del principio di individuazione, la relazione con il possibile in quanto possibile che si traduce in opportunismo e infine lo sviluppo ipertrofico degli aspetti non referenziali del linguaggio, ovvero la chiacchiera. In questa configurazione la moltitudine rappresenta la piena esibizione storica, empirica e fenomenica della condizione ontologica dell’animale umano mettendo a nudo la sua sprovvedutezza biologica, il carattere potenziale e indefinito della sua esistenza, la mancanza di un ambiente specifico e l’intelletto linguistico come “risarcimento” per la penuria di istinti specializzati. È come se la radice ontologica dell’umano fosse venuta in superficie, mostrandosi senza veli. In altri termini, la moltitudine è la configurazione biologica fondamentale che diventa un modo di essere storicamente determinato, un’ontologia che si rivela fenomenicamente. Il capitalismo contemporaneo trova la sua risorsa produttiva principale nelle attitudini linguistico-relazionali e nell’insieme delle facoltà comunicative e cognitive che contraddistinguono l’essere umano.
Per addentrarsi in questa complessa realtà, Virno avanza dieci asserzioni che, pur nella loro forma apodittica e concisa, non aspirano all’esaustività. La prima tesi colloca storicamente l’esordio del postfordismo in Italia nelle lotte sociali convenzionalmente ricordate come il movimento del 1977. Questo movimento fu l’espressione di una forza-lavoro scolarizzata, precaria e mobile che si contrappose frontalmente all’etica del lavoro e alla cultura della sinistra storica, segnando una netta discontinuità con la figura dell’operaio fordista. Quel che apparve come un conflitto marginale si rivelò in realtà l’anticipazione del nuovo fulcro dello sviluppo capitalistico. Il capolavoro del capitalismo italiano fu proprio quello di convertire quelle propensioni collettive conflittuali, come l’esodo dalla fabbrica, il disamore per il posto fisso, la familiarità con i saperi e le reti comunicative, in un nuovo concetto di professionalità, basato su opportunismo, chiacchiera e virtuosismo. Questa controrivoluzione, intesa come rivoluzione al contrario, seppe trasformare in risorsa produttiva ciò che si era manifestato come antagonismo radicale. La seconda tesi afferma che il postfordismo costituisce la realizzazione empirica del Frammento sulle macchine di Marx. In quel testo Marx prefigura una situazione in cui il sapere astratto, la scienza, il General Intellect, diventa la principale forza produttiva, riducendo il lavoro immediato a una “base miserabile” e minando alla radice la legge del valore, per cui il valore di scambio, basato sul tempo di lavoro, cessa di essere la misura adeguata del valore d’uso. Questa tendenza descritta da Marx invece di innescare la crisi emancipativa del capitalismo e aprire la strada al comunismo si è realizzata in modo compiuto all’interno del rapporto di produzione capitalistico, dando vita a nuove e stabili forme di dominio. Il Frammento passa dall’essere una profezia di superamento ad una cassetta degli attrezzi per descrivere la realtà empirica del postfordismo.
La terza tesi delinea i contorni della crisi della società del lavoro. Questa crisi non coincide affatto con una semplice riduzione quantitativa del tempo di lavoro, come sostengono autori come Gorz e Rifkin, ma piuttosto con il fatto che la ricchezza sociale è ormai prodotta dal General Intellect e dalla cooperazione sociale mentre il tempo di lavoro continua a essere l’unità di misura vigente, sebbene non più veritiera. Il superamento della società del lavoro avviene quindi paradossalmente all’interno delle regole del lavoro salariato, trasformando una potenziale ricchezza (il tempo liberato) in miseria, come la disoccupazione strutturale, la cassa integrazione e la flessibilità illimitata. È un “superamento” che si compie sulla base stessa di ciò che si supera. Per Virno le tre figure dell’esercito industriale di riserva di Marx, fluida, latente e stagnante, non descrivono più solo i disoccupati ma caratterizzano l’intera forza-lavoro occupata, la cui erogazione lavorativa lascia costantemente trapelare la sua non-necessità.
La quarta tesi approfondisce questa trasformazione affermando che per la moltitudine postfordista viene meno ogni differenza qualitativa tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. L’intelletto, la “vita della mente”, è ormai inclusa a pieno titolo nel processo produttivo, creando una fondamentale omogeneità tra le due sfere. Sia il lavoro che il non-lavoro attingono alla stessa produttività, basata sull’esercizio di facoltà umane generiche come il linguaggio, la memoria e la socialità. Ne deriva un paradosso: si può sostenere tanto che non si smette mai di lavorare, quanto che si lavora sempre di meno. La distinzione si risolve così in quella, puramente arbitraria e politica, tra vita retribuita e vita non retribuita. La cooperazione produttiva che valorizza il capitale è sempre più ampia di quella del processo lavorativo ufficiale e include le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori di esso. Per questo il lavoro postfordista è sempre, in parte, lavoro sommerso, inteso come quella fetta di attività umana, omogenea al lavoro, che non viene retribuita.
La quinta tesi introduce una distinzione cruciale, mutuata da Marx, tra tempo di lavoro e tempo di produzione. Nel postfordismo sussiste uno scarto permanente tra i due: il tempo di produzione comprende il tempo di lavoro e anche il tempo di non-lavoro oltre alla cooperazione sociale che in esso si radica. Il plusvalore scaturisce dallo sfruttamento del pluslavoro all’interno della giornata lavorativa ma sempre di più anche dallo iato tra questo tempo di produzione non retribuito (che include la produttività della vita) e il tempo di lavoro propriamente detto.
La sesta tesi descrive il postfordismo come caratterizzato da una macchia di leopardo di modelli produttivi. Accanto a settori avanzati, persistono e vengono risuscitati modelli arcaici e anacronistici, in una sorta di Esposizione Universale della storia del lavoro. Lo sfondo di questa frammentazione è un General Intellect ormai maturo e un processo di socializzazione extralavorativa essenzialmente omogeneo. Ciò che accomuna il tecnico del software e l’operaio della catena di montaggio non sono le mansioni ma un ethos condiviso, fatto di opportunismo e chiacchiera che nei settori avanzati è messo direttamente al lavoro mentre in quelli tradizionali innerva il “mondo della vita”.
La settima tesi opera una fondamentale correzione all’interpretazione marxiana del General Intellect. Mentre Marx lo identificava esclusivamente con il capitale fisso, con il sapere oggettivato nel sistema di macchine, nel postfordismo il General Intellect si manifesta principalmente come attributo del lavoro vivo, come interazione linguistica e cooperazione di uomini e donne. Pensieri e discorsi funzionano essi stessi come “macchine” produttive, senza bisogno di un corpo meccanico. In questa fabbrica loquace, il lavoro è esso stesso interazione, rendendo obsolete le dicotomie habermasiane tra agire strumentale e agire comunicativo. L’astuzia hegeliana del lavoro viene soppiantata dalla chiacchiera heideggeriana.
L’ottava tesi definisce l’intera forza-lavoro postfordista come intellettualità di massa. Non si tratta di una nuova aristocrazia operaia di specialisti ma del fatto che il lavoratore ordinario, in quanto parlante, mobilita nell’attività produttiva le facoltà cognitive e linguistiche più generiche: la capacità di apprendere, di astrarre, di ricordare, di comunicare. L’identità di questa intellettualità di massa si genera nelle forme di vita e nel consumo culturale. Proprio per questo motivo il capitale può sussumere sotto di sé l’intera esperienza soggettiva.
La nona tesi dichiara così superata la teoria della proletarizzazione. Tutto il lavoro postfordista è lavoro complesso ma la sua complessità non è riducibile a un multiplo del lavoro semplice poiché risiede nella qualità cooperativa e nelle generiche facoltà linguistiche che mobilita. La moltitudine non è un popolo omogeneo per sottrazione ma un insieme di singolarità la cui ricchezza produttiva sfugge ai concetti tradizionali dell’economia politica.
Infine, la decima tesi sintetizza il postfordismo come il comunismo del capitale. Così come il fordismo fu una sorta di socialismo del capitale in risposta alla crisi del ’29 e alla Rivoluzione d’Ottobre, il postfordismo è la risposta capitalistica a una rivoluzione sconfitta degli anni ‘60 e ‘70 che per la prima volta aveva attaccato il lavoro salariato e la forma-Stato stessa. Il capitale ha così orchestrato a proprio beneficio le stesse istanze comuniste (l’abolizione del lavoro, la dissoluzione dello Stato, la valorizzazione delle differenze) declinandole in forme capziose e terribili: la precarietà al posto della liberazione dal lavoro, la frammentazione statale al posto della sua estinzione e un feticismo delle differenze che produce nuove gerarchie. Il postfordismo è, in definitiva, un comunismo realizzato dal e per il capitale.







































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