Come funziona la guerra cognitiva degli USA?
di OttolinaTV
“La più efficace delle politiche imperialistiche non consiste nella conquista di territori o nel controllo di rotte economiche, ma nella conquista e nel controllo della mente degli uomini”; a dichiararlo non è un filosofo hippie dopo aver visto l’ennesimo remake di Matrix, ma nientepopodimeno che lui: Hans Morgenthau, il padre nobile della scuola Realista. Ed è proprio al controllo della mente che è dedicato questo importante libro bianco prodotto dal think tank ufficiale della più importante agenzia di stampa governativa cinese: sulla scia della seconda guerra mondiale, ricostruisce il rapporto, i movimenti di liberazione nazionale si diffusero in tutto il mondo a macchia d’olio; una imponente prima grande decolonizzazione durante la quale il sistema coloniale globale messo in piedi dalle potenze europee venne radicalmente stravolto. Gli Stati Uniti si resero conto che, in questo nuovo contesto, imporre nuove forme di dominio coloniale tradizionali era impensabile e decise saggiamente di investire tutto in forme di dominio più sottili e sofisticate: nasce, così, l’idea di Soft Power (che è meno soft di quanto si pensi).
Il punto è che i nascenti Stati nazionali, nati dalla lotta di liberazione, per consolidarsi avevano bisogno di costruire anche un’idea di nazione che, a partire dalla valorizzazione delle culture indigene, fosse in grado di creare una nuova identità condivisa; lo scopo dell’apparato egemonico dell’Impero è ostacolare questo processo e, facendo leva sull’”enorme disparità nelle posizioni di potere”, “impiantare forzatamente i valori della potenza egemone nella nazione in questione, sradicando selettivamente culture indigene e ideologie alternative”. L’egemone cerca di impedire il consolidamento di un’autentica cultura nazionale coltivando massicciamente alcune fazioni e minando quella che il libro bianco definisce “l’autonomia filosofica delle popolazioni bersagliate”: le “esportazioni ideologiche e culturali” dell’egemone, insiste il paper, vengono confezionate in modo ragionevole e accattivante attorno a parole d’ordine apparentemente neutre come progresso della civiltà o concetti avanzati, e con questo packaging inoffensivo si procede all’”infiltrazione per influenzare la cognizione di alcuni gruppi mirati specifici attraverso prodotti culturali, sistemi educativi, scambi accademici e altri canali subdoli”; un lavoro a lungo termine perché “i cambiamenti intellettuali e cognitivi sono graduali e incrementali”.
“La colonizzazione della mente”, quindi, “richiede un lungo ciclo di infiltrazione continua, persino una trasmissione intergenerazionale prolungata”: la “conquista della mente”, sottolinea giustamente il rapporto, è “sempre stata l’aspirazione dei governanti imperiali”; in epoche diverse, “le potenze coloniali hanno sempre tentato di esportare il loro pensiero e di sradicare le culture indigene per porre le basi ideologiche per un dominio prolungato”, ma “vincolati dalle condizioni storiche, tali tentativi di colonizzazione della mente avvenivano solo in uno spazio e per una durata limitati”. Dopo la seconda guerra mondiale, grazie ai “rapidi progressi nelle telecomunicazioni moderne”, alla “proliferazione dei media professionali” e alla “tendenza alla globalizzazione dei flussi di capitale e tecnologia”, si sono create “condizioni senza precedenti per la diffusione di informazione e conoscenza a livello globale”; e “gli Stati Uniti hanno realizzato molto di più di quanto qualsiasi ex impero coloniale abbia mai fatto nel tentativo di colonizzare la mente”.
Nello svolgimento della loro missione colonizzatrice, gli USA indossano, a seconda della bisogna, 3 maschere diverse – nera, bianca e grigia: la propaganda bianca è quella fatta interamente alla luce del sole, da Hollywood agli scambi culturali Fulbright, passando per agenzie come Voice of America; il fine è costruire il mito dell’american way of life come modello universalmente attraente. Quella nera è quella portata avanti in tutta segretezza dalle agenzie di intelligence, come, ad esempio, la celebre operazione Mockbirding, quando, ai tempi della Guerra Fredda, la CIA avrebbe segretamente reclutato almeno 400 tra giornalisti di fama, editori e direttori di importanti testate giornalistiche, reti televisive e agenzie di stampa per promuovere contenuti pilotati dall’agenzia, presentati come giornalismo indipendente; “Nell’era digitale”, sottolinea poi il rapporto, “le tattiche di propaganda nera sono diventate più sofisticate, come dimostra ad esempio il programma PRISM della National Security Agency smascherato da Edward Snowden nel 2013: una massiccia operazione di sorveglianza di massa che ha preso di mira decine e decine di milioni di civili e di personaggi politici in tutto il mondo, compresi gli alleati degli Stati Uniti”. La propaganda grigia, invece, è tutto quello che c’è nel mezzo: viene tipicamente condotta dal governo USA tramite organizzazioni terze, solo apparentemente indipendenti, come il variegato universo delle grandi ONG internazionali legate al caro vecchio NED, il National Endowment for Democracy, che si occupa di finanziare organi di stampa, think tank e gruppi della società civile: queste maschere “nere, bianche e grigie operano in coordinamento”, sottolinea il rapporto, “servendo collettivamente gli interessi strategici degli Stati Uniti”; “un sofisticato design tridimensionale che consente una selezione flessibile di metodi di propaganda su misura per contesti e obiettivi diversi”.
“Lo scopo fondamentale della manipolazione ideologica degli USA è quello di spacciare regole, che servono esclusivamente gli interessi particolari degli Stati Uniti, come fondamenta di un ordine internazionale universalmente accettato e, in questo processo, garantire il godimento perpetuo dei propri privilegi”: “Una serie di valori americani come la democrazia capitalista, l’individualismo, l’egoismo, il materialismo e l’edonismo vengono rappresentati come valori universali da applicare a livello globale”; “Democrazia, libertà, uguaglianza e diritti umani”, concede il rapporto, “sono valori e obiettivi comuni perseguiti dalla società umana”, ma quello che gli Stati Uniti cercano di inculcare è che “solo un’economia capitalista di mercato può garantire la realizzazione di questi valori; eppure”, sottolineano, “i fatti dimostrano esattamente il contrario: l’economia di mercato capitalista, per sua natura, è al servizio di una piccola minoranza di persone, e in questo ambito questi valori sono destinati a rimanere lettera morta”.
Il rapporto ricorda come gli USA abbiano creato a tavolino un mito fondativo idilliaco e impeccabile: nella storiografia ufficiale, riassunta nel celebre documentario educativo America: The Story of US, che ogni studente statunitense ha visto almeno una volta nel corso della sua carriera scolastica, il continente nordamericano viene descritto come “un vasto territorio di ricchezza inesplorata” e i primi coloni vengono glorificati come “pionieri coraggiosi” che “hanno combattuto per la libertà”; eppure, ricorda il rapporto, questa “narrativa patinata” rimuove completamente “l’altro lato della moneta: le atrocità coloniali, i crimini di guerra e il genocidio dei nativi”. D’altronde, “dare forma alle emozioni e ai comportamenti del pubblico è da sempre il cuore della propaganda”, sottolinea il rapporto; come affermava Elmer Davis, responsabile dell’ufficio statunitense di informazione bellica durante la seconda guerra mondiale, “il modo più semplice per iniettare un’idea nella mente della maggior parte delle persone è farla passare attraverso un film di intrattenimento, quando non si rendono conto che quello che stanno vedendo è pura propaganda”.
Ed ecco, così, che il capitale statunitense “è stato impiegato per formare conglomerati mediatici su scala globale, in grado di promuovere lo stile di vita americano in vari prodotti culturali”; una “catena industriale della cultura pop” attraverso la quale gli USA riescono a infiltrare l’ideologia attraverso l’intrattenimento in tutto il pianeta: “Per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale”, ricorda il rapporto, “il Presidente Roosevelt nominò un coordinatore per fare da tramite tra il governo degli Stati Uniti e l’industria cinematografica, facilitando l’intervento diretto del governo nelle produzioni di Hollywood”. E dopo la seconda Guerra Mondiale, la concessione degli aiuti previsti nell’ambito del piano Marshall era subordinata alla totale “apertura dei mercati locali ai prodotti cinematografici USA”, che arrivarono rapidamente a controllare “oltre il 70% del mercato globale”. Tuttavia, è solo a partire dall’inizio del XXI secolo, con le ultime scoperte nei campi della psicologia e delle neuroscienze, che il concetto di guerra cognitiva raggiunge la sua fase matura e i social network offrono un campo di battaglia ideale: “Le statistiche”, ricorda il rapporto, “mostrano come il Comando Centrale degli Stati Uniti ha gestito a lungo numerosi account falsi in lingua araba su X, pubblicando oltre 100 mila messaggi tra il 2017 e il 2022”; “allo stesso tempo”, per prevenire “il flusso contrario di “idee ostili”, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a misure come la limitazione indiscriminata della distribuzione di determinati contenuti, l’imposizione della revisione degli stessi e il blocco di un numero sempre maggiore di account ritenuti ostili”.
Impedire la diffusione di narrazioni alternative, per gli USA è sempre stata una vera e propria ossessione che, tra le altre cose, ha perseguito imponendo un monopolio globale sulle infrastrutture di telecomunicazione: già nel lontano 1920, il governo USA investì una quantità consistente di denaro per imporsi come sede della prima conferenza internazionale sulle comunicazioni radio dopo la prima guerra mondiale; da lì in poi, è sempre riuscita a imporre il suo predominio sugli standard tecnici globali. “Da allora”, sottolinea il rapporto, “USA e alleati hanno mantenuto un vantaggio pionieristico nella tecnologia delle comunicazioni, costruendo, gestendo e controllando tutte le infrastrutture: dai cavi sottomarini alle reti terrestri in fibra ottica“, come quella ex TIM, ora di proprietà della KKR, dell’ex capo della CIA David Petraeus, per non parlare della costellazione di 12 mila satelliti di Starlink che, grazie al governo Meloni, ha ottenuto condizioni di favore che dovrebbero permettergli sostanzialmente di estendere il suo quasi-monopolio anche al belpaese.
Avere il controllo delle telecomunicazioni è una vera figata: lo sanno bene gli abitanti della ex Jugoslavia. Nel 1999, la NATO ha deciso di bombardarli per bene e, durante i bombardamenti, per impedire che a qualcuno giungesse una versione diversa della storia, “gli Stati Uniti fecero pressione su Eutelsat affinché interrompesse la trasmissione dei programmi satellitari della Radio Televisione Serba. Poco dopo”, insiste il rapporto, “anche il satellite isralieano Amos-1 fece lo stesso”. Oltre alle infrastrutture poi, ci si sono messe le piattaforme: come sottolinea ancora il rapporto, infatti, attraverso la gigantesca mole di dati dei social e l’impiego dell’intelligenza artificiale, le piattaforme abilitano “la distribuzione di contenuti altamente personalizzati” e permettono, così, agli USA di “plasmare la percezione di gruppi specifici” fornendo un servizio straordinario al suo “progetto globale di colonizzazione della mente”; e ora, “per prevenire la futura concorrenza, gli Stati Uniti stanno integrando attivamente tecnologie cognitive all’avanguardia, come l’intelligenza artificiale e la biotecnologia, per portare la colonizzazione della mente al livello successivo”. Grazie a questa prolungata e pervasiva colonizzazione della mente, “ad alcune élite e gruppi vari nei Paesi in via di sviluppo è stato fatto un vero e proprio lavaggio del cervello”; “hanno completamente smarrito ogni forma di indipendenza filosofica e soccombono a una sorta di sindrome da addomesticamento culturale: interiormente, venerano gli Stati Uniti; a parole, li adulano; nella condotta, li temono”. Il rapporto la definisce afasia postcoloniale, una perdita di indipendenza e di dignità che va ben al di là dei rapporti di forza e che è in grado di corrompere in profondità e sfociare in una sorta di “nichilismo nazionale” che, dalle élite, poi pervade il grande pubblico; eppure, sottolinea il rapporto, “Negli ultimi anni, i paesi del Sud del Mondo sembrano essersi risvegliati” e cominciano a chiedere con sempre più insistenza “di spezzare le catene della colonizzazione della mente”.
La Cina guida questa sorta di nuovo rinascimento e si mette a disposizione affinché “le nazioni emergenti si liberino dalla dipendenza intellettuale e intraprendano percorsi di sviluppo realmente indipendenti”, perché “solo rompendo completamente le catene mentali costruite dagli stati Uniti e dall’Occidente, questi Paesi possono tracciare una nuova strada per lo sviluppo della loro civiltà”; in questo senso, conclude il rapporto con uno slancio di ottimismo, “le ruote del tempo stanno andando avanti in modo irreversibile” e “quando le catene della colonizzazione della mente saranno completamente infrante, una nuova forma di civiltà globale caratterizzata da una coesistenza pluralistica emergerà dal bozzolo, e una comunità umana dal futuro condiviso potrà finalmente brillare in tutto il suo splendore”. Per decolonizzarci la mente, di sicuro abbiamo anche bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte: quella opposta al colonialismo a stelle e strisce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
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