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Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina…
Una latinoamerica a fisarmonica
di Fulvio Grimaldi
Per semplificare e non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti, progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi anti-yankee”. Sarebbe il minimo, ma preziosissimo, sindacale. Usiamo questa qualifica per chi difende la sovranità e respinge la manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni tra liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor (ricordate? Pinochet-Cile, Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori Perù…).
La rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo indigeno presidente, Evo Morales. Da presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione della legge costituzionale sul tema.
Buoni, cattivi e così così
Le due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste, di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.
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Conversazione (im)possibile con Frantz Fanon su fame, violenza e decolonizzazione* **
di Andrea Muni
AM: Frantz, nel tuo libro più celebre, I dannati della terra, tu alterni spesso due “fami”, una di dignità e di libertà, l’altra reale, effetto della schiavitù, delle privazioni e della sottomissione violenta. Ho deciso venirti a trovare perché troppe cose, negli ultimi anni, ci stanno restituendo la consapevolezza che noi europei, noi italiani stessi, siamo ancora dei colonizzati. I nostri governi sono espressione di élites (pseudo-progressiste o liberal-conservatrici) in mano ai poteri forti franco-tedeschi e americani. La nostra cultura è omologata, i nostri valori interamente riformati da uno pseudo-universalismo violento e repressivo che, non a caso, parla col timbro di voce dei nostri padroni. Le persone che appartengono alle classi sociali più svantaggiate e marginali – quelle che non hanno nulla da offrire ai colonizzatori se non il proprio sfruttamento, ne percepiscono oggi, anche in Europa, la violenza con un’intensità inedita. Come sono visti i marginali e gli sfruttati dai nuovi coloni del nostro mondo? Come pensi andrà a finire questa brutta storia?
FF: Denutriti, malati, se [i colonizzati] ancora resistono, la paura conclude l’opera: si puntano su [di loro] fucili; vengono civili a stabilirsi sulle loro terre e li costringono con lo scudiscio a coltivarle per loro. Se [il colonizzato] resiste, i soldati sparano, lui è un uomo morto; se cede, si degrada, non è più un uomo; la vergogna e la paura incrineranno il suo carattere, disintegreranno la sua persona. […] Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma fino a un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro, dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza. Povero colonizzatore: [il colonizzato] è la sua contraddizione messa a nudo. […] Mancando di spingere il massacro fino al genocidio, e la servitù fino all’abbrutimento, [lentamente il colono] perde il controllo [del colonizzato], l’operazione si capovolge, un’implacabile logica la porterà fino alla decolonizzazione.
AM: Per chi non ti conoscesse, tu sei una delle “star” del movimento e della cultura decoloniale, sei nato in Martinica (colonia caraibica francese), sei nero, sei un comunista, e uno psichiatra che ha studiato in Francia, per divenire infine eroe della resistenza e dell’indipendenza algerine, dove ti eri trasferito per fare il tuo mestiere (e da cui sei stato cacciato nel 1957 dalle forze di occupazione francesi).
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BRICS 2025: il nuovo paradigma del Sud globale
di Marco Consolo
Lo scorso 6 e 7 luglio a Rio de Janeiro si è svolto il 17° Vertice dei BRICS+. Tema centrale: “Rafforzare la cooperazione del Sud globale per una governance più inclusiva e sostenibile”. In un contesto internazionale di riassetto geopolitico, attraversato da guerre e tensioni armate, crisi sistemiche e una crescente fragilità dell’ordine multilaterale, il vertice BRICS 2025 ha segnato un punto di svolta nella postura geopolitica del Sud globale.
Per la terza volta, il Brasile ha accolto la riunione dell’alleanza, dopo gli incontri del 2014 (a Fortaleza) e del 2019 (a Brasilia). Nonostante i tentativi diplomatici di ridurre l’attrito con l’Occidente, le divergenze strutturali con Washington si sono acuite, in particolare con il presidente Donald Trump, che ha minacciato ritorsioni commerciali contro i Paesi allineati al blocco.
“Il mondo è cambiato. Non vogliamo un imperatore, siamo Paesi sovrani” ha dichiarato Luiz Inácio Lula da Silva, presidente brasiliano e anfitrione del summit, rispondendo alle provocazioni statunitensi. Lula ha anche sottolineato che i Paesi colpiti potrebbero rispondere con proprie tariffe, cosa che lo stesso Brasile ha attivato nei giorni seguenti, come risposta all’imposizione di quelle di Washington.
Con la legittimità occidentale sepolta sotto le macerie di Gaza, lo scontro era inevitabile. Le differenze riguardano due diverse visioni del mondo. Fin dall’adozione del motto del suo 17° vertice, i BRICS hanno chiarito di essere favorevoli alla “…cooperazione con il Sud globale, verso una governance multilaterale più inclusiva e sostenibile”, in opposizione alle politiche escludenti, unilaterali ed egemoniche del G-7 e degli Stati Uniti.
L’artiglieria mediatica occidentale ha speculato sull’assenza fisica di Vladimir Putin e Xi Jinping al vertice, proiettando l’immagine di un blocco indebolito, pieno di contraddizioni insanabili e non in grado di andare avanti.
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Frantz Fanon, a cent’anni dalla nascita
di Geraldina Colotti
È un centenario drammatico, quello che celebra la nascita di Frantz Fanon, avvenuta in Martinica il 20 luglio del 1925. È drammatico per l’ovvio, evidente e traumatico rimando a quanto sta avvenendo a Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi. Ed è drammatico perché ci obbliga a un contatto diretto con la parte più urticante del pensiero e della vita dello psichiatra antillano: quella dei muscoli che si flettono in attesa di assestare la zampata, quella dell’«uomo con la roncola», preoccupato di averla a portata di mano, quando «sente un discorso sulla cultura occidentale» (Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, p. 10)
È inutile far finta di niente. I cinquantenari e i centenari che si susseguono senza posa nel primo secolo del nuovo millennio, ci abituano a srotolare la pellicola del Novecento come turisti della Storia. La cosa è ambiguamente piacevole. Attiva la nostalgia. Giustifica la malinconia. Produce uno spaesamento pensoso che in fondo è rassicurante, nella misura in cui legittima la contemplazione scettica dei sacrifici e dei fallimenti accumulati dalle generazioni precedenti.
Con Fanon, adesso, questa recita è impossibile. È come se, per un malvagio tiro giocato dal caso ai dipartimenti dei cultural studies, dovessimo nuovamente sbattere la testa sulle parole dure: sullo scandalo della violenza che disintossica1, sull’eresia che mette in quarantena le etiche immacolate, perché «il bene è semplicemente quel che a loro fa male»2.
Certamente, sono posizioni che vanno inserite nel loro contesto. E il contesto è quello della guerra d’Algeria. Centinaia di migliaia di morti fra la popolazione e i combattenti in lotta per l’indipendenza nazionale. I francesi che reagiscono con i massacri, con i linciaggi degli arabi organizzati dai coloni, con la tortura praticata regolarmente sui militanti del Fronte di Liberazione Nazionale, ma anche, in larghissima scala, sulla popolazione civile. L’FLN algerino risponde usando tutti i mezzi, e giungendo anche all’uccisione di civili francesi, con bombe piazzate nei bar dei pieds-noirs e accoltellamenti casuali dei coloni, sorpresi mentre passeggiano nei loro quartieri tranquilli e blindati. Molto crudo, n’est-ce pas? E non va dimenticato che i comunisti francesi erano schierati dalla parte del loro governo, e avevano votato a favore delle misure di repressione dell’insurrezione algerina.
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L’imperialismo nell’era Trump. Usa, Cina e le catene del caos globale
di Raffaele Sciortino
Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato.
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Bibi chiederà a Trump di bombardare l’Iran? Scott Ritter dice di sì
di Mike Whitney - unz.com
Se l’Iran riprenderà l’arricchimento rifiutando le ispezioni dell’AIEA, Trump colpirà gli impianti sotterranei iraniani con un’arma nucleare B61-11 a basso potenziale.
Di solito si può dire quale parte ha vinto una guerra semplicemente osservando “cosa succede” dopo la fine delle ostilità. Dopo l’annuncio del cessate il fuoco tra Iran e Israele, milioni di iraniani si sono riversati per le strade di Teheran, intonando canzoni patriottiche e sventolando bandiere in una manifestazione spontanea di giubilo. Al contrario, non ci sono stati festeggiamenti o celebrazioni a Tel Aviv o a Gerusalemme, dove l’atmosfera era notevolmente più cupa e tetra. Ciò indica che la maggior parte delle persone crede che l’Iran abbia vinto la guerra.
Non stiamo ignorando il fatto che per Iran e Israele la soglia di successo nel conflitto era molto diversa. In qualità di aggressore, Israele doveva raggiungere i propri obiettivi strategici per poter dichiarare la vittoria, mentre l’Iran doveva solo resistere all’attacco, cosa che ha fatto con grande facilità. A prescindere dall’equità di questo parametro, il risultato è evidente: per 12 giorni, l’Iran ha tenuto testa a Israele, rispondendo colpo su colpo alla sua aggressione, fino a costringerlo a cercare un cessate il fuoco. In breve, l’Iran ha vinto.
Nel suo approccio all’Iran, Israele ha commesso diversi errori di valutazione, compromettendo le sue possibilità di successo. I suoi due errori più grandi sono stati l’eccessiva fiducia riposta nei propri sistemi di difesa aerea multilivello (Arrow 2, Arrow 3, David’s Sling, Iron Dome e THAAD), che si sono rivelati inadeguati a proteggere gli asset strategici del Paese. I pianificatori militari israeliani hanno inoltre sottovalutato in modo grossolano l’impressionante capacità missilistica di precisione di Teheran, che supera l’obsoleto arsenale israeliano e si colloca tra i migliori al mondo. La scorsa settimana, abbiamo fornito un elenco dettagliato delle principali strutture militari, di intelligence, industriali ed energetiche che sono state distrutte dai missili balistici a guida di precisione iraniani e che il sistema di difesa aerea israeliano non è riuscito a intercettare.
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Attraversando il continente nero. Letture di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Tra il novembre 2024 e il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una serie notevole di letture di testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire una finestra su un enorme e storico dibattito legato alle trasformazioni del ciclo di lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte che oggi potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione nell’era multipolare che si sta aprendo. Ciò a patto di comprendere gli errori, le compromissioni e le dimenticanze che si sono date.
Apre la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente, come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di Cedric Robinson[6]. Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams, Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali, influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali) che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica (circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’ (in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve).
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La dottrina Trump e il nuovo imperialismo MAGA
di John Bellamy Foster
In questo articolo sul movimento MAGA, John Bellamy Foster esplora il drammatico cambiamento dell'imperialismo statunitense iniziato con la prima presidenza Trump e accelerato con la seconda. Il cambiamento, spiega Foster, non è guidato dall'antimperialismo e dall'antimilitarismo, ma rappresenta piuttosto un forte spostamento a destra, alimentato dall'ipernazionalismo e dall'obiettivo di riconquistare il potere degli Stati Uniti sulla scena mondiale
Il drammatico cambiamento dell'imperialismo statunitense sotto la presidenza di Donald Trump, sia nel suo mandato iniziale che ancor più in quello attuale, ha creato una grandissima confusione e costernazione nei centri di potere istituzionali. Questa improvvisa modificazione della politica estera statunitense si manifesta nell'abbandono sia dell'ordine internazionale liberale costruito sotto l'egemonia statunitense dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia della strategia a lungo termine di allargamento della NATO e della guerra per procura contro la Russia in Ucraina. L'imposizione di elevati dazi doganali e il mutamento delle priorità militari hanno persino messo gli Stati Uniti in conflitto con i suoi alleati di lunga data, mentre si sta accelerando la Nuova Guerra Fredda contro la Cina e il Sud globale.
Il cambiamento nella proiezione di potenza degli Stati Uniti è così estremo, e la confusione che ne è derivata è così grande, che persino alcune figure, da tempo associate alla sinistra, sono cadute nella trappola di vedere Trump come isolazionista, antimilitarista e antiimperialista. Per questo, il dissociato esponente della sinistra Christian Parenti ha sostenuto che Trump «non è un anti-imperialista nel senso che gli dà la sinistra. Piuttosto, è un istintivo isolazionista dell'America-First», il cui obiettivo, «più di qualsiasi altro recente presidente», è «smantellare l'impero globale informale americano» e promuovere una nuova politica estera «antimilitarista» «che si opponga all'impero».[1]
Tuttavia, lungi dall'essere anti-imperialista, il cambiamento globale nelle relazioni esterne degli Stati Uniti sotto Trump è dovuto a un approccio ipernazionalista al potere mondiale radicato in settori chiave della classe dirigente, in particolare nei monopolisti dell'alta tecnologia, così come nei sostenitori di Trump, in gran parte appartenenti alla classe medio-bassa. Secondo questa prospettiva neofascista e revanscista, gli Stati Uniti sono in declino come potenza egemonica e minacciati da nemici potenti: il marxismo culturale e gli immigrati "invasori" dall'interno, la Cina e il Sud globale dall'esterno, mentre sono ostacolati da alleati deboli e dipendenti.
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Fame e speculazione a Gaza
Chris Hedges intervista Francesca Albanese
Vi presentiamo la trascrizione del colloquio – intervista tra il giornalista Premio Pulitzer, Chris Hegdes e la relatrice ONU per la Palestina, Francesca Albanese, sul genocidio di Israele nella Striscia di Gaza
Quando verrà scritta la storia del genocidio a Gaza, una delle figure più coraggiose e schiette nella difesa della giustizia e del rispetto del diritto internazionale sarà Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi. Albanese, giurista italiana, ricopre la carica di relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi dal 2022. Il suo ufficio ha il compito di monitorare e segnalare le “violazioni dei diritti umani” commesse da Israele contro i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
Albanese, che riceve minacce di morte e subisce campagne diffamatorie ben orchestrate da Israele e dai suoi alleati, cerca coraggiosamente di assicurare alla giustizia coloro che sostengono e alimentano il genocidio. Lei denuncia aspramente quella che definisce “la corruzione morale e politica del mondo” per il genocidio. Il suo ufficio ha pubblicato rapporti dettagliati che documentano i crimini di guerra commessi da Israele a Gaza e in Cisgiordania, uno dei quali, Genocide as Colonial Erasure, ho ristampato come appendice nel mio ultimo libro A Genocide Foretold.
Sta lavorando a un nuovo rapporto che smaschera le banche, i fondi pensione, le aziende tecnologiche e le università che aiutano e favoriscono le violazioni del diritto internazionale, dei diritti umani e i crimini di guerra da parte di Israele. Ha informato le organizzazioni private che sono “penalmente responsabili” per aver aiutato Israele a compiere il “genocidio” a Gaza.
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Cessate il fuoco – La resa dei conti è rinviata
di Konrad Nobile
I sorprendenti sviluppi che hanno portato al cessate il fuoco tra Israele e Iran mi spingono a fare il punto della situazione e fare un bilancio di questa guerra dei 12 giorni e delle sue possibili conseguenze.
Ovviamente premetto che si tratta di considerazioni fatte a caldo e ancora sotto l’effetto di un forte coinvolgimento emotivo. Inoltre, mi rendo conto che dalla posizione di spettatore lontano, sicuro e privilegiato non si possa comprendere appieno la situazione reale.
Sicuramente per capire veramente quel che è successo e le sue ripercussioni ci vuole del tempo, calma e una lucidità e una profondità che mi mancano.
Qualche giorno or sono ho scritto un articolo per ComeDonChisciotte dal titolo “GUERRA ALL’IRAN: I NODI VENGONO AL PETTINE”, nel quale ho sostenuto che lo scontro apertosi in Asia occidentale sia da interpretare come uno scontro esistenziale (per tutte le parti coinvolte).
Nonostante lo sviluppo del cessate il fuoco, riconfermo questa lettura, per quanto lo scontro venga ora “congelato” e rinviato nuovamente.
Ad ogni modo, la soluzione trovata da Trump con la mediazione del Qatar è stata sorprendente: è stata smentita la tesi, espressa nel mio precedente articolo, che sosteneva che “Lo scontro apertosi il 13 giugno con l’aggressione israeliana alla Repubblica Islamica è ormai molto difficile possa rientrare per lasciare spazio a nuovi compromessi e negoziati.”.
Alla fine, invece, almeno per ora, è stata trovata proprio quella “improbabile de-escalation” che non ritenevo di facile realizzazione.
Ho l’impressione che la mossa di Trump, aiutata dalla Russia e dalla Cina, sia stata abilissima per tutelare i suoi interessi e salvaguardare il sistema economico-commerciale globale.
Il presidente americano è riuscito a venirne fuori alla grande, anche se i risultati finali si potranno trarre nel medio-lungo periodo.
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Il resettaggio bellico del sistema-mondo
di Geraldina Colotti
Di fronte a un'escalation bellica che sta superando tutti i livelli di guardia, i richiami alle norme che regolano i conflitti a livello internazionale per evitare una guerra nucleare (tra i quali quello dello scienziato italiano, Giorgio Ferrari, e il tardivo ripensamento dei vertici dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica -Aiea -), sembrano destinati al vuoto, consegnati a un deserto, di sordità o di impotenza.
Intanto perché i due principali attori che spingono il mondo verso la catastrofe - gli Stati uniti e il regime sionista, il padrone imperiale e il suo cane da guardia, sempre scalpitante e ora senza freni - si considerano al di sopra delle regole, avendo rifiutato di firmare qualunque trattato che ne limitasse l'azione.
Né gli Usa né la sua rabbiosa propaggine, messa a guardia degli interessi occidentali in Medioriente, hanno infatti ratificato i Protocolli aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra, che vietano il bombardamento dei siti nucleari. “Israele” (al pari di India e Pakistan) non ha d'altronde firmato neanche l'originario Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), entrato in vigore nel 1970 e sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, e considerato il punto più alto del contenimento collettivo deciso nel secolo scorso. E ha continuato a sviluppare il suo arsenale nucleare e quello di menzogne, coperte dagli Usa, dalla Francia e poi dall'Unione europea.
L’Italia, per esempio, il cui governo erede del fascismo non ha votato per il riconoscimento dello Stato di Palestina, ritenendo che debba avvenire “nel quadro di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi e non unilateralmente”, si è spesso astenuta nelle votazioni all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite su risoluzioni che avrebbero potenziato i diritti della Palestina come Stato osservatore. In concreto, fa grossi affari con il regime sionista, e gli fornisce elicotteri, cannoni navali ed altri armamenti, ma anche componenti dei caccia F-35, vettori di armi nucleari.
Bisogna ricordare che il Tnp, in uno dei suoi tre punti principali riconosce il diritto di tutti gli stati che fanno parte del trattato di sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici, con la supervisione dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) per garantire che tale tecnologia non venga deviata per scopi militari.
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La natura deterministica di questa guerra
di ALGAMICA*
Di fronte alla aggressione terrorista dello Stato di Israle contro l’Iran, che fa il lavoro sporco per conto dell’Occidente, e agli Stati Uniti, che dopo tanto tentennare, sono intervenuti con i loro bombardieri B-2, molti temono che si sia oltrepassata una linea rossa. Tutto sta precipitando improvvisamente verso gli scenari politici, sociali e militari del secolo scorso?
Prima di addentrarci su questa domanda vogliamo chiarire un punto. Israele aggredisce perchè insieme all’Occidente, si è ficcato in un vicolo cieco nel genocidio del popolo palestinese, nella deportazione di tutti i palestinesi da Gaza. In sostanza agisce in preda a una crisi esistenziale infiammando l’intera area mediorientale. Gli Stati Uniti, che non vorrebbero impantanarsi in guerre che non possono vincere fino in fondo – basta vedere come è andata a finire per l’invicibile armada contro lo Yemen degli Houthi – di fronte a un pazzo che getta una bomba dentro una sala dove stai negoziando, è assalito dal dubbio amletico: « vorrei rilanciare l’american dream smettendo di promuovere guerre infinite, ma la guerra infinita è arrivata a me, mi lascio trascinare o non mi lascio trascinare? Temporeggio due settimane oppure agisco immediatamente sperando di risolvere il tutto con un paio delle mie super bombe? »
Dietro alla retorica anche per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per l’insieme dell’Occidente, si pone lo stessa dilemma esistenziale. Sotto i colpi di una crisi generale dell’accumulazione e una crisi demografica, la cosiddetta civiltà occidentale si trova a dover segnare il passo in Africa, in Medio Oriente in Asia e in America Latina. La questione palestinese, anch’essa irrisolvibile nell’attuale quadro. Nonostante questi mesi abbiano segnato passaggi a favore di Israele, nel genocidio di Gaza e nella frantumazione della Siria cannibalizzata, lo Stato sionista non è in grado di reinvertire il corso della sua crisi. Circa l’aggressione militare israeliana all’Iran, Steve Bannon lucidamente sintetizzava il dilemma che continua a logorare gli Stati Uniti attraverso una domanda rivolta all’establishment israeliano:
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Perché gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran?
di Paolo Cornetti
Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
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Israele e Iran salvano la faccia, Trump vince (e anche Putin)
di Gianandrea Gaiani
(aggiornamento alle ore 17,00 del 24.6)
La tregua stabilita nelle scorse ore è stata annunciata da Donald Trump e poi dai governi di Teheran e Tel Aviv ha preso corpo troppo in fretta lasciando il dubbio che facesse parte di un piano già predefinito, probabilmente fin dall’avvio dei bombardamenti statunitensi sui centri nucleari iraniani.
Gli ultimi sviluppi del conflitto sembrano indicare che abbia trovato ampie conferme l’ipotesi formulata da Analisi Difesa di “un’ammuina” statunitense tesa a salvare la faccia a Benjamin Netanyahu offrendo una via d’uscita a Israele ormai a corto di armi antimissile.
USA e Israele hanno annunciato la “missione compiuta” dicendosi certi della totale distruzione del programma nucleare iraniano Trump nonostante non vi siano certezze circa i danni inflitti ai bunker sotterranei, alcuni dei quali peraltro non noti, e nonostante non vi sia traccia di oltre 400 chili di uranio arricchito.
Richard Nephew, ex funzionario statunitense esperto di Iran Usa, ha detto il Financial Times che nessuno sa dove siano finiti i 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento. Gli Stati Uniti e Israele non hanno la capacità per riuscire a individuarlo a breve. L’intervento militare americano ha al più ritardato di qualche mese il programma atomico di Teheran.
Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, ha dichiarato che Teheran sta “valutando la possibilità di riparare e rilanciare le parti danneggiate dell’industria nucleare. Abbiamo pianificato in modo che non ci fossero interruzioni nel processo produttivo”, ha aggiunto.
L’impianto nucleare iraniano di Fordow ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco statunitense di domenica sera e la situazione nell’area è tornata alla normalità” ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim citando le autorità locali.
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“Zeitenwende” il cambiamento epocale tedesco
di Francesco Cappello
La Germania lancia sassi alla Russia nascondendosi dietro l’articolo 5 della NATO. Perché il “pacifista” Trump permette pericolosissimi dislocamenti di truppe tedesche in Lituania?
Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Germania manda truppe, in permanenza, nel territorio di un altro paese. L’ultima volta, come si ricorderà, fu nel caso della tentata invasione della Russia, la cosiddetta operazione Barbarossa che costò da 26 a 27 milioni di vittime tra civili e militari all’URSS.
Si tratta di cinquemila uomini di una divisione pesante (vedi scheda).
Come è noto, da sempre la Nato è sotto comando statunitense. Se Trump fosse realmente interessato alla distensione con la Russia, oltre che a smantellare le armi nucleari USA sul territorio europeo, piuttosto che aggiungerne di nuove (si pensi alle nuove bombe nucleari B61 13), bisognerebbe che si opponesse alla pericolosa dislocazione di truppe tedesche in Lituania.
Immaginiamo uno scontro tra lituani e russi, al confine tra Lituania e Russia. La Lituania confina con Kaliningrade, l’exclave russa, a due passi dal territorio continentale russo. Nel caso di una risposta militare ad una qualsiasi provocazione che coinvolgesse truppe lituane/tedesche scatterebbe la possibilità di far ricorso all’articolo 5 [1] del trattato Nord Atlantico che comporterebbe l’attivazione di 31 paesi membri in soccorso della Lituania contro la Russia. Si ricordi che sin dall’inizio i russi hanno avvertito che il giorno in cui il conflitto dovesse malauguratamente uscire dal territorio ucraino, e la Federazione Russa si trovasse a dove far fronte a tutta la NATO, diventerebbe inevitabile per la sua difesa il ricorso all’enorme arsenale nucleare di cui dispone, quale extrema ratio per difendersi a fronte di una minaccia ormai esistenziale.
L’arrivo di truppe tedesche permanenti in Lituania sarebbe un atto di difesa preventiva: non più se serve interveniamo, ma siamo già qui, pronti a reagire subito
Parlano, infatti, di “rafforzamento” dell’articolo 5 con riferimento al posizionamento militare reale, non solo simbolico. La NATO ha sempre avuto piani per la difesa dell’Europa orientale, ora però sta pensando e realizzando basi permanenti.
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