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intelligence for the people

Hamas: la storia che in Occidente non si può raccontare

di Roberto Iannuzzi

L’ascesa con il sostegno di Israele, la vittoria elettorale del 2006, il tentato golpe americano ai suoi danni e la frattura palestinese, la prigione di Gaza, la demonizzazione del movimento

f23d95c3 e1e2 40ae b6b9 41b17849aaf3 2048x1356Dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, una componente chiave della propaganda di guerra condotta dai media e dalla classe politica in Israele, ma anche in alcuni paesi occidentali, è stata il tentativo di dipingere il gruppo islamico palestinese come un equivalente dell’ISIS.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha riproposto più volte questa analogia, affermando che “così come le forze della civiltà si sono unite per sconfiggere l’ISIS, esse devono appoggiare Israele nello sconfiggere Hamas”.

Quella di Netanyahu è una formulazione non nuova – visto che già all’Assemblea generale dell’ONU del 2014 egli aveva affermato che “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas” – ma sembra aver assunto una valenza ulteriore nei giorni scorsi.

Il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin ha definito “peggiore dell’ISIS” ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha addirittura suggerito che la coalizione internazionale creata per combattere l’ISIS venisse estesa alla lotta contro Hamas.

In altre circostanze, come ad esempio in occasione di una recente conferenza stampa assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, Netanyahu ha invece definito Hamas “i nuovi nazisti”, aggiungendo che la ferocia mostrata dal gruppo “ci ricorda i crimini nazisti durante l’Olocausto”.

 

Demonizzazione, decontestualizzazione, destoricizzazione

Questa retorica è stata poi ulteriormente estremizzata e generalizzata per accusare non più solo un gruppo armato (che tuttavia è anche un movimento politico), ma un intero popolo.

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lantidiplomatico

Indipendenza nazionale, socialismo e lotta per il multipolarismo

di Leonardo Sinigaglia

720x410c50mif423.jpgIl passaggio a un mondo multipolare è ormai uno dei temi più dibattuti e presenti all’interno dello scenario politico internazionale.

Quello che fino a qualche anno fa rappresentava un fenomeno “di nicchia”, intuibile (in Occidente) solo da pochi individui e organizzazioni, è ormai diventato un qualcosa di palese, oggettivo e innegabile anche per le grandi masse. Come più volte ribadito dal presidente Xi Jinping, ci si trova innanzi a cambiamenti mai sperimentati da un secolo a questa parte, a un passaggio di fase profondo destinato a definire i decenni a venire. Questo cambiamento è associato a una contraddizione, quella tra le spinte alla multipolarizzazione del mondo e l’imperialismo egemonico statunitense. Tale scontro viene in Occidente definito principalmente in tre modi: il tentativo di costruzione di un’egemonia alternativa, da cui l’ordine liberale dovrebbe difendersi; la lotta tra “opposti imperialismi”, egualmente reazionari e distanti dagli interessi della classe lavoratrice; uno conflitto destabilizzante che solo collateralmente può aprire spazi d’azione politica per il “movimento comunista”. Tutte queste tre visioni sono fondamentalmente errate e strettamente connesse l’un l’altra in quanto espressione, seppur in diverse gradazioni e forme, dell’adesione ideologica e materiale al sistema imperialista e all’incapacità di pensare altrimenti rispetto alle sue prospettive ideologiche.

 

Il multipolarismo è la negazione dell’egemonia

Il sistema liberal-boghese non è in grado e non è interessato a comprendere come possano esistere mentalità diverse da quella predatoria che lo caratterizza.

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lantidiplomatico

Reportage dalla Cina - BRI ad alta qualità

Come funziona la "nuova piattaforma delle relazioni internazionali"

di Alessandro Bianchi

Da Pechino, Zhengzhou e Fujan (15-25 ottobre 2023)

386449123 205250092600915 3338323493355813347 n.jpg“Per condurre una vita significativa, bisogna costruire la felicità con gli altri”. Questo proverbio cinese mi ha costantemente accompagnato nei 10 giorni in cui ho potuto assaporare in prima persona il sostrato storico, culturale e politico della Belt and Road Initiative (o nuova via della Seta), il pilastro più importante della politica internazionale della Cina contemporanea.

Davvero difficile trovare le giuste parole per spiegare la “comunità dal destino condiviso per l'umanità”, alla base del progetto di Pechino, in un paese, come il nostro, che ha smesso di concepire un futuro solidale di uguaglianza e diritti sociali per la nostra di collettività, figuriamoci in una visione globale.

Nel 2013, il neoeletto presidente cinese Xi Jinping annunciava al mondo la nascita della “One Belt One Road”, un immenso progetto infrastrutturale che avrebbe legato, come una nuova via della seta appunto, decine di paesi sulla base di un approccio di cooperazione e "win win". 10 anni dopo “i progetti sono divenuti realtà” e Xi ha decretato, in occasione del Terzo Belt and Road Forum, l'inizio di una più ambiziosa fase: la “Bri ad alta qualità”.

“Siamo dalla parte corretta della storia”, ha chiosato Xi nel suo discorso di inaugurazione nella Sala del Popolo il 17 ottobre a Pechino che molti funzionari del PCC ci hanno definito di “portata storica”. 8 nuovi punti programmatici che scandiranno le prossime tappe di quella che il presidente cinese ha definito la “nuova piattaforma delle relazioni internazionali”, un’iniziativa che ha già tolto dalla povertà milioni di persone nei 150 paesi aderenti.

I prossimi anni, secondo il presidente XI, devono prevedere il passaggio ad una BRI di “alta qualità”, con due direttive di riferimento: la connessione tecnologica e la cooperazione “people to people” nel rispetto delle diverse civilizzazioni dei popoli aderenti.

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Quel linguaggio “messianico” che rivela la crisi

di Dante Barontini

linguaggio messianico rivela crisi.jpgChi parla male, pensa male perché sta male. In tempi di guerra questo diventa particolarmente evidente, è sempre andata così. Ma in questa – tra Gaza e Kiev – sta emergendo qualcosa di più grave.

La mostrificazione e disumanizzazione del nemico è quasi fisiologica, in qualsiasi guerra. Bisogna motivare i propri combattenti, convincerli a morire per una “causa giusta”, stringere la popolazione intorno allo sforzo bellico e ai “sacrifici” che ne derivano come qualità della vita, perdita del benessere, ecc.

Niente di nuovo…

Ma in qualsiasi guerra – ha provato a ricordare Massimo Cacciari, e non solo lui – ci deve essere una recta intentio, ossia un obiettivo politico razionale e raggiungibile (fondato su interessi particolari, ci mancherebbe…) che dovrebbe inaugurare un nuovo periodo di assenza di guerra (la ‘pace perpetua’ è una speranza nobile, ma tale resta).

Il che significa che il nemico sarà di nuovo accettato come interlocutore, in altre condizioni “a noi” più favorevoli. Non che “cesserà di esistere”.

E’ la visione interpretata al meglio, sul piano della teoria militare, da von Clausewitz – “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” – che è poi la chiave del “realismo politico”. Inutile insomma porsi obiettivi “ipergalattici” o metafisici, perché sicuramente non saranno mai raggiunti.

Eppure, se guardiamo alle “strategie comunicative” delle cancellerie occidentali – a partire da Israele – e del sistema dei media che ne dipende (la “stampa libera” è una foglia di fico; sono ben poche, e non primarie, le testate che possono fregiarsi a ragione di questa definizione), vediamo che predomina la retorica ultra-ideologica o addirittura religiosa.

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lantidiplomatico

Come gli Usa di Biden alimentano la pulizia etnica a Gaza

di Chris Hedges* - Scheerpost

720x410c50nytrs.jpgIsraele, con il sostegno degli Stati Uniti e degli alleati europei, si sta preparando a lanciare non solo una campagna di terra bruciata a Gaza, ma la peggiore pulizia etnica dai tempi delle guerre nell’ex Jugoslavia.

L’obiettivo è spingere decine, molto probabilmente centinaia di migliaia di palestinesi oltre il confine meridionale di Rafah nei campi profughi in Egitto. Le conseguenze saranno catastrofiche, non solo per i palestinesi, ma per tutta la regione, e quasi certamente scateneranno scontri armati nel nord di Israele con Hezbollah in Libano e forse con Siria e Iran.

L’amministrazione Biden, eseguendo pedissequamente gli ordini di Israele, sta alimentando la follia. Gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a porre il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva pause umanitarie per fornire cibo, medicine, acqua e carburante a Gaza. Ha bloccato le proposte di cessate il fuoco. Ha proposto una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che afferma che Israele ha il diritto di difendersi. La risoluzione chiede inoltre all’Iran di smettere di esportare armi a “milizie e gruppi terroristici che minacciano la pace e la sicurezza in tutta la regione”.

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono moralmente in bancarotta e complici del genocidio quanto coloro che furono testimoni dell’Olocausto nazista degli ebrei e non fecero nulla.

Il conflitto, che è costato la vita a 1.400 israeliani e ad almeno 4.600 palestinesi a Gaza, si sta ampliando. Israele ha effettuato un secondo attacco aereo su due aeroporti in Siria. Scambia quotidianamente raffiche di razzi con le milizie Hezbollah. Le basi militari americane in Iraq e Siria sono state attaccate dalle milizie sciite.

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I maiali dell’informazione

di Dante Barontini - Redazione

vignetta morti uccisi 680x300I. 

Siamo abituati da sempre alle menzogne dell’informazione di regime. E sapevamo bene che in tempi di guerra ci saremmo trovati davanti a un muro di merda spacciata per “notizie verificate”.

Un anno e mezzo di guerra in Ucraina hanno dimostrato fin troppo bene la verità di questo assunto. Ogni parola di Kiev è stata presa per oro colato. Persino gli attacchi in territorio russo o gli attentati a Mosca sono stati inizialmente “passati” come “azioni dei russi contro se stessi”.

Resta indelebile l’esempio dell’attacco al ponte di Kersh, in Crimea, rivendicato solo dopo un anno dal regime ucraino e solo allora registrato anche dai media occidentali tra i “successi” di Kiev.

Ma è con la guerra su Gaza che i media stanno dando il peggio di sé. Perché Israele deve essere “angelicata” anche e soprattutto quando commette evidenti crimini di guerra.

Nei giorni scorsi avevamo centrato l’attenzione su singoli casi, enormi per la copertura mediatica ricevuta da queste parti. Per esempio il caso dei “40 bambini decapitati” che nessun testimone terzo ha mai visto, con Netanyahu a spargere improbabili foto in giro e le scuse della Cnn per avergli dato inizialmente credito.

Oppure quello della donna e i due bambini rilasciati dai miliziani di Hamas già nelle prime ore dopo il clamoroso attacco nel sud di Israele.

O ancora quello di un’altra donna fuggita dal rave nel deserto, finita in un kibbutz sotto attacco e infine tornata libera, che narra come sono andate le cose dal suo punto di osservazione.

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lantidiplomatico

Da questa parte per il genocidio, Signore e Signori

di Chris Hedges - Scheerpost

il bambino con il pigiama a righe.jpegHo visto la guerra urbana in El Salvador, Iraq, Gaza, Bosnia e Kosovo. Una volta che combatti strada per strada, appartamento per appartamento, c'è solo una regola: uccidi tutto ciò che si muove. I discorsi sulle zone sicure, le rassicurazioni sulla protezione dei civili, le promesse di attacchi aerei “chirurgici” e “mirati”, la creazione di vie di evacuazione “sicure”, la fatua spiegazione secondo cui i civili morti sarebbero rimasti “in mezzo al fuoco incrociato”, l’affermazione che le case e i condomini ridotti in macerie dalle bombe fossero la dimora di terroristi o che i razzi erranti di Hamas fossero responsabili della distruzione di scuole e cliniche mediche, fa parte della copertura retorica per effettuare massacri indiscriminati.

Gaza è un’area così piccola – 25 miglia di lunghezza e circa 5 miglia di larghezza – e così densamente popolata che l’unico risultato di un attacco terrestre e aereo israeliano è la morte di massa di quelli che il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant chiama “animali umani” e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu li definisce “bestie umane”. Il membro della Knesset israeliana Tally Gotliv ha suggerito di lanciare “armi apocalittiche” su Gaza, ampiamente visto come un appello per un attacco nucleare. Il presidente israeliano Isaac Herzog venerdì ha respinto le richieste di proteggere i civili palestinesi. "C'è un'intera nazione là fuori che è responsabile... questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera", ha detto Herzog. “Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza con un colpo di stato”. Ha aggiunto: “Gli spezzeremo la spina dorsale”.

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lacausadellecose

Stato di Israele, niente è eterno

di Michele Castaldo

Ringhi Neta.jpgIl clamore che sta suscitando l’azione di Hamas in territorio israeliano ha dell’incredibile, la stampa occidentale si mostra sgomenta e meravigliata per l’improvvisa azione di un gruppo di persone con rudimentali mezzi ma con tanta rabbia in uno Stato fra i più potenti al mondo dal punto di vista militare. Verrebbe da dire: signori ma che vi aspettavate? Zagare profumate e pasticcini? Chi semina vento raccoglie tempesta e come sempre i fatti si pongono all’attenzione dell’individuo che è chiamato a schierarsi secondo i suoi interessi e le sue inclinazioni. Una legge che vale per tutti. Titolo queste brevi note «niente è eterno» volendo affermare da subito che lo Stato di Israele è entrato ormai in un cuneo obbligato della storia che lo porterà alla dissoluzione. Capisco che questa affermazione può provocare anche ilarità, ma la storia ha leggi proprie e se ne frega dei fessi che si lasciano abbagliare dalla potenza delle sembianze del momento. Proprio il clamore suscitato dall’azione di Hamas è uno dei sintomi del destino ormai segnato della sua dissoluzione.

Faccio mia la tesi di fondo di Gilles Kepel, che a tutta pagina sul Corriere della sera di martedì 10 ottobre, cioè immediatamente dopo i fatti del 7 ottobre, dice «l’offensiva di Hamas è un colpo sferrato contro tutte le potenze occidentali». Com’è possibile si chiede lo scettico che un gruppo di poche migliaia di palestinesi, in nome del suo popolo, sia in grado di lanciare una sfida di portata storica a tutto l’Occidente? Questa diffidenza è dovuta all’ignorantitudine, (il lettore mi perdonerà per il “neologismo” ovvero per l’abitudine all’ignoranza), legata a non capire le ragioni storiche che fecero sorgere in quella precisa area geografica e in quel preciso momento storico lo Stato di Israele.

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nicomaccentelli

La questione palestinese tra multipolarismo e decolonizzazione

di Nico Maccentelli

391726842 2396991384023898 7884086514140590990 n.jpgPiaccia o no ai nostri commentatori, veri aedi del suprematismo occidentale, gli eventi di questi giorni in Palestina collocano il conflitto israelo-palestinese dentro le dinamiche internazionali odierne. Le misure fasciste prese da Macron in Francia, che vietano le manifestazioni pro Palestina, punibili con l’arresto, dimostrano che le classi governanti atlantiste stanno comprendendo che il declino dell’impero americano davanti alle potenze emergenti in Asia e a modelli economico-sociali alternativi come in America latina, nel contesto dell’affermazione dei BRICS e dei processi di decolonizzazione come in Burkina Faso, Mali e Niger, ha forti ricadute in tutta la catena imperialista.

Piaccia o no a lor signori, e al netto di fatti specifici accaduti o esagerati o addirittura inventati nell’attacco della Resistenza palestinese nel Diluvio di Al Aqsa, Hamas e le organizzazioni di Resistenza rappresentano le aspirazioni alla liberazione dal colonialismo di insediamento razzista, suprematista e nazista del regime sionista, spacciato per “democratico” dai media occidentali e dagli agenti sionisti in Occidente. Una democrazia infatti è tale se tutta la popolazione che vive in un medesimo territorio ha i medesimi diritti, servizi e possibilità nella vita quotidiana e politica di un dato paese. Ma sappiamo bene che gli arabi non ce l’hanno né in Israele, né in quel simulacro di autorità palestinese che negli anni ha esercitato solo il compito di collaborazionista con i sionisti.

E proprio questo è il nodo della questione palestinese. L’esperienza di tre Intifade (1987, 2000 e 2015), del fallimento degli accordi di Oslo del 1993, lo sprezzante rifiuto di ottemperare alle risoluzioni ONU (1) e il conseguente stillicidio dell’oppressione su un intero popolo, hanno portato all’unica soluzione oggi possibile in quel contesto.

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lantidiplomatico

La guerra dei settant’anni, ultima puntata (per ora)

di Paolo Arigotti

720x410c50jngrdx.jpgNon ci soffermeremo sull’evoluzione dei fatti e/o sull’andamento della situazione bellica in Medio Oriente, non tanto perché sarebbe meglio lasciare il compito ad analisti ed esperti di strategia militare - quelli veri s’intende - ma perché siamo consapevoli che qualunque cosa dicessimo o scrivessimo al riguardo rischierebbe di essere ben presto superata. Lo stesso discorso si potrebbe fare per qualunque cifra o bilancio su numero o entità degli attacchi e/o di vittime, feriti e sfollati, numeri circa i quali è lecito attendersi, purtroppo, una rapida crescita.

Tanto meno ci soffermeremo sulle reazioni del cosiddetto Occidente, che ha dato sfoggio del solito campionario di slogan o frasi di circostanza; stessa riflessione si potrebbe fare per molti dei cosiddetti professionisti dell’informazione.

Bisogna riconoscere, senza per questo voler giustificare nessuno, che parlare in questo paese della conflittualità arabo israeliano non è affatto semplice: nel caso di narrazione non allineata si rischia, bene andando, di essere etichettati o messi all’indice da coloro che non tollerano di ascoltare voci dissonanti.

Una piccola lezione di stile la potrebbero fornire alcuni media insospettabili.

Cominciamo con Gideon Levy, cittadino israeliano e firma storica del quotidiano progressista Haaretz, che ha addebitato al premier Benjamin Netanyahu (Bibi per gli amici) la colpa dell’accaduto, concludendo il suo intervento con queste parole: “Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale ritiene che Israele sia una democrazia liberale e condivida gli stessi valori dell’Occidente, ma ciò non può essere del tutto vero se nel suo cortile sul retro mantiene in vigore una brutale tirannia.

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fuoricollana

Sei luoghi comuni sull’Africa

di Vincenzo Comito

L’Africa, un continente senza storia, eternamente stagnante, indifferenziato al suo interno e i cui abitanti hanno come unico scopo la fuga verso l’Europa. Luoghi comuni che alimentano il pregiudizio eurocentrico e ostacolano ogni cooperazione

guerra e razzismo mondiali.jpgIl caso dell’Africa appare abbastanza rappresentativo dello scarso livello di conoscenza del mondo nell’opinione pubblica dei nostri paesi, ignoranza che i media e il mondo politico non fanno quasi nulla per ridurre, anzi alimentano ad arte. Spesso la conoscenza della realtà si limita così ad alcuni luoghi comuni senza molto fondamento.

Abbiamo individuato a questo proposito sei questioni che riguardano il continente africano e sulle quali le idee che circolano appaiono perlomeno confuse. E non dovrebbero essere peraltro le sole, anche se sono forse le più vistose.

 

Un continente senza storia?

Per la gran parte delle persone istruite la storia dell’Africa ha inizio al massimo con l’arrivo degli europei nel continente, prima con la tratta dei neri verso le Americhe, poi con la colonizzazione vera e propria. In realtà il continente ha una storia molto antica e molto ricca. È sostanzialmente dagli anni cinquanta del Novecento che gli storici africani e stranieri hanno cominciato a far conoscerla meglio (Piot, 2023, a).

Un’analoga errata convinzione si focalizza sulla pretesa assenza di una tradizione scritta nel continente. La scoperta recente da parte della stampa occidentale dell’esistenza di una grande raccolta di testi manoscritti a Timbuctu basterebbe da sola a testimoniare il contrario. Si pensa infine da più parti che l’Africa sia stata colonizzata da molto tempo. In realtà è solo a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo che i vari paesi del continente sono caduti dentro la dominazione europea. Quindi il controllo pieno da parte degli stranieri è durato meno di un secolo.

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lacausalitadelmoto

La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi

di Alessio Galluppi

palestine attackAttaccato da aria e da terra Israele si sveglia fragile e impaurito nelle prime ore del mattino del 7 ottobre 2023 e che vede ancora stamattina l’esercito Israeliano in un disperato tentativo di riconquistare il controllo di almeno ventidue villaggi e cittadine Israeliane prossime al confine con Gaza. Nonostante la reazione criminale di Israele che è e sarà sempre di più di estrema violenza, con un altissimo sacrificio di vite umane tra donne e bambini di Gaza, è chiaro che questa offensiva militare Palestinese era inevitabile, proprio per motivi di sopravvivenza dalla pulizia etnica e uccisione di bambini che l’IDF e le truppe di occupazione Israeliane portano avanti quotidianamente e con crescente violenza da tre anni in tutta la West Bank.

Uno stillicidio quotidiano operato con la collaborazione della direzione della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), dei paesi Arabi e dell’Arabia Saudita e legittimata dall’Occidente che non può rinunciare al proprio storico avamposto imperialista in Medio Oriente.

Quello che viene definito come “attacco terroristico di Hamas” è una azione di difesa di massa che parte dalla striscia di Gaza – ovvero una vera e propria prigione, un lager a cielo aperto circondato da alte mura fortificate e armate Israeliane – per far respirare gli sfruttati Palestinesi di West Bank. Non si trattacome si cerca di far credere – di una azione circoscrivibile a un pugno di miliziani di Hamas, ma si è trattato e si sta trattando di una vera incursione delle masse sfruttate di Gaza, che una volta che il colpo delle milizie ha conquistato militarmente e di sorpresa gli avamposti dell’esercito Israeliano lungo diversi punti del confine militarizzato di Gaza, ha sfondato le recinzioni in più punti e ha dato vita a una invasione verso i centri abitati Israeliani in una sorta di euforia liberatoria di un popolo sfruttato, oppresso e segregato da troppo tempo.

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ilpungolorosso

L’11 settembre di Israele

di Il Pungolo Rosso

palestinesi su carro israeliano 2.jpgChi pensava che le esercitazioni militari organizzate qualche settimana fa a Gaza dal comando unificato delle diverse fazioni palestinesi (attenzione: non dalla sola Hamas, come piace dire, mentendo, alla disinformazione di regime) fossero l’ennesima manifestazione di intenti, retorica quanto materialmente impotente, e pertanto incapace di imprimere una svolta nella lotta di liberazione, ha ricevuto una secca smentita.

Da ieri sappiamo che lo Stato israeliano, da sempre raccontatoci (e raccontatosi) come un Moloch invincibile, in virtù dei suoi insuperabili servizi segreti, dei suoi armamenti di ultima generazione e soprattutto delle sue forze speciali, tra le più letali al mondo, non è così invulnerabile come si credeva. Le tante spie presenti a Gaza, gli scudi missilistici e il pattugliamento permanente di terra, cielo e mare da parte di droni, veicoli a controllo remoto e fregate militari non sono bastati per impedire alle forze palestinesi di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista.

Nei tanti video amatoriali che circolavano in rete fin dalle prime ore della mattina si sono visti carri armati Merkava, spacciati come indistruttibili, messi fuori gioco da armamenti non certo sofisticati. Schemi di difesa missilistica completamente nel pallone (la richiesta di ordinativi e commesse militari non ne beneficerà granché!), generali che fino a ieri comandavano battaglioni d’assalto, portati via in mutande come ostaggi.

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sinistra

Frontiere e diritti

Tra etica, diritto internazionale e politica del potere

di Luca Benedini

Alla luce del recente riesplodere di situazioni cruente e altamente drammatiche nel Nagorno-Karabakh, così come dell’indefinita e tragica prosecuzione della guerra russo-ucraina, appare opportuno ripresentare qui gran parte di due articoli scritti lo scorso anno (rispettivamente nell’aprile e nel maggio) sul tema politico estremamente controverso rappresentato dal rapporto tra popoli e frontiere

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Un delicato nodo profondamente dialettico

Impegnarsi specificamente nella ricerca della pace nel momento presente, in una tremenda situazione come quella ucraina, non significa dimenticare le contraddizioni storiche che in quella parte del mondo possono aver stimolato delle tensioni culturali, etniche, ecc. dalle quali sono poi emerse le minacce per la pace sfociate infine nella guerra attuale.

Basti ricordare per esempio che nei trattati internazionali è ampiamente riconosciuto un generico (ma non per questo privo di significato) diritto dei popoli all’autodeterminazione: è addirittura l’argomento dell’art. 1 sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici che del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore entrambi nel 1976 e ratificati ormai da quasi tutte le nazioni del mondo (che in tal modo hanno fatto entrare nella loro legislazione quanto stabilito in tali Patti), dopo essere stati approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’Onu. Questo diritto consente di guardare, con uno sguardo particolarmente consapevole, a una serie di questioni inerenti proprio alle frontiere tra gli Stati.

Ci sono confini di Stato che sono stati tracciati d’autorità da qualcuno senza avere alcun riguardo per la situazione etnica e culturale dei popoli coinvolti. Il caso più drammatico è forse quello del territorio curdo, diviso tra quattro nazioni diverse (Turchia, Iraq, Iran e Siria) dopo la caduta dell’impero ottomano: una divisione – decisa in pratica dai governi britannico, francese e turco nel 1923 – che continua da un secolo a provocare tensioni e conflitti, senza che nessuna autorità politica o giurisprudenziale abbia mai riconosciuto ai curdi un qualsiasi diritto all’autodeterminazione.

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 lantidiplomatico

Presentata all’ONU la Mappa geopolitica delle “sanzioni”

di Geraldina Colotti

720x410c50iedh.jpgOttimamente rappresentata da una delegazione di alto livello, diretta dall’ambasciatore all’ONU, Samuel Moncada, dal ministro degli Esteri, Yvan Gil e dal viceministro per le Politiche anti-bloqueo, William Castillo, la Repubblica bolivariana del Venezuela ha illustrato all’Assemblea generale dell’Onu la Mappa geopolitica delle sanzioni. Un lavoro di ricerca formalizzato nell’ambito della Legge antibloqueo e che si va ampliando. Ora, il Venezuela ha deciso di mettere la Piattaforma a disposizione dell’ONU (che considera illegali le misure coercitive unilaterali), affinché ogni organismo, ogni paese, ogni giornalista, ogni politico o ogni ricercatore possa cogliere natura e portata di queste armi di nuovo tipo, utilizzate dall’imperialismo per imporre il proprio predominio alle nazioni considerate più deboli, abusando del controllo esercitato dagli Usa sul sistema economico-finanziario mondiale.

Il dibattito si è svolto come parte dell’agenda di eventi paralleli della 78ma Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si è conclusa a New York il 26 di settembre, e che ha discusso intorno al tema: “Ricostruire la fiducia e riattivare la solidarietà mondiale: Accelerare le azioni nel quadro dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibili fino al conseguimento della pace, della prosperità, del progresso e della sostenibilità per tutti”. In questo scenario, il Gruppo di Amici in Difesa della Carta dell’ONU, ha organizzato l’importante dibattito sulle “sanzioni”.

Il Gruppo si è formato a partire da un’iniziativa del Venezuela presso l’ONU, messa in moto nel 2020 insieme alle delegazioni di Bolivia, Cina, Cuba, Iran, Siria e Russia, alla quale si sono successivamente aggiunti altri Stati di diverse regioni del mondo.