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La sola cosa grande che può fare l’Amerika di Trump è seminare altro caos e guerra nel mondo intero

di Il Pungolo Rosso

Trump Musk“I Trump, i Musk e simili grandi-uomini-spazzatura possono soltanto dare un epilogo tragico alla vecchia storia di sfruttamento e predazione di cui non se ne può più”.

Ci torneremo su, quando sarà di nuovo alla Casa Bianca. Ma qualcosa va detta subito. Ed è che la possibilità che la banda-Trump/Musk possa fare l’Amerika “great again” è esclusa. La nuova “età dell’oro” che questi truffatori spaziali promettono al proprio “popolo” non ci sarà. Non è possibile che ci sia, semplicemente perché l’età dell’oro dell’imperialismo statunitense, che c’è stata effettivamente, è stata fondata sull’enorme sviluppo della grande industria, della tecnologia di avanguardia e dell’industrializzazione capitalistica dell’agricoltura. Su queste basi, e su due guerre mondiali vinte grazie alla propria superiorità industriale e tecnologica e alla propria auto-sufficienza alimentare, si fondano le ultime due armi esiziali rimaste nelle mani dei Trump e dei Biden: il signoraggio mondiale del dollaro e la macchina bellica tuttora più potente del mondo. Che, di necessità, essendosi di molto ridotta la solida base su cui poggiavano, hanno preso a traballare.

L’Amerika di oggi, avendo perso una bella quota della propria grande industria di un tempo per la spasmodica ricerca dei sovraprofitti dei propri trust che hanno – a partire dagli anni ‘60 – delocalizzato una enorme quota di produzione, è in cronico deficit commerciale con l’UE e con la Cina (e non solo). Parliamo di centinaia di miliardi di dollari l’anno di importazioni di ogni tipo di merci, a iniziare dalle macchine per la produzione industriale. Anche l’agricoltura statunitense ha iniziato da tempo a declinare, e del suo storico, indiscusso primato mondiale non ci sono più tracce. Ormai l’Amerika primeggia solo nella produzione di petrolio e di gas (quindi come stato che si nutre di rendita fondiaria) e nelle industrie della rete e della guerra, ma lo fa a fronte di concorrenti e avversari sempre più agguerriti, e in molti casi relativamente, o ampiamente, indipendenti dal suo potere.

La stessa industria bellica non è riuscita a fornire sufficienti mezzi all’Ucraina per evitare l’attuale debacle davanti alla nemica Russia. Per non parlare dei nuovi brevetti, campo in cui la Cina ha ormai superato i rivali d’oltre Oceano. Se siamo ancora in regime capitalistico, e sembra di sì, sono l’accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento diretto di grandi masse di lavoro salariato e il dinamismo tecnologico che decidono della potenza degli stati. E in questo campo l’Amerika è crescentemente in affanno a fronte dei nuovi centri dell’accumulazione di capitale, la Cina anzitutto – che, molti lo dimenticano, ha una massa di forza-lavoro pari a quasi 800 milioni di persone, a fronte dei 170 milioni circa degli Stati Uniti. E del tanto strombazzato “ritorno a casa” dell’industria statunitense s’è visto ben poco, nonostante gli enormi incentivi di molti singoli stati, perché la legge dei costi di produzione non è opzionale.

Ci viene obiettato: sarà anche vero che il PIL statunitense era al 1945 circa il 50% di quello mondiale mentre ora, ottanta anni dopo, si è ridotto al 16%, ma dove li mettete gli investimenti esteri e il signoraggio del dollaro? Il punto è che, come ha brillantemente dimostrato da ultimo E. Todd, il PIL statunitense del 1945 era gonfio di profitti veri prodotti in territorio statunitense, di produzione di ricchezza reale, mentre quello attuale contiene parecchia fuffa fatta di prebende d’ogni livello (talvolta stratosferico) per “medici (talvolta assassini, come abbiamo visto nel caso degli oppioidi) e avvocati strapagati, broker spregiudicati, secondini, agenti dei servizi segreti” e per lo sterminato stuolo di economisti “sacerdoti della menzogna”, sicché se si volesse stimare il prodotto interno reale statunitense di oggi, anziché quello definito in modo canonico “lordo”, si dovrebbe decurtarlo probabilmente di un 40% circa. Del resto, lo notava sul Financial Times del 4 novembre Ruchir Sharma (“chair of Rockfeller International”, non esattamente uno di noi), lo sviluppo del PIL statunitense è sempre più dipendente, “pesantemente dipendente dall’indebitamento e dalla spesa del governo”. L’Amerika effettivamente “grande”, l’indiscussa potenza imperialista regina che fu, prestava denaro al mondo intero. L’Amerika di oggi che sogna di ridiventare “grande”, sapendo di non esserlo più, riesce a non affondare nella stagnazione solo prendendo a prestito da tutto il mondo e facendo crescere il proprio indebitamento interno dai grandi capitalisti-finanzieri interni: il suo debito totale, oggi, è pari a 36 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, ed è cresciuto negli ultimi dieci anni di 17 trilioni, di quanto cioè era cresciuto nei precedenti 240 anni – così avete un’idea della velocità di sprofondamento nell’indebitamento del fu-prestatore di ultima istanza (oggi predatore di prima istanza, e non è esattamente la stessa cosa in termini di potenza effettiva, o no?).

Lo stesso signoraggio del dollaro è crescentemente contestato. L’ascesa, pur contraddittoria, dell’area-Brics e la rapida moltiplicazione delle transazioni commerciali inter-statali in moneta delle singole nazioni (l’interscambio Russia-Cina, tanto per dire, è ormai largamente in rubli e yuan) è la più aperta delle contestazioni di questo primato. Ma non è la sola, se si tiene conto che anche piccoli stati dell’Africa occidentale intendono smarcarsi dallo strapotere finanziario e militare occidentale, di cui beneficiano sempre, in ultima analisi, gli Stati Uniti. Lo stesso dicasi per i sovraprofitti, i cui livelli inesorabilmente vanno scendendo non solo perché quote di mercato mondiale crescenti sono occupate da capitali senza partecipazione prevalente yankee, ma anche – e molto – per l’ascesa delle condizioni medie della classe operaia nei paesi in cui l’industrializzazione è decollata nel secondo dopoguerra. Prendiamo ancora il caso della Cina: se 30 anni fa il salario operaio medio cinese era un decimo, se non meno, del salario medio operaio italiano, mentre ora – per effetto di una formidabile crescita industriale e per la pressione delle lotte – è cresciuto fino a essere intorno alla metà (e anche di più), è evidente la sua ricaduta sul prelievo imperialista.

Per non dire dello stesso strapotere militare. Verissimo: 800 basi militari nel mondo, truppe, portaerei, B 52 ovunque, il 38% della spesa bellica mondiale, ma il suo prode, invincibile esercito è stato appena battuto in Afghanistan, e la sua formidabile macchina di produzione bellica non sta riuscendo a evitare una nuova cocente sconfitta in Ucraina, nonostante abbia gettato nella fornace almeno un milione di sventurati ucraini (e decine di migliaia di altre nazionalità).

No, “promesse fatte, promesse mantenute”, l’abile formula escogitata dagli spacciatori di slogan trumpiani, si rivelerà quanto mai menzognera. La sola e unica cosa che l’Amerika di Trump potrà fare, e di sicuro farà, è seminare nuovo caos e guerra in tutto il mondo. Caos economico e sociale anche nei paesi alleati, dal momento che i dazi andranno a colpire, oltre la Cina, anche i paesi europei – con l’effetto di ritorno, però, sui livelli dei prezzi statunitensi. Caos economico e sociale, e feroci politiche anti-operaie e anti-popolari, nei paesi del Sud America, dove non a caso i Milei e i Bolsonaro giubilano per la vittoria del loro idolo, ansiosi di ripeterne le politiche di arricchimento esponenziale dei ricchi. E, senza dubbio alcuno, seminerà nuove guerre. Anzitutto la guerra agli emigranti e agli immigrati che tanti, anche nei movimenti di lotta, sottovalutano, ed è invece un’arma esiziale nelle mani dei capitalisti per spaccare il nostro campo e paralizzare le nostre forze, per cercare di schierare proletari/e contro proletari/e in una lotta fratricida. E – insieme – anche la guerra alla Cina, i cui preparativi già sono in corso (ne parlava di recente, apertamente, il New York Times) e con la banda di Trump si accelereranno.

Il “grande uomo” miracolato da Dio in persona fermerà le guerre in corso? Ma dai!

Sul quotidiano israeliano Maariv si legge: Trump ha detto a Netanyahu di fare “ciò che è necessario” a Gaza e in Libano, e “tutto ciò che vuole” con l’Iran, mentre Canale 13 prevede: “Dopo la vittoria di Trump, tra due mesi sarà più facile condurre la guerra”. Del resto, non era stato Trump a portare l’ambasciata Usa a Gerusalemme e ad architettare gli “accordi di Abramo” per cancellare definitivamente la questione palestinese? Forse, forse, forse, potrà arrivare ad un armistizio in Ucraina. Ma – se ci arrivasse – sarebbe il riconoscimento dell’impotenza yankee davanti alla Russia, una concessione al nemico n. 2 per tentare di strapparlo all’alleanza con il nemico n. 1, la Cina, che ne risulterebbe ulteriormente rafforzata. Senonché, per effettuare questo sganciamento, è tardi, troppo tardi. Ormai les jeux sont faits. Pur essendo dei parassiti, gli agenti di borsa di mezzo mondo che all’elezione di Trump hanno fatto schizzare in alto i titoli dei produttori di armi, non sono certo gli ultimi fessi.

L’Amerika può tentare, senza riuscirci, di ridiventare “grande” solo ed esclusivamente attraverso la guerra commerciale e militare a tutto il resto del mondo, di cui è debitrice e sulle cui spalle vive. E cioè contro le classi sfruttate e oppresse di tutto il resto del mondo, perché solo a questa condizione può evitare l’esplosione dello scontro di classe, di razza e di genere al suo interno, di cui ci sono stati nell’ultimo decennio molteplici segnali, per ora riassorbiti grazie anche all’efficace azione di recupero dell’ala sinistra del partito democratico (i DSA, così ben caratterizzati nel loro ruolo nefasto da Guillermo Kane nel suo La crisi del imperio norteamericano). Ma dubitiamo che si preparino tempi felici anche per i proletari statunitensi, se è vero che il “genio” Musk è alla testa di una schiera di miliardari della Silicon Valley che pretendono di radere al suolo il sindacato e ogni altra forma di organizzazione del conflitto sociale, inclusa, se non tra le prime, la lotta contro le catastrofi ambientali.

A proposito… Nell’assordante cagnara intorno allo scontro Harris-Trump e al nuovo trionfo elettorale di Trump sono andati persi alcuni dati essenziali: Trump ha vinto con più di un milione di voti in meno del 2020. Oltre un 40% degli aventi diritto al voto, in stragrande maggioranza appartenenti agli strati sociali più schiacciati e impoveriti (l’“altra Amerika” rispetto a quella dei Trump-Harris), anche questa volta non si è recata alle urne, restando estranea alla “grande battaglia” elettorale-mediatica che, alla fin fine, riflette solo la guerra senza esclusione di colpi all’interno della classe dirigente degli Stati Uniti d’America. Se Trump ha guadagnato terreno tra gli asiatici, gli ispanici e i giovani tra i 18 e i 29 anni, li ha guadagnati, in complesso, rispetto alla Harris, che ha avuto 13 milioni di voti in meno di Biden (68 anziché 81). A rigore, quindi, è più una secca sconfitta dei democratici che una vittoria “a valanga” di Trump. Se Trump ha guadagnato voti qua e là “in assoluto”, è perché i due terzi degli elettori intervistati hanno dichiarato di ritenere “cattive” le condizioni economiche degli Stati Uniti, e una metà circa di essi ha dichiarato di essere in condizioni materiali peggiori di 4 anni fa. Ha vinto, cioè, perché ha saputo cavalcare demagogicamente il malcontento sociale di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici contro le amministrazioni democratiche, promettendo loro non aumenti salariali, bensì sgravi fiscali generalizzati (“niente tasse sulle mance ai camerieri!”), utili a coprire gli ulteriori tagli fiscali a favore delle imprese e del grande capitale, sgravi che faranno crescere l’indebitamento statale. Ha vinto dichiarando la guerra a tutto campo ai “nemici esterni”, gli immigrati “clandestini” e i produttori stranieri delle merci d’importazione, per stornare l’attenzione dal nemico interno dei proletari statunitensi, i cui interessi così efficacemente Trump rappresenta e difende.

No, la nuova ascesa di Trump alla Casa Bianca non inverte la tendenza alla guerra tra blocchi capitalistici contrapposti come ultimo, cieco e apocalittico sbocco di una crisi storica del modo di produzione capitalistico. Prosegue, prendendo magari nuove vie di attuazione. La guerra per il dominio sul mondo, più che mai, viene da Ovest, dall’epicentro statunitense. Ma lo stop alla guerra non viene certo da Est, dall’asse Russia-Cina-Iran. Al contrario: è proprio l’ascesa delle nuove potenze capitalistiche che si stanno sottraendo, o si sono da lungo tempo sottratte, al giogo occidentale, che affretta i tempi della guerra inter-capitalistica. Il capitalismo non è mai stato multipolare, e mai lo diventerà. Ha bisogno di un alveo, di un potere dominante per le necessità intrinseche del suo processo di centralizzazione anarchico. Il vecchio potere dominante in crisi non intende assolutamente abdicare. Anzi da almeno due decenni con i Bush, gli Obama, i Biden e i Trump sta cercando – invano – di riprendere il posto di comando assoluto sul mondo sempre più messo in discussione. Non può farlo che distruggendo e, per certi versi, autodistruggendosi nel tentativo di distruggere i propri nemici (negli USA i fenomeni sociali di autodistruzione e decomposizione sociale non mancano di certo: dagli oppioidi, ai suicidi, al dilagare dell’alcolismo e delle stragi).

Se la guerra viene da ovest, nessuna salvezza per l’umanità lavoratrice e madre natura verrà da Est, dove dominano gli stessi meccanismi sociali e gli stessi ideali che dominano in Amerika. Chi lo spera, verrà disilluso in modo brutale. Di nuovo, come e più di un secolo fa, la vera alternativa storica non è tra Ovest ed Est, o tra Nord e Sud, e men che meno tra democrazie e autocrazie: è tra la barbarie capitalistica estrema, un’Ucraina e una Gaza di oggi mondializzate, e la rivoluzione sociale anti-capitalista. Bisogna abbandonare ogni altra illusione intermedia, di riforma egualitaria e pacifica dell’ordine capitalistico, e dedicarsi in modo totale a questo obiettivo, per lontana che possa apparire la meta, affermando con Rosa Luxemburg: “La rivoluzione per me è tutto, il resto non conta”. La storia nuova di cui l’umanità e la natura insieme hanno un urgente bisogno, può essere scritta solo da una gigantesca sollevazione rivoluzionaria delle masse lavoratrici contro la classe che oggi le torchia, le umilia e le inganna. I Trump, i Musk e simili grandi-uomini-spazzatura possono soltanto dare un epilogo tragico alla vecchia storia di sfruttamento e predazione di cui non se ne può più.

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