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La gaza-izzazione dell’Occidente
di Christian Salmon
Mentre la narrativa occidentale presenta la politica genocida di Israele come semplici “operazioni militari”, a Gaza si sta in realtà sperimentando una tecnologia di dominio letale. L’Europa, più che spettatrice, è complice attiva di questa necropolitica; il suo silenzio rivela la vicinanza del suo immaginario a quello di uno Stato di Israele che non condanna, poiché entrambi condividono la stessa ossessione per il terrorismo islamista e il controllo biopolitico delle popolazioni immigrate.
Nel teatro mediatico contemporaneo, Gaza si è trasformata in un laboratorio di storytelling geopolitico. Ogni immagine, ogni testimonianza, ogni cifra diventa un elemento narrativo in una battaglia di racconti che va ben oltre i confini geografici del conflitto. Ci sono i morti di Gaza e c’è la loro scomparsa programmata nei racconti dei media occidentali. Tra i due, una macchina narrativa di formidabile efficacia trasforma un genocidio in un «conflitto complesso», i carnefici in vittime e i testimoni in «antisemiti». Come può una potenza militare genocida e i suoi alleati massacrare un popolo e vincere contemporaneamente la battaglia delle narrazioni?
Nei think tank di Washington e nelle agenzie di Hasbara, un esercito di narratori lavora giorno e notte per capovolgere la realtà. Ogni scuola bombardata diventa un «covo di terroristi», ogni ospedale distrutto nascondeva «tunnel di Hamas», ogni giornalista ucciso era un «combattente travestito». Gaza non è più solo un territorio di 365 chilometri quadrati dove sono ammassati due milioni di esseri umani. Gaza è diventata una storia, o meglio un campo di battaglia di storie… Nei corridoi ovattati dei ministeri e delle agenzie di comunicazione non si parla più di «guerra» ma di «operazione», non più di «bombardamenti» ma di «attacchi chirurgici», non più di «civili morti» ma di «danni collaterali». Il vocabolario militare si è trasformato in un linguaggio marketing, modellato dagli “spin doctor” che trasformano la realtà in una storia formattata per l’opinione pubblica occidentale.
Se c’è una cosa che viene occultata dalla ricorrente esposizione mediatica delle “narrazioni” israeliana e palestinese (autodifesa e resistenza) e dalla falsa simmetria delle forze in campo, è proprio la natura di questa guerra che, nella sua estrema razionalità, sconvolge tutto ciò che pensavamo di sapere sulla guerra totale, la guerra civile o la guerra coloniale.
È una guerra multidimensionale, combattuta in aria, sulla terra e persino nei sotterranei della Striscia di Gaza.
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Violati i segreti nucleari di Israele, inventati quelli iraniani
Il non detto dell'attacco israeliano all'Iran
di Fulvio Grimaldi
Attacco all’Iran. Just in time
Mentre scriviamo queste righe, ci troviamo in piena bagarre. Azioni, reazioni, risposte e controrisposte tra Israele e Iran, chiaramente sempre con Israele che, come da consuetudine, ha incominciato, hanno ormai assunto una loro cadenza quasi autonoma, sul cui andamento a fare previsioni si può essere certi solo di sbagliare.
Altra certezza è che per il futuro prevedibile ciò che ci capiterà sarà una caterva di bugie israeliane, con analoga improntitudine ripetute e rafforzate dallo schieramento dei gazzettieri ontologicamente embedded. I nostri. E una lunga consuetudine di manipolazioni, spesso solo molto più tardi rivelatesi tali, ci conforta sul fatto che tra versioni ucraino-occidentali e versioni russe, come tra le israelo-atlantiche e quelle dei nemici designati, hanno sistematicamente più rilevanti addentellati con la realtà i secondi.
Nel caso specifico a questo dato dà irreversibile consistenza il fatto che chi ha iniziato è colui che attribuisce alla controparte una colpa indimostrata per esso, ma assolutamente consolidata per se stesso: la disponibilità di armi atomiche e la facoltà di usarle. Facoltà agevolata dall’ulteriore dato che l’aggressore iniziale non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, la vittima iniziale, sì. E che l’aggressore iniziale non consente ispezioni dell’agenzia ONU a ciò deputata, mentre la vittima iniziale, sì. Da decenni. Con risultati che fin qui lo hanno confermato innocente di qualsiasi violazione di quanto sottoscritto. Violazione pur accanitamente sostenuta dall’aggressore bomba-dotato.
In particolare risulta smentita da documenti, immagini e da testimonianze spesso dal sen sfuggite, la pervicace minimizzazione che l’ufficialità israeliana compie rispetto a vittime e danni subiti, sia nel corso degli attuali bombardamenti iraniani, sia nei quasi venti mesi di confronto con i combattenti di Hamas. Il ministero della Difesa, cuore e mente dell’apparato militare israeliano a Tel Aviv, centrato in pieno, risulta solo “lievemente danneggiato da esplosioni nelle vicinanze”.
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Appunti sul 13 giugno. Israele e Iran
di Alessandro Visalli
Nella tragica vicenda in corso, tra il 13 e il 15 giugno di questo 2025. Il 13 Israele ha attaccato unilateralmente, l’operazione “Rising Lion”, attaccando brutalmente l'Iran mentre si stava negoziando sul programma nucleare, e questi ha risposto poco dopo con l’operazione “True Promise III” che al momento si è materializzata in attacchi ibridi da più direzioni con centinaia di missili balistici di varia natura e modernità e droni. Questi hanno perforato a decine la difesa a quattro strati israeliana, probabilmente supportata anche da aerei e mezzi navali Nato, colpendo bersagli civili (fabbriche, aeroporti, porti, raffinerie) e militari (centri di comando e controllo).
L’attacco israeliano, che si pone nella posizione oggettiva dell’aggressore, è stato condotto con aerei (circa 200, la metà di quelli teoricamente disponibili) F-35, F-16 e F-15, dei quali almeno 3 abbattuti (pare F-35), e droni con partenza da prossimità (occultati come da esempio ucraino di poche settimane prima) e sabotatori. I bersagli sono stati, da parte israeliana, i siti nucleari e di ricerca iraniani (a Natanz, Fordow, Esfahan e Arak), gli aeroporti militari, i radar e silo di missili, l’importantissimo South Park gas Field, alcuni edifici residenziali ad alta densità a Teheran (es. il Nobonyad Square), alcuni stabilimenti industriali, poi Israele ha ucciso con attacchi mirati nelle proprie case, alcuni comandanti del IRGC come Hossein Salami, Mohammad Bagheri, Gholam Ali Rashid, Amir Ali Hajizadeh, Ali Shamkhani, e scienziati nucleari come Fereydoon Abbasi e Mohammad Mehdi Tehranchi.
Il contrattacco iraniano, sempre alla data di oggi, ha colpito Tel Aviv, Bat Yam, Rehovot, Gerusalemme e Tamra nella prima ondata, e Haifa, Rishot LeZion, Kiryat Ekron e di nuovo Tel Aviv e altre nella seconda. Gli attacchi si sono concentrati su basi militari e aeroporti, ma anche sulle infrastrutture energetiche, colpendo la raffineria Bazan di Haifa nella quale le attività sono parzialmente sospese e ci sono danni agli oleodotti, e sulle strutture portuali.
Ritengo i fatti solo occasionalmente connessi con il 'casus belli' del programma nucleare (civile) iraniano, ma da inquadrare in primo luogo nella Grande Strategia Israeliana di liberarsi degli avversari sciiti e di coloro che potrebbero ostacolare il piano, vitale per le prospettive di lungo termine, del “Patto di Abramo” [1] un asse infrastrutturale ed energetico che parte dall'India per sboccare ai porti israeliani, passando per l'Arabia Saudita[2].
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Il volto nudo dell’occupazione
di Michele Agagliate
Il colonialismo sionista, l’ipocrisia occidentale e la verità negata: perché la Palestina oggi non ha futuro — e perché abbiamo il dovere morale di dirlo.
Non è (solo) Netanyahu. È Israele. È il suo sistema. È la sua ideologia fondativa. È l’impalcatura culturale, religiosa e militare che regge da decenni uno Stato costruito sulla rimozione sistematica del popolo palestinese e sulla trasformazione della propria identità da rifugio per un popolo perseguitato a potenza teocratica, fanatica e colonialista.
La narrazione dominante in Europa – e, in modo ancora più accentuato, negli Stati Uniti – racconta una favola rassicurante: che esisterebbe un “buon Israele” laico, democratico, pluralista, insidiato solo recentemente da un estremismo politico incarnato da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati ultranazionalisti e ortodossi. Ma questa narrazione è falsa. O meglio: è consolatoria, perché serve a scindere ciò che invece è organicamente unito.
La verità è che Netanyahu non è un incidente. Non è un’eccezione. Non è neppure una degenerazione. È l’espressione più efficace – e oggi più trasparente – del sionismo contemporaneo. E il sionismo, nel 2025, non è più una dottrina di autodifesa ebraica. È diventato, nella sua forma concreta e statuale, una dottrina suprematista, segregazionista, esclusivista. È l’unica ideologia politico-religiosa del mondo occidentale a essere ancora al potere in uno Stato armato fino ai denti, che gode dell’impunità diplomatica delle democrazie occidentali e del sostegno economico-militare di Washington.
Il problema non è la destra. Il problema è la maggioranza. Perché anche oggi, mentre i carri armati devastano Gaza e gli F-16 colpiscono il nord dell’Iran, meno del 20% degli israeliani dichiara di opporsi in modo netto alla politica estera e militare del proprio governo. Un dato in calo, secondo le rilevazioni del Israel Democracy Institute. La maggioranza della popolazione sostiene le operazioni militari, la retorica dell’annientamento del nemico, la giustificazione preventiva dell’uso della forza come unica grammatica geopolitica.
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Dall’Eritrea al Senegal al Burkina Faso di Traorè, il riscatto del Sahel. L'Africa prende il largo
di Fulvio Grimaldi
Felice il continente riscattato da eroi che non muoiono mai, e a volte si reincarnano: Lumumba, Nyerere, Kenyatta, Samora Machel, Agostino Neto, Nkrumah, Senghor, Mandela, Sankara, con i loro popoli in lotta e, su tutti, anche per longevità rivoluzionaria, Muammar Gheddafi. Quali assassinati dal revanscismo colonialista, quali incarcerati quasi a vita, quali rovesciati da golpe diretti da fuori, quali sopravvissuti a incessanti assedi e sabotaggi.
ggi si chiamano Abdurahamane Tani (Niger), Assimi Goita Mali, Isaias Afeworki (Eritrea), Faye e Sonko (neoletti presidente e Primo Ministro del Senegal che hanno messo in discussione la manomorta di Parigi sul paese) e, su tutti per radicalità rivoluzionaria, Ibrahim Traoré in Burkina Faso. Forse la Storia ne narrerà come dei capitani che hanno fatto prendere il largo al continente, sottraendolo alla pirateria del colonialismo di ritorno.
Un vento nuovo percorre il continente dopo l’abbattimento di Muammar Gheddafi e la frantumazione della Libia, oggi divisa tra il parlamento e governo esiliatosi a Bengasi, prodotti dall’ultima elezione tenuta nel paese, e le bande golpiste islamiste di Tripoli, impegnate nel traffico di migranti e protette dall’esercito turco. Un regime, quello del premier Abdulhamid Dbeida, caro a Meloni e soci, fondato sul gangsterismo, arroccato a Tripoli e in poco più della Tripolitania, incredibilmente legittimato dall’ONU a dispetto di Bengasi, che invece controlla il resto del paese e la maggioranza delle sue risorse (il resto viene contrabbandato dalle bande di Tripoli con piena soddisfazione di alcuni paesi europei, in primis il nostro.
Della generazione dei grandi leader e ideologi della liberazione e dell’indipendenza, resta il presidente eritreo Isaias Afeworki. Dall’alba del decennio in corso, una parte cospicua del continente ha vissuto una scossa rivoluzionaria. Scossa che promette di contagiare il resto del continente, finora in buona parte assopito in una finta sovranità ed effettiva governance neocolonialista. Quest’ultima garantita dalla capillare e massiccia presenza militare di AFRICOM, comando delle Forze USA in Africa e delle sue basi.
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“Renderla inutilizzabile”: la missione di Israele per la distruzione totale di Gaza
di Meron Rapoport - Orev Ziv
All’inizio di aprile, poche settimane dopo aver ripreso l’assalto a Gaza, le forze israeliane hanno annunciato di aver preso il controllo della città più a sud, Rafah, per creare l’«Asse di Morag», un nuovo corridoio militare che divide ulteriormente la Striscia. Nel corso della guerra, secondo l’Ufficio governativo dei media di Gaza, l’esercito ha distrutto più di 50mila unità abitative a Rafah – il 90% dei quartieri residenziali.
Ora l’esercito ha proceduto a spianare le strutture rimanenti di Rafah, trasformando l’intera città in una zona cuscinetto e tagliando l’unico passaggio di frontiera di Gaza con l’Egitto. Y., un soldato tornato di recente dal servizio di riserva a Rafah, ha descritto i metodi di demolizione dell’esercito a +972 Magazine e Local Call.
«Ho messo in sicurezza quattro o cinque bulldozer (di un’altra unità) e hanno demolito 60 case al giorno. Una casa di uno o due piani viene abbattuta nel giro di un’ora; per una casa di tre o quattro piani ci vuole un po’ più di tempo», dice. «La missione ufficiale era aprire una via logistica per le manovre, ma in pratica i bulldozer distruggevano semplicemente le case. La parte sud-orientale di Rafah è completamente distrutta. L’orizzonte è piatto. Non c’è nessuna città».
La testimonianza di Y. è coerente con quella di altri 10 soldati che hanno prestato servizio in tempi diversi nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale dal 7 ottobre e che hanno parlato con +972 Magazine e Local Call. Si allinea anche con i video pubblicati da altri soldati, con le dichiarazioni ufficiali e ufficiose di alti ufficiali attuali e precedenti, con le immagini satellitari e i rapporti delle organizzazioni internazionali. L’insieme di queste fonti dipinge un quadro chiaro: la distruzione sistematica di edifici residenziali e strutture pubbliche è diventata una parte centrale delle operazioni dell’esercito israeliano e, in molti casi, l’obiettivo primario.
Alcune di queste devastazioni sono il risultato dei bombardamenti aerei, dei combattimenti a terra e degli ordigni esplosivi improvvisati piazzati dai militanti palestinesi all’interno degli edifici di Gaza.
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L’Occidente, lo Stato d’Israele e la questione palestinese oggi
di Algamica*
Si dice che la storia non si fa con i «se», neanche quando a parlare è un editorialista come Ernesto Galli della Loggia dalle pagine del Corriere della sera, noto quotidiano dell’establishment italiano? Anzi a maggior ragione dovremmo dire, ma c’è sempre l’”eccezione” che formula la regola, essa sarebbe data dalla potenza di chi promuove quel famoso « se ». Perché il noto personaggio, grande propagandista delle ragioni occidentali, che per oltre un anno di fronte al genocidio a Gaza lo ha sempre difeso e giustificato definendolo come il necessario bombardamento che rase al suolo Dresda nel 1945 in quanto «male assoluto». Insomma Gaza come Dresda. E pazienza se anche il comunismo si intruppò rispetto a quella “ragione” della democrazia liberale.
Poi però la storia, unico, vero e implacabile giudice, a distanza di 80 anni ha messo a nudo una verità continuamente rimossa: il vero morbo che affligge l’umanità degli oppressi si nasconde dentro le pieghe di leggi impersonali del modo di produzione capitalistico.
Qual è il punto che intendiamo evidenziare con queste scarne note? Il fatto che lo Stato sionista di Israele si è infilato in un vicolo cieco e non sa come uscirne. Procediamo con ordine commentando lo scritto di chi ha difeso strenuamente le sue ragioni quell’Ernesto Galli della Loggia di cui spesso ci occupiamo in quanto sintetizza sempre chiaramente le ragioni del liberismo fino alle estreme conseguenze, come detto in apertura.
Scrive il nostro sul Corriere della sera di lunedì 26 maggio: «Un dato abbastanza sicuro va profilandosi: l’operazione militare organizzata da un anno e mezzo da Israele sta andando incontro a un fallimento. Israele non è sconfitto ma sta egualmente perdendo».
Per i tanti che siamo scesi in piazza, per difendere le ragioni dei palestinesi, contro il genocidio perpetrato dalla potenza criminale israeliana, una simile dichiarazione non può rappresentare che una magra consolazione di fronte alle immagini di Gaza rasa al suolo e dei corpi dilaniati dei palestinesi.
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Saif Gheddafi e i paradossi mortali per l‘intelligencija pro-pal
di Michelangelo Severgnini
Lontani sono i tempi in cui le manifestazioni in piazza nei Paesi arabi producevano in Occidente titoloni sui giornali, cortei per le strade, comunicati al vetriolo delle nostre cancellerie e minacce militari contro i dittatori.
Lo scorso venerdì a Tripoli e nelle maggiori città della Tripolitania sono andate in scena manifestazioni oceaniche ignorate di sana pianta dall’intero emisfero occidentale, a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, gettando un’ombra pessima sullo stato di salute dell’informazione e del dibattito politico in Occidente.
Qualcuno si era limitato a commentare, ormai una settimana fa, quando erano le milizie a sparare: “La Libia nel caos”.
No, un momento. Anche questa volta ci sono mandanti, responsabili, attori sul campo e dietro le quinte, cause e conseguenze. Ad approfondire, scostando il velo della censura, la storia appare in tutta la sua semplicità: da una parte il popolo libico che dal dicembre 2021 (data della cancellazione delle elezioni) chiede di poter eleggere Saif Gheddafi presidente, mettendo fine allo strapotere delle milizie, dall’altra le milizie con il supporto e il silenzio-assenso del mondo intero.
Ma perché dunque la Libia questa volta non tira?
Perché nel 2011 vi abbiamo esportato la democrazia a suon di bombe e ora da anni gliela stiamo negando, impedendo quelle elezioni che eleggerebbero Saif Gheddafi? Sì, certo.
Perché lo smantellamento delle milizie libiche metterebbe fine a 14 anni di occupazione militare della Libia venduta come “caos”? Sì, certo.
Perché un potere legittimo a Tripoli rivelerebbe finalmente i contorni dello scandalo internazionale del saccheggio del petrolio libico attraverso milizie loro e mafie di casa nostra, coperto da tutti i governi italiani dal 2012 a oggi e benedetto da Napolitano prima e da Mattarella poi? Sì, certo.
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Eurocentrismo de sinistra. Gaza (Non Solo): Quelli del si, ma
di Fulvio Grimaldi
Alla nutrita Assemblea Nazionale convocata sabato scorso al cinema Aquila di Roma dalla Rete dei Comunisti, si è discusso di Medioriente.
Incidentalmente e fuori dal contesto di questo articolo, mi permetto una considerazione. Nel dibattito ha avuto un ruolo anche l’evento nazionale contro guerra e Nato e per la Palestina previsto per il 21 giugno, con il nodo della presenza, nell’occasione, di due manifestazioni su piattaforme in parte divergenti. Si vedrà se si addiverrà a un’intesa. Alla discussione aggiungerei il dato che risultano riuscite e imponenti, per positiva risonanza pubblica, le manifestazioni romane per la Palestina che hanno visto in un unico corteo due componenti fortemente divise tra loro. Soluzione che potrebbe proporsi anche per il 21 giugno.
Nel corso delle quattro ore di assemblea e di una trentina di interventi, si è incessantemente parlato, in toni vuoi indignati, vuoi accorati e dolenti, fin nei più raccapriccianti dettagli, della tragedia di Gaza. Giustamente qualcuno ha rilevato l’esitazione, se non l’assoluto rifiuto, nella sfera politico-mediatica, a pronunciare la parola genocidio. A fronte della fondata osservazione, va tuttavia rilevato che un’analoga esitazione, se non un rifiuto, si sono verificati rispetto al termine “Resistenza”, praticamente scomparso. Siamo stati solo in due, un palestinese e io, a utilizzarlo. Di Hamas, poi, neanche a parlarne.
Si sarà trattato di accidente casuale, non causale per carità, ma tant’è. E fa riflettere. Su un fenomeno che è di vasta scala e di vasta portata.
Dico subito che, per alcuni, dietro al ritegno di evidenziare il ruolo di Hamas, che pure è la rappresentanza politica e militare della maggioranza dei palestinesi dalle elezioni del 2014, confermata dai sondaggi attuali, c’è l’idea che senza Hamas Gaza avrebbe la pace. Idea alimentata dalla propaganda sionista che proclama la sua guerra essere solo mirata all’eliminazione di Hamas.
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Ursula e Al Jolani: destini paralleli. Terrorismo: Il Re è nudo, ma regna
di Fulvio Grimaldi
Torno su due eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici, quasi sempre sconvolgenti, rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di questa fase sullo spicchio di pianeta nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente passato, e che minacciano di incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e verità.
Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.
La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.
Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità.
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I dazi nella temporalità del modo di produzione capitalistico
di Algamica*
Se esaminiamo attraverso una analisi storica il fatto che l’amministrazione americana è costretta a fare e disfare al riguardo dei dazi commerciali, possiamo ricavare alcuni elementi inconfutabili sullo stato avanzato di decomposizione del modo di produzione capitalistico.
Quando le nazioni e certi mercati nazionali erano in crescita e conseguentemente cresceva la popolazione nazionale, i dazi potevano impulsare la produzione nazionale di merci favorendo il consumo delle merci prodotte localmente. Si combinava lo sviluppo sulla base di fattori economici essenziali, quali la crescita della popolazione e il volume della domanda. Così fu nella seconda metà dell’800 e oltre per le nazioni dell’Europa, Stati Uniti e Giappone.
Quando il moto unitario dell’ accumulazione giunse a una certa maturazione, il moto stesso dovette infrangere i dazi che rappresentavano un ostacolo alla accumulazione generale. Il principale elemento di strozzatura era costituito dall’insieme delle tariffe imposte dalla forma del mercato mondiale segmentato secondo i confini coloniali. Ci vollero due guerre mondiali per completare questo processo già determinato.
Oggi, dove il consumo di merce è finanziato attraverso l’indebitamento delle famiglie e delle aziende, i dazi non sono in grado di combinare l’incombinabile. Ovvero di limitare se non tagliare il consumo e l’import di merci estere per continuare a sviluppare la produzione manifatturiera nazionale. Una produzione nazionale rispetto alla quale non corrisponde più uno sviluppo della popolazione e di un volume della domanda virtuoso. Così come l’input delle singole economie nazionali è costituito da una complessa catena del valore interconnessa. Inoltre sviluppare l’economia di un dato paese richiede la sovrapproduzione di merce, perché non vi è accumulazione senza sovrapproduzione.
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Trump, la svolta protezionista del capitale statunitense e la leggenda dell’Italia “colonia”
di Domenico Cortese
Donald Trump la sera del 2 aprile ha annunciato una serie di nuovi dazi, di diverso tipo, da applicare sulle merci estere: essi, secondo il Presidente americano, sono «più o meno della metà» rispetto a quelli «che gli altri Paesi applicano agli Stati Uniti». Per i prodotti importati dall’UE si arriva al 20%, dalla Cina al 34%. I dazi più alti al Vietnam (46%), mentre tra gli altri Paesi più colpiti Thailandia (36%), Taiwan (32%), Indonesia (32%), Svizzera (31%) e India (26%). I dazi si aggiungerebbero a quelli già previsti per specifiche merci e prodotti come automobili, acciaio e alluminio. Trump ha paragonato l’ordine esecutivo con cui sono stati istituiti i nuovi dazi a una «vera e propria dichiarazione d’indipendenza» che porterà a un «ritorno all’età dell’oro». Qualche giorno dopo, come conseguenza della richiesta della maggior parte dei Paesi colpiti dalle misure, Trump ha sospeso per 90 giorni i dazi definiti “reciproci” – ma non nei confronti della Repubblica Popolare Cinese – in attesa di affrontare dei negoziati che dovrebbero, secondo il parere della Casa Bianca, trovare una soluzione all’abissale deficit commerciale degli Stati Uniti. Parlando con i giornalisti a bordo dell’Air Force One, prima di atterrare a Roma per il funerale di papa Bergoglio, il presidente degli Stati Uniti ha spiegato che probabilmente la sospensione dei dazi non vedrà una ulteriore proroga.
Il presidente americano ha di recente tuonato, in particolare, proprio contro l’Europa che, come dice il nuovo inquilino della Casa Bianca, «riscuote un dazio del 10% sulle importazioni di veicoli, quattro volte superiore al dazio del 2,5% applicato dagli Stati Uniti alle autovetture»; in generale «se si guarda ai singoli Paesi e si osserva quanto ci fanno pagare, in quasi tutti i casi ci fanno pagare molto di più di quanto noi facciamo pagare loro – ha detto – e quei giorni sono finiti».
Siamo all’inizio, sembrerebbe, di una fase del capitalismo imperialista globale che vedrebbe una forte accelerazione della restrizione alla libertà di circolazione di merci e capitali – sulla scia di quanto già accaduto con la pandemia, fenomeno che ha messo in crisi le catene del valore lunghe per via dell’impossibilità degli spostamenti e che ha visto sintomi evidenti di tale cambiamento come la crisi dei container tra Cina e USA, la crisi di Suez con la nave bloccata nel canale, la crisi di fornitura di molti materiali critici come i chip e, quindi, avvio dei progetti di reshoring[1].
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Lenin: teoria e prassi internazionalista
di Rete Dei Comunisti
In occasione della ricorrenza della nascita di Lenin, a 155 anni dal 22 aprile 1870, cogliamo l’occasione per rendere omaggio al rivoluzionario che tentò l’assalto al cielo portando alla vittoria la Rivoluzione bolscevica che realizzò la prima esperienza di socialismo reale della storia.
A testimonianza dell’attualità di Lenin, scegliamo di approfondire la “paternità leniniana” dell’anticolonialismo bolscevico, ricostruendo per sommi capi il processo di elaborazione teorica sulla questione nazionale e coloniale, dagli inizi del 1900 fino agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione. È in questi anni, infatti, che Lenin sviluppa quelle coordinate teoriche che forniranno da bussola per tutto il movimento comunista internazionale nel suo complesso, lungo tutto il corso del Novecento, fino ancora a oggi.
Su quest’aspetto rimandiamo alla prima sessione del forum organizzato dalla Rete dei comunisti: “Elogio del Comunismo del Novecento”, svoltosi a Roma, il 4-5-6 ottobre 2024, di cui è disponibile la registrazione audio-video degli interventi, nonché la pubblicazione cartacea degli atti che è in corso di presentazione in differenti città italiane.
Di fronte all’attacco sistematico dell’Occidente imperialista nei paesi del Sud globale, di fronte al genocidio in Palestina e all’escalation bellica promossa dall’Unione Europea, l’eredità teorica leniniana, che allora costituiva l’unico argine alla Prima guerra mondiale, torna oggi materia viva con cui affrontare le sfide del presente.
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Come nascondere un impero: il disvelamento dell’impero degli Stati Uniti
di Alessandro Scassellati
La storia dell’espansionismo statunitense è incentrata sui territori e possedimenti d’oltremare che gli Stati Uniti, nel corso degli anni, hanno colonizzato, controllato e cercato di nascondere a se stessi e agli altri. I resoconti trionfalistici dell’ascesa degli Stati Uniti allo status di superpotenza di solito iniziano con la Seconda guerra mondiale: Pearl Harbor risvegliò il gigante dormiente per salvare il mondo dal fascismo. Ma se gli Stati Uniti avevano dormito, si trattava solo di un breve pisolino dopo un vigoroso allenamento. Dall’inizio del XIX secolo fino al XX, gli Stati Uniti crearono un vasto impero d’oltremare, che crebbe fino a includere Filippine, Porto Rico, Guam, Hawaii, Alaska, la Zona del Canale di Panama, le Isole Vergini americane e le Samoa americane, comprendendo milioni di sudditi coloniali. Il dominio imperiale degli Stati Uniti è stato caratterizzato in vari momenti da negligenza, razzismo paternalistico e brutali campagne militari. Un libro recente cerca di disvelare e spiegare, più che condannare, l’impero. E così facendo, ci aiuta a comprendere meglio la politica estera e militare statunitense nel passato, nel presente e nel futuro.
* ** *
Durante un recente viaggio a New York motivato dal desiderio di passare un po’ di giorni insieme a mio figlio, sua moglie, i due nipotini e la compagna della mia vita che ormai da anni vivono, studiano e lavorano lì, ho passato una (piccola) parte del mio tempo in alcune grandi librerie, come Strand e Barnes & Noble, alla ricerca di libri da leggere in questi mesi primaverili.
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La Palestina e la logica coloniale del diritto internazionale
di Mjriam Abu Samra, Sara Troian
Questo lucido intervento di Mjriam Abu Samra e Sara Troian mostra in modo incontrovertibile come le relazioni internazionali attuali hanno fondamenta coloniali, e sono perciò di evidente stampo neo-coloniale. Altro che il post-colonialismo di pura (e assordante) chiacchiera accademica!
Con altrettanta chiarezza il loro scritto inquadra come un provvedimento di stampo colonialista anche la famosa decisione della Corte penale internazionale dell’Aja che mise sullo stesso piano i boia del colonialismo sionista-occidentale Netanyahu e Gallant, e i capi della resistenza anti-coloniale palestinese Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar e Mohammad Deif – una decisione che spinse tanti anticolonialisti di carta pesta a sprecare in modo ridicolo l’aggettivo “storico”.
Anche questa chiara lezione di critica del diritto internazionale ci viene direttamente dall’indomita forza di resistenza del popolo palestinese. Sempre con la Palestina nel cuore e nella mente! (Red.)
* * * *
Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale.
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Sergio Fontegher Bologna: L’assedio alle scuole, ai nostri cervelli
Giorgio Lonardi: Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore
Il Pungolo Rosso: Una notevole dichiarazione delle Brigate Al-Qassam
comidad: Sono gli israeliani a spiegarci come manipolano Trump
Alessandro Volpi: Cosa non torna nella narrazione sulla forza dell’economia statunitense
Pino Arlacchi: IA: le differenze tra la Cina socialista e l'occidente
Leo Essen: Provaci ancora, Stalin!
Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
Sonia Savioli: Cos’è rimasto di umano?
Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
Pino Arlacchi: Perché Netanyahu non batterà l’Iran
Alessandro Volpi: Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea
Marco Savelli: Padroni del mondo e servitù volontaria
Emmanuel Todd: «La nuova religione di massa è il culto della guerra»
Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Gianandrea Gaiani: Il Piano Marshall si fa a guerra finita
Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
Algamica: Il necrologio di Federico Rampini
Emmanuel Todd: «Non sono filorusso, ma se l’Ucraina perde la guerra a vincere è l’Europa»
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
Vincenzo Costa: "Io ho paura della sinistra"
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Piccole Note: Il cyberattacco in Libano e l'attacco Nato alla Russia
Giorgio Agamben: La fine del Giudaismo
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto