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L’Europa specula sulle vittime civili di Sumy per bloccare i negoziati di pace
di Gianandrea Gaiani
La strage di civili di Sumy sta diventando lo strumento per alimentare il tentativo di ostacolare il tentativo di Donald Trump di raggiungere un’intesa per la cessazione del conflitto in Ucraina. Un cessate il fuoco che Zelensky e la Ue (e diversi governi di stati membri) vedono come fumo negli occhi nonostante i drammatici danni umani ed economici provocati da queto conflitto proprio a ucraini ed europei.
Due missili balistici Iskander russi hanno colpito lil 13 aprile la città di Sumy, capoluogo dell’omonima regione al confine con la Russia da dove prese il via l’attacco ucraino alla regione russa di Kursk. Secondo Kiev sono stati colpiti un filobus e molti civili presenti in strada provocando 34 morti e 119 feriti: il numero di bambini uccisi è stato corretto da 7 a 2 dal portavoce del ministero delle emergenze ucraino, Oleh Strilka.
Le reazioni
Tutti gli alleati dell’Ucraina hanno condannato fermamente gli attacchi russi, con il presidente francese Emmanuel Macron che ha affermato che la Russia stava continuando la guerra “in sfregio della salvaguardia delle vite umane, del diritto internazionale e delle offerte diplomatiche del presidente Trump “. La Russia ha commesso “un grave crimine di guerra“, ha affermato il probabile nuovo cancelliere tedesco, Friedrich Merz.
Donald Trump lo ha definito un attacco “orribile” riferendo che i russi avevano parlato di un errore mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un post su Facebook ha affermato che “dall’inizio di aprile, l’esercito russo ha utilizzato contro l’Ucraina quasi 2.800 bombe aeree, oltre 1.400 droni d’attacco e circa 60 missili di vario tipo, compresi missili balistici”.
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Che fare di Palestina e Siria? Fratellanze e Discordanze Israelo-Musulmane
di Fulvio Grimaldi
Per la Palestina, Gaza e Cisgiordania, Trump ha annunciato l’inferno. Il governante che col capo di quella struttura potrebbe benissimo gareggiare per il primato delle atrocità, lo va praticando da 16 mesi. Se non da anni, se non da 8 decenni.
Negli ultimi 10 giorni di marzo, violato, come è suo costume storico, ogni accordo di tregua, di cessate il fuoco, di transazione, con stermini in Libano, Siria, Cisgiordania, 1000 assassinati nella sola Gaza, di cui 322 bambini, di cui si sa quanto siano privilegiati dai cecchini dello Stato infanticida. 15 medici, infermieri, operatori umanitari in manifesta attività di soccorso uccisi a freddo, gettati in una fossa comune. 209 giornalisti uccisi, spesso assieme a moglie, figli, tutta la famiglia.
Nel calcolo di “Lancet” 150.000 vittime, al 99% civili, in maggioranza donne e bambini, uccisi da missili, bombe, droni, fame, sete, epidemie, sepolti sotto macerie. 2 milioni e passa di sopravvissuti avviati all’esodo “volontario”, nell’agghiacciante ipocrisia dei genocidari volontari che prospettano la vivisezione di Gaza con sua progressiva frammentazione in campi di concentramento sotto totale controllo dell’IDF. Grandi manifestazioni in Israele, ma mai contro questo. I kapò dei lager d’antan si ritrovano superati in classifica.
Tutto questo sulla base di un suprematismo autoassegnatosi e sacralizzato da un manuale autoredatto, ma attribuito a un autocreato dio in esclusiva e corroborato da un vittimismo, affatto simile a quello che altre comunità potrebbero assegnarsi, ma che si pretende unico nello spazio e nel tempo. Vittimismo vantato per sé, quando semmai era quello che aveva investito generazioni precedenti e ormai lontane. Vittimismo, oggi oscenamente strumentale, di una comunità religiosa fattasi imperialista e giudice dell’umano e del non umano. Quest’ultimo, dunque, in eccesso sul pianeta Terra.
Tutto questo sotto gli occhi del mondo. Non del nostro, dove, al di là e contro l’ignavia di tanti, la passiva o attiva complicità di potentati politici, economici e culturali, vasti settori di società si sono sollevati contro gli abomini dello Stato storicamente e ontologicamente fuorilegge e a sostegno delle sue vittime.
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Ucraina, "pacifismo" e dintorni
di Roberto Fineschi
Avendo essi avuto una minima eco, raccolgo qui alcuni post recenti da facebook sulla guerra in Ucraina e manifestazioni "pacifiste" per salvarli dalla dispersione
14 febbraio.
Rilanciavo un post del 20 marzo 2022 dove anticipavo conclusioni poi verificatesi.
20 febbraio
Cortocircuiti (apparenti e reali)
La guerra in Ucraina l'hanno voluta vari governi degli Stati Uniti. L'idea parte da lontano, ma diventa più concreta con l'espansione NATO verso est, il colpo di stato di Maidan, le devastazione in Donbass e poi la guerra vera e propria (non per dire che altrimenti in Ucraina sarebbe stato il paradiso terrestre, beninteso, ma ciò non significa non guardare in faccia la realtà).
Sin da Maidan è un processo in cui gli USA scavalcano l'Europa (fuck the UE) e poi via Boris riscavalcano i tentativi di trattativa di Germania e Francia che evidentemente avevano capito l'andazzo.
L'obiettivo primo era rompere la connessione oriente/occidente con la via della seta che arrivava fino in Portogallo; correlatamente distruggere la Germania/Euro/farraginose-ambizioni-imperialiste-europee portandole alla condizione di vassalli stabilita con la fine della II guerra mondiale. Idealmente far crollare la Russia, ma pare irrealistico che si immaginassero di sconfiggerla sul campo (a meno di non fare ben altra guerra ovviamente). Che l'Ucraina e nemmeno l'UE partecipino alle trattative di pace la dice lunga su chi fossero i reali attori.
La definizione dell'orto di casa insomma, che il capitalismo al crepuscolo americano (vale a dire non valorizzante ma depredante) ha bisogno di tenersi ben saldo perché lo deve spolpare.
Allo stesso tempo far paura un po' a tutti: chi sgarra si becca una guerra (via terzi o diretta a seconda dei casi). Il governo US vince anche solo destabilizzando le varie aree, affinché non si organizzino per creare circuiti alternativi al Sacro Graal (il dollaro che trasforma i debiti fuori controllo in risorsa).
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Il crollo dell’illusione euroatlantica
di Mauro Casadio*
Lo scontro fra Trump e Zelensky, e per interposta persona con l’Unione Europea, ha assunto forme inaspettatamente virulente per tutti ed ha fatto emergere la vera questione che nel tempo è stata rimossa nella discussione a sinistra. Ma alla fine ha anche mostrato la natura profonda della contraddizione: quella tra interessi imperialistici divaricanti in Occidente.
Dunque grande è la confusione sotto il cielo e la situazione è eccellente! Ma come interpretare questa improvvisa precipitazione nelle relazioni transatlantiche? Come collocare questa netta discontinuità dentro l’apparente egemonia e dominio mondiale euroatlantico a trazione statunitense, apparentemente irreversibile fino al Novembre scorso?
Le interpretazioni che stanno fiorendo sono molteplici: dalla follia mercantilista di Trump alla influenza della “tech oligarchy” composta dagli uomini più ricchi della terra, dalla subordinazione dei gruppi dominanti dell’UE agli USA al “riscatto militare” che deve sancire l’emancipazione europea da uno Stato non più amico, ma divenuto repentinamente antidemocratico nell’arco di una campagna elettorale.
Insomma la “Fine della Storia” sta ottenebrando le migliori menti occidentali, le quali non riescono e non vogliono risalire alle cause strutturali di questa contraddizione, pure manifestatasi già da molto tempo. Anzi rifiutano proprio di affrontarle, limitandosi a “sezionare” in infiniti e noiosissimi dibattiti televisivi o interviste giornalistiche gli aspetti formali, reversibili spesso nell’arco di 24 ore, di carattere politico-etico, di minaccia da parte delle “pericolosissime autocrazie”, oppure di carattere economico contingente.
Anche “a sinistra” non emergono analisi particolarmente brillanti, ondeggiando tra un pacifismo militarista-europeista, alla PD, ed un pacifismo ipocrita come quello dei 5Stelle che al governo avevano votato il finanziamento per le armi all’Ucraina e l’acquisto degli F35, e oggi lucrano elettoralmente sulle contraddizioni del campo largo. Come diceva Totò, adesso si “buttano a sinistra”.
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Chi si rivede! Il buon vecchio Lenin
di Vladimiro Merlin
Fino al ritorno di Trump andavano per la maggiore varie teorie sul Superimperialismo transazionale, ora il castello di carte è miseramente crollato, le contraddizioni interimperialistiche, che si ritenevano superate tornano prepotentemente al centro della scena.
Da un po’ di tempo in qua, da più parti, si cercava di celebrare il funerale di Lenin, non quello fisico, avvenuto un secolo fa, ma quello politico.
C’era chi sosteneva che il pensiero di Lenin non fosse più attuale, “salvando” solo l’elaborazione sulla Nep, facendo un parallelo tra quella esperienza e il modello attuale del socialismo cinese, senza capire, tra l’altro, che la situazione politica, sociale, internazionale, ecc. dell’Unione Sovietica degli anni ‘20 e quella cinese degli anni ‘80 sono incomparabili.
Senza entrare eccessivamente nel merito, la scelta cinese del socialismo di mercato è nata da un bilancio dell’esperienza cinese nei primi 30 anni di esistenza della Rpc, dalla crisi dell’Unione Sovietica che fu attentamente studiata dal gruppo dirigente cinese, come fu studiata anche l’esperienza della Nep, ma anche quella dell’autogestione Jugoslava, ecc.
Chiudendo questa breve parentesi, che andrebbe sviluppata in uno specifico articolo, torno al tema che intendevo affrontare.
L’ultima versione del “Superimperialismo” fa riferimento alla teoria del 1%, secondo questa teoria meno del 1% della popolazione dei paesi a capitalismo sviluppato, composta da miliardari, principalmente legati al capitalismo finanziario, formerebbe una specie di superclasse transnazionale, ma a predominanza anglo-americana, che determinerebbe le politiche degli Stati nazionali.
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Sull'orlo dell' abisso
di Chris Hedges* - Scheerpost
Questo è un discorso che ho tenuto al Sanctuary for Independent Media. Grazie a loro per avermi ospitato e per aver permesso al mio team di caricare questo discorso che ho tenuto su The Chris Hedges Report. Visita il loro canale YouTube, dove è stato trasmesso originariamente, qui.
Il mio vecchio ufficio a Gaza è un cumulo di macerie. Le strade intorno, dove andavo a prendere un caffè, ordinavo un maftool o un manakish, mi tagliavo i capelli, sono ridotte in macerie. Amici e colleghi sono morti o, più spesso, sono scomparsi, l'ultima volta si sono sentiti settimane o mesi fa, senza dubbio sepolti da qualche parte sotto le lastre di cemento rotte. I morti non si contano. Sono decine, forse centinaia di migliaia.
Gaza è una terra desolata con 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Ratti e cani frugano tra le rovine e le pozze fetide di liquami sporchi. Il fetore putrido e la contaminazione dei cadaveri in decomposizione emergono da sotto le montagne di cemento in frantumi. Non c'è acqua pulita. Poco cibo. Una grave carenza di servizi medici e quasi nessun rifugio abitabile. I palestinesi rischiano di morire a causa di ordigni inesplosi, lasciati dietro di sé dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, raffiche di artiglieria, colpi di missili e scoppi di carri armati, e di una varietà di sostanze tossiche, tra cui pozze di liquami e amianto.
L'epatite A, causata dal consumo di acqua contaminata, è dilagante, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la diffusa nausea e vomito causati dal consumo di cibo rancido. Le persone vulnerabili, compresi i neonati e gli anziani, insieme ai malati, rischiano la condanna a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampati tra lastre di cemento o all'aperto. Molti sono stati costretti a spostarsi più di una dozzina di volte. Nove case su 10 sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università - Israele ha fatto saltare in aria l'Università Israa a Gaza City con una demolizione controllata - cimiteri, negozi e uffici sono stati cancellati. Il tasso di disoccupazione è dell'80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l'85%, secondo un rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro dell'ottobre 2024.
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Donald Trump e la forza del destino
di Mimmo Porcaro
Servi dei padroni
Al giorno d’oggi essere servi è diventata una cosa pesante quanto mai prima. Uno si trova un padrone, lo riverisce, gli “spiccia casa”, per così dire, e soprattutto, gli evita di fare il lavoro pesante, il lavoro sporco, perché se lo accolla tutto lui. Si aspetterebbe quindi, se non fiumi di denaro e di elogi, almeno un contentino, una pacca sulla spalla. Macché: oggi ti prosciugano e poi ti licenziano come si faceva ai tempi di Mozart, ossia con un bel calcio nel chitarrino. E ti chiedono anche indietro i soldi. Guardate il povero Zelensky e soprattutto il suo sventurato popolo. Uno può dire di tutto al Manifesto, ma non può accusarlo di sbagliare le prime pagine: “Usa e getta” è il titolo perfetto, data la situazione.
E che dire dei servi di casa nostra? Guardate il nostro ineffabile presidente del consiglio, inciampato nella transizione dal padrone vecchio a quello nuovo. Se prima berciava “Kiev fino alla fine!” ora dovrà sibilare a denti stretti “E’ la fine di Kiev!”, e fare anche finta di non averlo detto. E guardate il suo vice, il Capitano (!) che guida la Lega e la cordata del Ponte e che più Trump parla di dazi, più lo elogia: poi se la vedrà lui con quel “Nord produttivo” che dovrebbe essergli tanto caro.
Sto buttandola troppo sul ridere? Forse sì: ma troppo scoperta è qui la natura intima del nazionalismo della destra italiana, che, come fece il fascismo, deve immediatamente gettarsi nelle braccia di un padrone ben più forte e feroce, perché ciancia di “ruolo decisivo” e di “grandi opportunità” senza aver prima costruito (e anzi dopo aver reso impossibile) il compromesso sociale e la conseguente base produttiva capaci di dare effettiva sostanza alla declamata sovranità.
Ci sono poi gli altri servi, quelli che litigano (per ora) col nuovo capo solo perché hanno nostalgia di quello vecchio. Prigionieri di se stessi e della retorica che hanno sciorinato per giustificare l’autolesionistica “operazione Ucraina” la sedicente sinistra e i sedicenti gruppi dirigenti europei devono addirittura ostacolare il possibile (ma tutt’altro che prossimo) accordo di pace e parlare di scontro a oltranza.
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Il senso di 'Bibi' per la guerra
di Enrico Tomaselli
Fondamentalmente, lo stato ebraico è intimamente connesso all’idea della guerra, che ne costituisce non solo l’atto fondativo ma anche lo strumento attuativo del disegno sionista. Non certo per caso, è l’unico stato al mondo che non ha una definizione precisa dei propri confini; ciò infatti è funzionale alle mire espansionistiche che puntano alla costruzione del Grande Israele, esteso su gran parte delle terre arabe, e non soltanto sulla Palestina. Ovviamente questo disegno rappresenta un obiettivo ultimo, che lo stato ebraico persegue quando e come se ne presenta l’opportunità, ma che resta valido anche quando apparentemente non si manifesta.
C’è, inoltre, un ulteriore elemento che rende così salda la connessione tra il sionismo e la guerra: le élite sioniste, infatti, e più in generale gli israeliani intellettualmente onesti, ben sanno che lo stato ebraico rappresenta un corpo estraneo in Terra Santa, anche se ovviamente ritengono di avere comunque un diritto divino a restarvi, e pertanto sono consapevoli che queste estraneità non cesserà mai di produrre reazioni di rigetto, rispetto alle quali la guerra è – appunto – la sola risposta possibile.
Come sempre avviene nei processi storici, elementi diversi, riflettendosi reciprocamente, hanno portato a una esasperazione di questa caratteristica. La condizione di perenne insicurezza, determinata appunto dal non venir meno del rigetto da parte araba, ha determinato un crescente radicalizzarsi della popolazione israeliana, soprattutto di quella parte più attivamente impegnata nel movimento colonizzatore, portandola a sostenere le forze di destra ed estrema destra, sostenitrici di fantomatiche soluzioni finali del problema palestinese. Ovviamente ciò ha portato a un ulteriore inasprirsi del conflitto, piuttosto che avvicinarne una soluzione qualsiasi, creando così un meccanismo che si autoalimenta.
Questo processo era già in atto da anni, ma l’attacco portato dalla Resistenza palestinese il 7 ottobre 2023 (che a sua volta ne è conseguenza) ha impresso una significativa accelerazione, determinando una situazione assolutamente nuova.
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Panafricanismo, marxismo, comunismo
I. I “classici"; Du Bois, Padmore, Williams, James, Cèsaire
di Carlo Formenti
Traducendo Red Africa di Ochieng Okoth (vedi la mia recensione su questa pagina) mi sono reso conto di quanto poco gli occidentali di sinistra conoscano il pensiero radicale Nero. In quattro post pubblicati negli ultimi tre mesi, frutto di una prima tornata di letture dedicate al tema, ho discusso alcuni lavori di Amilcare Cabral, Said Bouamama e Walter Rodney oltre che dello stesso Okoth. Dopodiché, avendo realizzato di avere solo sfiorato le ricchezze di questo patrimonio di idee, ho avviato una seconda escursione che mi ha offerto ulteriori spunti di riflessione che cercherò di sintetizzare in tre articoli. Quello che state leggendo tratta del pensiero di cinque autori: William Du Bois, George Padmore, Eric Williams, C. L. R. James ed Aimé Césaire. Nel secondo mi occuperò del monumentale lavoro di Cedric Robinson, Black Marxism, nel terzo affronterò la critica di Angela Davis al femminismo delle classi medie bianche.
Come spiega Caroline Elkins nel suo formidabile saggio sui crimini dell'imperialismo britannico (1), nel periodo fra le due guerre mondiali un gruppo di intellettuali giamaicani “itineranti” fra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti (con puntate in Africa e in Unione Sovietica) si fece promotore del progetto di costruzione di un centro mondiale di pensiero anticoloniale che tentò di mixare le culture africane tradizionali (tanto nella versione originale che in quella diasporica) alla teoria marxista e agli insegnamenti della Rivoluzione Russa. Di questa esperienza, e dei suoi prolungamenti successivi, fecero parte fra gli altri, assieme ai già citati DuBois, Padmore, Williams, James e Césaire, Frantz Fanon, Marcus Garvey (il primo a rivendicare una nazione per gli afroamericani) e il leader storico (assieme a Malcolm X) del Black Panther, Stokely Carmichael. In questo articolo mi occupo però solo dei primi cinque.
William Du Bois. Il decano
Du Bois nasce nel 1868 in una cittadina del Massachusetts, dopo che il padre, (un sangue misto franco-africano di religione ugonotta) e la madre (nera nata libera ma discendente di schiavi) erano emigrati negli Stati Uniti.
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L’ideologia dell’imperialismo americano tra riflesso e progetto
di Eros Barone
1. Il “modello americano” e la crisi della globalizzazione
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno attraversato due fasi: la fase della “guerra fredda” con l’Unione Sovietica e il campo socialista (1947-1991) e la fase del mondo unipolare (1991-2024). Nella prima, gli Stati Uniti si confrontavano alla pari con l’Unione Sovietica, mentre nella seconda hanno completamente sconfitto l’avversario e sono diventati l’unica superpotenza politico-ideologica e militare di dimensioni mondiali. Il capitale finanziario, dotato di tutte le opportune ramificazioni nei partiti e in altre istituzioni, ha così assunto il ruolo di guida di una strategia di dominio mondiale. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, questo dominio si è rivestito di un’ideologia di sinistra liberale fondata sulla combinazione fra gli interessi del grande capitale internazionale e una cultura individualista di taglio ‘progressista’: ideologia che ha trovato la sua piena espressione politica nel Partito Democratico statunitense.
A questo punto, sembrava che tutti i paesi del mondo avessero adottato, nella loro concreta articolazione di Stati e di società, il modello americano: democrazia politica rappresentativa, economia di mercato capitalista, ideologia individualista e cosmopolita dei diritti umani, tecnologia digitale, cultura postmoderna incentrata sull’Occidente. Tuttavia, fin dai primi anni Novanta, tra gli intellettuali americani si manifestarono posizioni che ponevano in luce il carattere mistificante e illusorio di questa visione. Tali posizioni trovarono un’espressione incisiva nell’analisi di Samuel Huntington, il quale previde come inevitabili lo “scontro delle civiltà”, il rafforzamento del multipolarismo e la crisi della globalizzazione incentrata sull’Occidente capitalistico. 1 Partendo da queste premesse, il politologo statunitense elaborò il progetto di una riforma, per così dire di stampo “dioclezianeo”, dell’Impero, sostenendo che l’identità americana dovesse essere rafforzata piuttosto che indebolita e che gli altri paesi occidentali dovessero essere uniti nell’ambito di un’unica civiltà occidentale, non più globale ma regionale. 2
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La nuova negazione dell'imperialismo della sinistra occidentale
di John Bellamy Foster
Il Dipartimento Formazione di Resistenza Popolare segnala come contributo al dibattito la traduzione in italiano di questo corposo saggio di John Bellamy Foster, pubblicato il 1° novembre 2024 sul sito della Monthly Review con il titolo The New Denial of Imperialism on the Left (sul cartaceo è uscito sul n° 6 del volume 76).
Si segnala che, per ragioni organizzative non è stato tradotto il ricco impianto di note (ben 116) che correda il testo dandogli un impianto scientifico.
Il valore del lavoro di Bellamy Foster consiste a nostro avviso in tre aspetti fondamentali:
1. offrire un resoconto molto dettagliato di come sia evoluta nell’ambito del marxismo eterodosso occidentale la teoria dell’imperialismo; si tratta di temi su cui c’è scarsissima cognizione in Italia, dove negli ambienti della sinistra occidentale il trionfo del totalitarismo “liberale” ha portato a dimenticare perfino gli aspetti fondamentali della stessa analisi leninista. A quanto ci dice Bellamy Foster stesso, non manca comunque anche tra molti “intellettuali” una certa diffusa ignoranza di fondo di tali fondamentali teorici.
2. Bellamy Foster prende posizione a favore di quegli intellettuali, come Samir Amin, che hanno ribadito l’attualità del paradigma imperialista in connessione con il persistente fenomeno definito “neocolonialismo” dagli studiosi liberali, ricordando meritoriamente il filo rosso che lega queste analisi con il marxismo e il leninismo. Oltre a ribadire i meriti storici del movimento comunista internazionale, che è stato il pilastro della lotta antimperialista dell’ultimo secolo, viene giustamente riaffermata l’attualità della questione antimperialista correttamente intesa.
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Trump e Gaza: la rottamazione di un popolo
di Roberto Iannuzzi
I palestinesi non se ne andranno da Gaza. Se rifiuteranno questa realtà, Israele e gli USA finiranno per portare a compimento l’orrendo crimine del genocidio di un popolo
Il presidente americano Donald Trump ha nuovamente spiazzato alleati e oppositori allorché, durante la conferenza stampa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso 4 febbraio, ha dichiarato che gli USA avrebbero “preso possesso” di Gaza per trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”.
Senza spiegare sulla base di quale autorità, il presidente ha detto che, dopo aver reinsediato altrove i palestinesi, avrebbe trasformato la piccola enclave sul Mediterraneo in un luogo dove avrebbe vissuto “la gente del mondo”, incluso eventualmente qualche palestinese.
Sebbene non vi siano stati incontri in seno all’amministrazione per definire la proposta, Trump l’ha ribadita più volte nei giorni successivi, spiegando che gli USA non avrebbero schierato soldati sul terreno perché Gaza sarebbe stata loro “consegnata” da Israele “alla fine del conflitto”.
Egli ha anche chiarito che non ci sarebbe stato alcun diritto al ritorno per i palestinesi al termine dell’operazione, smentendo coloro che avevano parlato di una ridislocazione “solo temporanea” della popolazione di Gaza.
Il presidente ha citato Egitto e Giordania fra i paesi che avrebbero potuto accogliere i palestinesi, mentre ha accennato alla possibilità che siano le monarchie del Golfo a pagare il costo della ricostruzione della Striscia.
Trump ha definito Gaza come un luogo ormai invivibile, una terra di morte e distruzione, “un sito di demolizione” dove la vita è impossibile, senza tuttavia dire come ciò sia accaduto, e concludendo che i palestinesi preferirebbero vivere altrove se solo potessero, senza però averli interpellati.
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La rivolta del ghetto di Gaza
di Adi Callai
ANDANDO AL CENTRO DELLA QUESTIONE: Gaza è stata una zona di uccisioni libere e un “campo di concentramento” (per citare il direttore della sicurezza nazionale israeliano Giora Eiland nel 2004), ben prima del 7 ottobre.
Alla luce di ciò, la posizione più radicale deriva direttamente dalla domanda più semplice: i palestinesi sono esseri umani? Se la tua risposta è enfaticamente sì, inequivocabilmente e senza riserve, allora sei una causa persa per il sionismo. Perché se i palestinesi sono esseri umani, allora la loro autodifesa è legittima e la difesa della loro continua esistenza è necessaria.
Gaza, questa scatola nera, questo recinto per i rifugiati della pulizia etnica della Palestina del 1948: possiamo pensare alla sua gente come pensiamo a noi stessi, immaginando di essere rinchiusi, imprigionati, in un piccolo tratto di terra per sempre, senza alcun motivo se non quello di essere nati in una specifica etnia? Un posto che è stato tagliato fuori dal mondo a vari livelli dal 1948. E un posto che almeno dal 2003 ha sperimentato molteplici e devastanti operazioni militari su larga scala. I cittadini di Gaza erano sopravvissuti a dodici di queste dal 2003, con un bilancio delle vittime di oltre 8.000 persone, prima del 7 ottobre. Da allora, quel numero è cresciuto di oltre 34.000. E ogni minuto c'è un nuovo aggiornamento di più morti a Gaza per il fuoco israeliano, ma ora anche per fame. Niente carburante, niente cibo, niente acqua, niente medicine. Qualunque cosa stia arrivando è come “una goccia nel mare”, per citare i funzionari delle Nazioni Unite, in un luogo che questi funzionari avevano già previsto, nel 2018, sarebbe presto diventato “invivibile”, inadatto alla vita umana, un luogo che stava vivendo quello che Ilan Pappé aveva definito “un genocidio incrementale” già nel 2006.
Questo è il contesto che dobbiamo tenere a mente quando pensiamo all'attacco del 7 ottobre. E poi dobbiamo chiederci, cosa faremmo in quella situazione? Acconsentire e morire? O combattere?
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La guerra imperialista dei dazi
di Fosco Giannini
Il protezionismo come prassi storica del capitalismo e base materiale del neoprotezionismo di Trump. La consustanzialità dell’isolazionismo alla guerra imperialista e all’odierna spinta bellica degli Usa. La necessità delle lotte dei comunisti e dei popoli per la liberazione dal giogo imperialista e della Nato.
Non saranno forse, “i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo”, ma certo la quindicina di giorni che ha separato la seconda investitura di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio 2025) dalla firma, da parte dello stesso presidente Usa (4 febbraio 2025), dell’ordine esecutivo per l’avvio della guerra doganale, ha già scatenato una scossa tellurica, sul terreno economico-finanziario internazionale, di almeno 9 gradi della scala Mercalli.
Il neoprotezionismo “trumpiano” inizia ufficializzando nuove tariffe doganali del 25% contro Messico e Canada e del 10% contro la Cina, che si assommerebbero, se praticate, a quelle già in atto contro il gigante guidato dal partito comunista cinese. Inoltre, “per proteggere gli Usa” anticipatamente da ogni ritorsione, il provvedimento firmato da Trump prevede “una clausola di ritorsione” in grado di far innalzare le stesse barriere doganali contro i Paesi già colpiti, qualora essi rispondessero con uguali misure protezionistiche.
Consapevole dell’atto di guerra economico-finanziario proclamato e della sua gravità oggettiva, Trump ha inoltre ratificato, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act, “lo stato di emergenza nazionale”, che gli consentirebbe di disporre di ampi poteri per affrontare le eventuali e molto probabili crisi e contraddizioni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.
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Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”
di Kit Klaremberg*
Tra la raffica di ordini esecutivi emessi dal presidente Donald Trump nei primi giorni della sua amministrazione, forse il più importante fino a oggi è quello intitolato “rivalutare e riallineare l’assistenza estera degli Stati Uniti”.
In base a quest’ordine è stata immediatamente imposta una pausa di 90 giorni a tutta l’assistenza allo sviluppo all’estero degli Stati Uniti in tutto il mondo, a eccezione, naturalmente, dei maggiori beneficiari degli aiuti statunitensi in Israele ed Egitto. Per ora, l’ordine vieta l’erogazione di fondi federali a qualsiasi “organizzazione non governativa, organizzazione internazionale e appaltatore” incaricato di attuare i programmi di “aiuto” degli Stati Uniti all’estero.
Nel giro di pochi giorni centinaia di “appaltatori interni” dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) sono stati messi in congedo non retribuito o licenziati a titolo definitivo come risultato diretto dell’ordine esecutivo.
Il collaboratore del Washington Post John Hudson ha riferito i funzionari dell’organizzazione definiscono le direttive di Trump sull’”assistenza allo sviluppo estero” un “approccio shock-and-awe”, che li ha lasciati barcollanti, incerti sul loro futuro.
Un membro anonimo dell’USAID gli ha detto che “hanno persino rimosso tutte le fotografie dei programmi di aiuto nei nostri uffici”, come attestano le fotografie che accompagnano l’ordine.
Mentre l’epurazione dell’amministrazione Trump ha provocato onde d’urto tra il corpo di sviluppo internazionale di Washington e i banditi di Washington che si nutrono delle sue reti, l’improvviso taglio dei fondi dell’USAID ha scatenato il panico all’estero.
Dall’America Latina all’Europa dell’Est, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari nelle ONG e nei media per spingere per le rivoluzioni colorate e varie operazioni di cambio di regime, il tutto in nome della “promozione della democrazia”.
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