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moneta e credito

Modelli di organizzazione economica e conflitti militari

Note in margine a La guerra capitalista

di Salvatore D'Acunto

Palombi.jpgNel volume La guerra capitalista, gli autori Brancaccio, Giammetti e Lucarelli (2022) sostengono che alle radici delle recenti tensioni internazionali vi siano gli imponenti processi di centralizzazione dei capitali che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, e la sempre più marcata tendenza del fenomeno a travalicare i confini degli schieramenti geo-politici. I paesi usciti vincitori dalla competizione sui mercati globali (in particolare Cina, paesi arabi e Russia) starebbero usando i saldi attivi in dollari accumulati negli anni scorsi per ‘scalare’ la proprietà dei capitali americani, e il governo degli Stati Uniti starebbe reagendo a questa minaccia con variegate restrizioni all’ingresso dei capitali stranieri nella proprietà dell’industria nazionale e con misure protezionistiche di politica commerciale. Secondo il punto di vista degli autori, questo conflitto economico starebbe generando una spirale di ritorsioni a catena, moltiplicando in tal modo il rischio di veri e propri conflitti militari. Questo modello interpretativo viene messo a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, e si discutono alcune interessanti implicazioni dell’analisi rispetto al problema del design delle istituzioni di regolazione delle relazioni economiche internazionali.

* * * *

Un elemento comune a molte delle narrazioni dell’impetuoso ritorno dei venti di guerra in Europa è l’adesione dei commentatori ai canoni della drammatizzazione romanzesca o cinematografica, con il focus interamente centrato sul conflitto tra personalità connotate in senso moralistico: paladini della libertà versus autocrati fanatici, oppure ‘denazificatori’ versus persecutori di minoranze etniche.

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contropiano2

Il paradosso di Oppenheimer: il potere della scienza e la debolezza degli scienziati

di Prabir Purkayastha* Globetrotter - Newsclick

Oppenheimer e filmIl nuovo film di successo su Oppenheimer ha riportato alla memoria il ricordo della prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima. Ha sollevato domande complesse sulla natura della società che ha permesso lo sviluppo e l’uso di tali bombe e l’accumulo di arsenali nucleari in grado di distruggere il mondo molte volte.

L’infame era McCarthy e la ‘caccia ai rossi’ ovunque hanno qualche relazione con la patologia di una società che ha soppresso il senso di colpa per il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, sostituendolo con la convinzione del proprio eccezionalismo?

Cosa spiega la trasformazione di Oppenheimer, che era emerso come l'”eroe” del Progetto Manhattan che costruì la bomba atomica, in un cattivo e poi dimenticato?

Ricordo il mio primo incontro con il senso di colpa americano per le due bombe atomiche sganciate sul Giappone.

Nel 1985 partecipavo a una conferenza sui controlli informatici distribuiti a Monterey, in California, e i nostri ospiti erano i Lawrence Livermore Laboratories. Si trattava del laboratorio di armi che aveva sviluppato la bomba all’idrogeno.

Durante la cena, la moglie di uno degli scienziati nucleari chiese al professore giapponese presente al tavolo se i giapponesi avessero capito perché gli americani avevano dovuto sganciare la bomba sul Giappone.

Che ha salvato un milione di vite di soldati americani? E molti altri giapponesi? Cercava l’assoluzione per il senso di colpa che tutti gli americani portavano con sé? Oppure cercava la conferma che ciò che le era stato detto e in cui credeva era la verità? Che questa convinzione era condivisa anche dalle vittime della bomba?

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ilpungolorosso

Niger e dintorni: Africa ribelle, Occidente in panne

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

niger afpAncora una volta un grido di lotta che si ode in tutto il mondo viene dall’Africa – questa volta dall’Africa “nera” occidentale.

Questo grido di lotta non è in nulla paragonabile, per potenza, estensione, protagonismo degli sfruttati, ai sommovimenti del 2011-2012 che percorsero in lungo e in largo come un’unica onda sismica l’intero mondo arabo, in Africa del nord e in Medio Oriente. Allora milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti, riaprirono nelle piazze il processo della rivoluzione democratica ed anti-imperialista in una regione strategica del globo, dando un formidabile scossone alla stabilità del capitalismo globale a egemonia occidentale già alle prese con la più grande crisi finanziaria della storia – prima di essere sconfitti dalla reazione delle borghesie locali in combutta con le grandi potenze. E neppure è lontanamente paragonabile, quanto a diretto protagonismo proletario e a contenuti di classe, alle potenti lotte dei minatori del Sud Africa, con epicentro a Marikana, che nel 2012 diedero il via ad un biennio di scioperi “selvaggi” in agricoltura, nella metalmeccanica, nei trasporti, in edilizia, mettendo in luce la trama di interessi che lega, e subordina, il regime bianco-nero “post-apartheid” di Pretoria alle multinazionali delle vecchie potenze coloniali, e approfondendo il solco tra questo regime borghese e la sola forza che potrà portare a compimento la liberazione dell’Africa dal fardello dei vecchi e nuovi colonialisti: il suo giovane proletariato – e non si tratta solo del giovane proletariato sud-africano: al 2017 tra i primi trenta paesi al mondo per livelli di attività sindacale, dodici erano paesi africani.

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lacausalitadelmoto

Il Niger e il Ribollire Africano

di Alessio Galluppi 

niger9082Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?

Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.

E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.

Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali.

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contropiano2

Lo “sganciamento” e la prospettiva decoloniale riguardano anche l’Europa

di Rita Martufi - Luciano Vasapollo

In ricordo di Angelo Baracca e Roberto Sassi

Percezione cinese della decolonizzazione imagefullwideDopo i continui sospetti di nuove bolle finanziarie, la competizione tra capitali si è intensificata, estendendosi a tutte le attività produttive, con sempre più determinante contraddizione capitale-ambiente come specifica caratterizzazione del centrale e paradigmatico conflitto capitale-lavoro. Nonostante ciò, o forse proprio a causa della concorrenza imperialista, le singole oligarchie nazionali non si sono accordate sulla futura divisione internazionale del lavoro, cioè non hanno deciso dove, cosa, come e per chi ogni paese o agglomerato produrrà multistatalità di dominio. Pertanto il terreno di confronto e conflitto rimane la guerra nelle sue diverse configurazioni.

In questa competizione interimperialista, il capitale finanziario (dato dall’unione di capitale industriale e bancario), che rappresenta la componente più forte del capitale transnazionale contemporaneo, segue una strategia contraddittoria rispetto agli Stati: in nome della “libertà economica” necessita per toglierli di mezzo ma, dall’altro, ne ha bisogno come interfaccia con società civili sempre più degradate e globalizzate, e per estrarre denaro e “pace sociale” dai lavoratori, occupati e non e per far ciò è indispensabile la guerra sociale, la guerra economico-monetaria e la guerra militare con il rafforzamento degli apparati industriali-militari anche a uso civile.

Il rapporto di reciprocità che esiste tra il modello produttivo dominante e la società dei subalterni pende ancora più chiaramente verso la destrutturazione globale considerando il rapporto tra scienza e militarismo. Il primo elemento di chiarezza al riguardo è il contributo quantitativo che la scienza riserva all’apparato produttivo militare e tecnologico mondiale: secondo i dati forniti negli studi della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, riportato da Angelo Baracca: 

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lafionda

Il golpe in Niger: la Francafrique definitivamente in crisi?

di Paolo Arigotti

nigerLa Repubblica del Niger è uno stato, privo di sbocchi al mare, situato nell’Africa occidentale subsahariana: il suo nome deriva dall’omonimo fiume che attraversa il paese. Si tratta della nazione più estesa della parte occidentale del continente nero, che confina, tra le altre, con l’Algeria e la Libia a nord, la Nigeria a sud, il Burkina Faso e il Mali a ovest, il Ciad a est. Con diversi di questi paesi ha condiviso la colonizzazione francese (a partire dal XIX secolo), sino all’indipendenza arrivata nel 1960. Ancora oggi, come retaggio dell’epoca coloniale e (soprattutto) post-coloniale, adotta come valuta ufficiale, in quanto membro della Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), il franco CFA; vi suggeriamo di guardare un video del canale YouTube Nova Lectio[1], non ha caso intitolato: “La moneta coloniale che schiavizza ancora l’africa”.

Il fatto che la ex madre patria sia sempre meno amata nel Sahel è testimoniato dalla vicenda di Mali e Burkina Faso, oltre che dalla crescente presenza russa e cinese[2]. Fino a pochi giorni fa, tuttavia, la prospettiva che il Niger seguisse l’esempio delle nazioni vicine, sbattendo la porta in faccia a Parigi, sembrava trovare un ostacolo nelle miniere di uranio; come scriveva l’analista geopolitico Marco Di Liddo: “Io non so quanto la Francia sia disposta a rinunciare a questi interessi nel Paese.”[3]. Ma sappiamo come l’evoluzione del quadro geopolitico internazionale ultimamente si stia rivelando dimostrando assai rapida, basti pensare alle pesanti ripercussioni del conflitto in Ucraina, che hanno finito per colpire, specie sul versante degli approvvigionamenti alimentari e della spirale inflattiva, molte delle nazioni più povere, tra le quali il Niger[4]; non sempre per colpa dei “cattivi russi” aggiungeremmo noi[5].

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cumpanis

La Polonia alla guida dell’Europa centro-orientale

Chi sono i nuovi ussari alati sotto le insegne della Nato?

di Francesco Galofaro*

PRIMA Immagine per interno POLONIA.jfif La Polonia conta circa 40 milioni di abitanti, pari ai due terzi della popolazione italiana. Nonostante la crescita economica impetuosa, si tratta di un Paese ancora in gran parte poco sviluppato e segnato da grandi contrasti sociali. Nel 1991, per l’italiano medio la Polonia era un semisconosciuto Paese dell’est, patria di Giovanni Paolo II e di Lech Wałęsa, il leader delle battaglie sindacali che Solidarność ha portato avanti contro il governo comunista degli anni ’80. Oggi la Polonia è probabilmente più nota per il suo attivismo nella politica internazionale: guida blocchi di Paesi centro-orientali contro l’Europa a trazione franco-tedesca e contro la concezione liberale della democrazia, promuove un modello di Stato etico ispirato al cattolicesimo conservatore, paternalista e familista, nel tentativo di assoggettare al governo il potere giurisdizionale e il sistema dei media. Al confronto con il protagonismo e l’assertività polacca, stupisce che l’Italia, Paese ampiamente sviluppato e fondatore della UE, giochi un ruolo sempre più marginale nelle relazioni internazionali finendo per contare poco o nulla negli equilibri europei e mondiali. In qualche modo quel che ho descritto fin qui è già il passato: la guerra russo-ucraina ha in realtà colpito molto duramente il modello economico-politico polacco. Nonostante ciò, la Polonia non si adopera per il dialogo, o per una soluzione pacifica e celere, ma si pone alla testa di una coalizione di Paesi manifestamente russofobi i quali spingono perché la NATO e la UE alimentino ulteriormente l’escalation, mettendo in grossa difficoltà l’asse franco-tedesco che sin qui deteneva la supremazia sull’Unione. In questa mia riflessione mi chiederò quali siano le caratteristiche culturali che caratterizzano la Polonia e ne determinano stabilmente la politica estera.

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conness precarie

Rifiutare la guerra, scommettere sul transnazionale

Giorgio Grappi intervista Raúl Sánchez Cedillo

20230712PHT02701 original 768x512Pubblichiamo un’intervista a Raúl Sánchez Cedillo, autore del libro Questa guerra non finisce in Ucraina, che sarà prossimamente disponibile anche in traduzione italiana. Con lui abbiamo discusso dell’impatto della guerra in Ucraina sulla situazione politica complessiva e sulle possibilità dei movimenti. Il confronto prende le mosse dall’analisi proposta da Raúl nel suo libro e dell’esperienza dell’Assemblea Permanente Contro La Guerra (PAAW) organizzata dalla Piattaforma per lo Sciopero Sociale Transnazionale (TSS). Le nostre visioni evidentemente non coincidono su ogni punto. Tuttavia condividiamo l’urgenza di mettere la guerra al centro della discussione, di fronte all’evidente tentativo di gestire la socializzazione dei suoi effetti per renderla un elemento naturale e indiscutibile della nuova fase politica. Rifiutare la guerra e la sua normalizzazione sono allora punti di partenza per poter elaborare ed immaginare possibilità politiche nuove. Questo dialogo è un momento utile in questa direzione e verso il meeting transnazionale Rompere la barriera: Affrontare la Dimensione Transnazionale in programma dal 27 al 29 ottobre a Bologna (clicca qui per maggiori info e il modulo di registrazione). Riteniamo infatti che nell’intervista emerga chiaramente la necessità di riconoscere come decisiva la dimensione transnazionale, tanto come problema per le forme attuali dei movimenti, quanto come possibilità per riconquistare prospettive di lotta che possano incidere sul presente. Uno dei temi della discussione è perciò come abbandonare visioni nostalgiche per pensare un nuovo internazionalismo, una politica transnazionale costruita sulle condizioni del presente. Questo dialogo si è svolto in larga parte prima delle elezioni spagnole del 23 luglio ma affronta ampiamente l’impatto della guerra nella situazione politica in Spagna, paese dove Raúl vive, e contiene nelle conclusioni alcune valutazioni che tengono conto dei risultati del voto.

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lantidiplomatico

L'UE non riesce a sganciare l'America Latina dalla Russia per portarla nella sua orbita

di Fabrizio Verde

720x410c5 bhiudytIl sud globale ha una visione del mondo nettamente differente dal nord come si è visto plasticamente dalle differenze emerse rispetto al conflitto in Ucraina nel vertice UE-Celac. 

L’Europa trascinata nel conflitto contro la Russia da Washington e che al contempo ha iniziato a rivaleggiare anche con la Cina, ancora per volontà degli Stati Uniti, ha un disperato bisogno di alleati.  

Per questo motivo la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha fatto del suo meglio per "catturare il Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva nella sua rete" lunedì mattina a Bruxelles, come evidenzia la Süddeutsche Zeitung.

Nel corso di una conferenza stampa congiunta, la von der Leyen non ha lasciato dubbi sul fatto che consideri il brasiliano "uno dei più stretti amici dell'Europa" e sulla sua soddisfazione per il fatto che dal gennaio di quest'anno Lula sia tornato alla guida del Brasile al posto del populista di destra Jair Bolsonaro. Il capo della Commissione Europea "ama sostenere grandi parole con grandi somme di denaro", quindi ha "messo sul tavolo" 45 miliardi di euro, ovvero quanto l'UE intende investire in America Latina e nei Caraibi entro il 2027. Ciò avverrà nell'ambito di un'iniziativa chiamata Global Gateway, attraverso la quale l'UE intende promuovere progetti infrastrutturali in tutto il mondo ed espandere così la propria influenza.
 
Lula ha ringraziato e sorriso affabilmente. "Ma è rimasto davvero colpito?”, si chiede la pubblicazione tedesca.

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sinistra

La politica dei naufragi

di Guido Mandarino

Migrants Tenerife scaledIl naufragio di Pylos e quello di Cutro sono stati l’occasione per i governi europei per ribadire la necessità di aumentare i controlli e limitare i flussi dei migranti, ovviamente per evitare il ripetersi di queste stragi. Ed è stata anche l’occasione per la denuncia ormai seriale delle insufficienze dei sistemi di soccorso e delle leggi sulla sempre più restrittiva regolamentazione delle frontiere.

Non è il caso di unirsi a questo impianto scenico. Per chi ha a cuore la vita di coloro che scappano dai loro paesi per trovare una situazione migliore non va bene la solidarietà posticcia né la denuncia della scarsa democraticità dei nostri governi.

I naufragi in mare sono una delle conseguenze delle politiche di contenimento e deterrenza dell’Unione Europea che partono da lontano e che nel Patto Europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2020 hanno solo una tappa. Controllare e reprimere l’immigrazione irregolare, prevenire i flussi costituendo un cordone sanitario sempre più ampio e militare. È su questa legalità che nascono le tragedie del mare. Vediamone il contesto.

 

Crisi globale, migrazione globale

Già nel 2017 il rapporto dello European Political Strategy Centre del 2017 descriveva i 10 trend che caratterizzano l’odierna immigrazione (che viene fatta risalire al 2001). Curiosamente gli autori non si sono resi conto di come dal 2001, elencando “chi emigra”, il “perché si emigra”, e il “da dove” provengono i flussi, si ottiene un dato univoco e cioè che il fenomeno migratorio è diventato “universale”: riguarda uomini, famiglie, donne, bambini; si fugge dalla crisi economica, dalla carestia, dai disastri ambientali e si fugge dal cosiddetto “sud globale”.

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materialismostorico 

La Grande Convergenza e il revival del colonialismo occidentale

di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)

Schermata del 2023 07 05 18 55 391. Dal “guevarismo” alla riabilitazione del colonialismo

In un libro del 1931, Der Mensch und die Technik, un Oswald Spen­gler impegnato a combattere la Repubblica di Weimar ma soprattutto a impedire che la sua crisi avesse un esito rivoluzionario, e dunque inten­zionato a delegittimare i comunisti che intendevano riproporre l’espe­rienza bolscevica in Germania, notava che «anche i popoli “sfruttati” all'interno dei paesi europei e degli Stati Uniti», in spregio alla retorica internazionalista dei partiti marxisti (compresa la SPD), hanno in realtà a loro volta «beneficiato dello sfruttamento internazionale». Anche le classi subalterne, anche gli operai che lamentano rumorosamente la sot­tomissione del regime di fabbrica e l’estrazione di plusvalore, a guardar bene, hanno goduto e godono di un «lussuoso tenore di vita», se con­frontato con quello dei popoli extraeuropei. E questo in virtù dell’«alto salario dell'operaio bianco», un salario di lusso che «si basa esclusiva­mente sul monopolio fondato dai capitani d'industria» e dunque sulla compartecipazione ai sovraprofitti coloniali1 .

Si trattava certamente di un espediente retorico, volto a contrapporre alla versione marxista del socialismo quella versione “nazionale”, già esposta in Preupentum und Sozialismus (1919)2, che postulava un inte­resse comune e una comune responsabilità tra l’operaio e l’imprenditore, entrambi al servizio della comunità. Nelle sue parole c’era tuttavia qual­cosa di vero, dato che a suo tempo anche Lenin aveva inquadrato questo fenomeno e aveva dovuto mettere in guardia dal socialsciovinismo della socialdemocrazia, la quale con Bernstein e altri suoi esponenti aveva pen­sato già diversi anni prima di risolvere la questione sociale tramite l’espansione coloniale3.

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italiaeilmondo

Guerra russo-ucraina: l’insurrezione di Wagner

La corsa selvaggia di Yevgeny Prigozhin

di Big Serge

e5924ef7 3195 4933 9f4f 0e2a32865ca4 1200x800Questa analisi che traduco e pubblichiamo mi pare in assoluto la migliore e la più equilibrata tra tutte le moltissime comparse sinora sulla vicenda dell’insurrezione armata delle milizie Wagner; forse anche perché coincide con la mia, pubblicata il 25 giugno scorso*: si tenga dunque in considerazione il possibile conflitto di interessi, nel mio giudizio positivo.

L’analisi di Big Serge sfugge al pericolo principale, che in casi simili è: sovrainterpretare. Una miriade di informazioni impossibili da verificare, manipolazioni a tutto spiano, emozioni al calor bianco: è in casi come questo che la nebbia della guerra clausewitziana sale più fitta. Per farsi un’idea, invece, è necessario attenersi a quel che è possibile valutare con un minimo sindacale di attendibilità, non farsi travolgere dai pregiudizi e dalle ipotesi onnicomprensive che spiegano tutto, in breve sospendere il giudizio su tutto ciò che non suoni autentico, e tenersi pronti a cambiare idea se il contesto muta con il passare dei giorni.

L’Autore, inoltre, ha ben chiaro che “nel nostro tempo prevale un modello analitico: c’è una macchina che prende istantaneamente vita, accogliendo voci e informazioni parziali in un ambiente di estrema incertezza e risputando formule che corrispondono a presupposti ideologici. L’informazione non è valutata in modo neutrale, ma è costretta a passare attraverso un filtro cognitivo che le assegna un significato alla luce di conclusioni predeterminate.

In altre parole, la maggior parte dell’informazione e dei commenti, sia nei media ufficiali, sia nelle fonti che si vogliono “critiche” e “alternative”, corrisponde a quel che Leszek Kolakowski chiamava “la quinta operazione”. Nelle quattro operazioni aritmetiche – addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione – il risultato consegue ai fattori, e non è noto prima che l’operazione aritmetica sia eseguita.

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sbilanciamoci

Le nuove mosse di Biden contro la Cina

di Vincenzo Comito

Iniziata da Trump, la strategia anticinese americana prosegue con Biden e crescenti pressioni verso alleati europei e imprese restii a recidere i legami con il paese asiatico. Ursula von der Leyen esegue, passando però dal “decoupling” – sganciamento economico – al “derisking”

china usI risultati del decoupling di Trump

Secondo le informazioni pubblicamente disponibili, è stato a suo tempo sotto la presidenza Obama, di cui ricordiamo il suo slogan Pivot to Asia, che il governo statunitense ha cominciato a preoccuparsi fortemente per la crescita cinese e da allora i tentativi di bloccare, o almeno di frenare, l’emergere del paese asiatico sulla scena mondiale sono diventati sempre più aggressivi, mentre ancora oggi non mostrano certo segni di indebolimento.

È con Trump che apparentemente si comincia a tentare di fare sul serio; il presidente, mentre invitava, peraltro con molto scarso successo, le imprese Usa a lasciare la Cina, introduceva dazi rilevanti su una parte consistente delle merci cinesi, mentre cercava al contempo di bloccare le tecnologie Huawei e ZTE nel 5G, spingendo i paesi alleati a fare altrettanto.

Ma le sue azioni non hanno portato apparentemente a grandi risultati, come mostrano ad esempio le cifre e le valutazioni tratte da un recente articolo apparso sul South China Morning Post (Yukon Huang, 2023). Il deficit commerciale Usa – secondo le cifre avanzate dall’autore – è stato nel 2022 superiore a quello dell’anno in cui Trump si è insediato. Il peso delle importazioni cinesi sul Pil è passato dal 31% del 2017 al 34% del 2022. È vero che la quota della Cina è scesa nel periodo considerato dal 22% al 17%, ma le esportazioni complessive della Cina verso il mondo sono sempre cresciute e in particolare verso quei paesi (Vietnam, Messico, India ed altri) che hanno sostituito la Cina su alcune tipologie di merci. Nella sostanza questi paesi hanno riesportato verso gli Usa semilavorati forniti loro da Pechino. Incidentalmente molte imprese cinesi hanno aperto delle fabbriche in tali paesi, da dove esportare poi negli Stati Uniti.

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cumpanis

Turchia: la vittoria di Erdogan mette in discussione il futuro della NATO?

di Fulvio Bellini

Immagine per home articolo TURCHIA.jfif Premessa: lo strano concetto di democrazia propagandata in Italia

Il 28 maggio scorso si è svolto il ballottaggio per l’elezione del Presidente turco tra il candidato uscente Recep Tayyip Erdogan e lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. Il 14 maggio, in concomitanza del primo turno delle presidenziali, si erano svolte anche le elezioni generali per la composizione del nuovo parlamento. L’esito delle elezioni ha visto la vittoria di Erdogan che, grazie ai 27.834.692 (52,18%) consensi ricevuti, ha ottenuto il terzo mandato consecutivo. Se si sommano i gli incarichi come Primo ministro e Capo dello Stato, Erdogan si trova ai vertici del potere turco da vent’anni, avendo preso la guida del governo il 14 marzo del 2003. Se si guarda ai risultati delle elezioni parlamentari, la compagine del Presidente confermato, Partito della Giustizia e dello Sviluppo è risultato il più votato. Personalmente nutro un certo rispetto nei confronti di Radio Radicale che nasce dalla sua linea editoriale netta e trasparente, anche se non condivisibile: atlantismo senza tentennamenti, russofobia e cinofobia spinti al loro eccesso, apprezzamento dell’attuale stato di vassallaggio della UE nei confronti degli Stati Uniti, promozione dei diritti civili ma solo se disgiunti da quelli sociali ed economici, i quali vanno ignorati, liberismo senza limiti in economia, privatizzazioni di ogni servizio e di ogni risorsa. In estrema sintesi: libertà totale per la borghesia, elevazione dei suoi capricci e delle sue perversioni al rango di diritti civili. Se si sceglie Radio Radicale si sa chi si ascolta. Non è una notazione marginale, esistono radio intellettualmente disoneste, le quali condividono in gran parte la piattaforma politica radicale ma si travestono da radio di sinistra: il riferimento a Radio Popolare è puramente voluto.

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lantidiplomatico

I fattori dietro la (sorprendente) tenuta economica della Russia

di Giacomo Gabellini

720x410c50kiuhnsaL’offensiva militare, economica, finanziaria e commerciale scatenata dal cosiddetto “Occidente collettivo” contro la Federazione Russa nasce da una palese sottovalutazione «della coesione sociale della Russia, del suo potenziale militare latente e della sua relativa immunità alle sanzioni economiche». L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea, in particolare, si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo.

I dati indicano che, alla fine del febbraio 2022, la Russia registrava un debito pubblico corrispondente ad appena il 12,5% del Pil, una posizione finanziaria netta fortemente positiva e riserve auree pari a circa 2.300 tonnellate. L’oro riveste una rilevanza particolare, trattandosi del tradizionale “bene rifugio” che tende sistematicamente a rivalutarsi proprio in presenza di congiunture critiche come quella delineatasi per effetto dell’attacco all’Ucraina. Stesso discorso vale per tutte le commodity di cui la Russia è produttrice di primissimo piano, dal petrolio al gas, dall’alluminio al cobalto, dal rame al nichel, dal palladio al titanio, dal ferro all’acciaio, dal platino ai cereali, dal legname all’uranio, dal carbone all’argento, dai mangimi ai fertilizzanti.

L’incremento combinato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti raffinati i cui mercati risultano fortemente presidiati dalla Federazione Russa – la cui posizione si è ulteriormente rafforzata con l’incorporazione dei giacimenti di carbone, ferro, titanio, manganese, mercurio, nichel, cobalto, uranio, terre rare di vario genere e idrocarburi non convenzionali presenti nei territori delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k – ha per un verso penalizzato enormemente la categoria dei Paesi importatori netti, in cui rientra gran parte dell’“Occidente collettivo”.