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La nuova negazione dell'imperialismo della sinistra occidentale
di John Bellamy Foster
Il Dipartimento Formazione di Resistenza Popolare segnala come contributo al dibattito la traduzione in italiano di questo corposo saggio di John Bellamy Foster, pubblicato il 1° novembre 2024 sul sito della Monthly Review con il titolo The New Denial of Imperialism on the Left (sul cartaceo è uscito sul n° 6 del volume 76).
Si segnala che, per ragioni organizzative non è stato tradotto il ricco impianto di note (ben 116) che correda il testo dandogli un impianto scientifico.
Il valore del lavoro di Bellamy Foster consiste a nostro avviso in tre aspetti fondamentali:
1. offrire un resoconto molto dettagliato di come sia evoluta nell’ambito del marxismo eterodosso occidentale la teoria dell’imperialismo; si tratta di temi su cui c’è scarsissima cognizione in Italia, dove negli ambienti della sinistra occidentale il trionfo del totalitarismo “liberale” ha portato a dimenticare perfino gli aspetti fondamentali della stessa analisi leninista. A quanto ci dice Bellamy Foster stesso, non manca comunque anche tra molti “intellettuali” una certa diffusa ignoranza di fondo di tali fondamentali teorici.
2. Bellamy Foster prende posizione a favore di quegli intellettuali, come Samir Amin, che hanno ribadito l’attualità del paradigma imperialista in connessione con il persistente fenomeno definito “neocolonialismo” dagli studiosi liberali, ricordando meritoriamente il filo rosso che lega queste analisi con il marxismo e il leninismo. Oltre a ribadire i meriti storici del movimento comunista internazionale, che è stato il pilastro della lotta antimperialista dell’ultimo secolo, viene giustamente riaffermata l’attualità della questione antimperialista correttamente intesa.
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Trump e Gaza: la rottamazione di un popolo
di Roberto Iannuzzi
I palestinesi non se ne andranno da Gaza. Se rifiuteranno questa realtà, Israele e gli USA finiranno per portare a compimento l’orrendo crimine del genocidio di un popolo
Il presidente americano Donald Trump ha nuovamente spiazzato alleati e oppositori allorché, durante la conferenza stampa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso 4 febbraio, ha dichiarato che gli USA avrebbero “preso possesso” di Gaza per trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”.
Senza spiegare sulla base di quale autorità, il presidente ha detto che, dopo aver reinsediato altrove i palestinesi, avrebbe trasformato la piccola enclave sul Mediterraneo in un luogo dove avrebbe vissuto “la gente del mondo”, incluso eventualmente qualche palestinese.
Sebbene non vi siano stati incontri in seno all’amministrazione per definire la proposta, Trump l’ha ribadita più volte nei giorni successivi, spiegando che gli USA non avrebbero schierato soldati sul terreno perché Gaza sarebbe stata loro “consegnata” da Israele “alla fine del conflitto”.
Egli ha anche chiarito che non ci sarebbe stato alcun diritto al ritorno per i palestinesi al termine dell’operazione, smentendo coloro che avevano parlato di una ridislocazione “solo temporanea” della popolazione di Gaza.
Il presidente ha citato Egitto e Giordania fra i paesi che avrebbero potuto accogliere i palestinesi, mentre ha accennato alla possibilità che siano le monarchie del Golfo a pagare il costo della ricostruzione della Striscia.
Trump ha definito Gaza come un luogo ormai invivibile, una terra di morte e distruzione, “un sito di demolizione” dove la vita è impossibile, senza tuttavia dire come ciò sia accaduto, e concludendo che i palestinesi preferirebbero vivere altrove se solo potessero, senza però averli interpellati.
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La rivolta del ghetto di Gaza
di Adi Callai
ANDANDO AL CENTRO DELLA QUESTIONE: Gaza è stata una zona di uccisioni libere e un “campo di concentramento” (per citare il direttore della sicurezza nazionale israeliano Giora Eiland nel 2004), ben prima del 7 ottobre.
Alla luce di ciò, la posizione più radicale deriva direttamente dalla domanda più semplice: i palestinesi sono esseri umani? Se la tua risposta è enfaticamente sì, inequivocabilmente e senza riserve, allora sei una causa persa per il sionismo. Perché se i palestinesi sono esseri umani, allora la loro autodifesa è legittima e la difesa della loro continua esistenza è necessaria.
Gaza, questa scatola nera, questo recinto per i rifugiati della pulizia etnica della Palestina del 1948: possiamo pensare alla sua gente come pensiamo a noi stessi, immaginando di essere rinchiusi, imprigionati, in un piccolo tratto di terra per sempre, senza alcun motivo se non quello di essere nati in una specifica etnia? Un posto che è stato tagliato fuori dal mondo a vari livelli dal 1948. E un posto che almeno dal 2003 ha sperimentato molteplici e devastanti operazioni militari su larga scala. I cittadini di Gaza erano sopravvissuti a dodici di queste dal 2003, con un bilancio delle vittime di oltre 8.000 persone, prima del 7 ottobre. Da allora, quel numero è cresciuto di oltre 34.000. E ogni minuto c'è un nuovo aggiornamento di più morti a Gaza per il fuoco israeliano, ma ora anche per fame. Niente carburante, niente cibo, niente acqua, niente medicine. Qualunque cosa stia arrivando è come “una goccia nel mare”, per citare i funzionari delle Nazioni Unite, in un luogo che questi funzionari avevano già previsto, nel 2018, sarebbe presto diventato “invivibile”, inadatto alla vita umana, un luogo che stava vivendo quello che Ilan Pappé aveva definito “un genocidio incrementale” già nel 2006.
Questo è il contesto che dobbiamo tenere a mente quando pensiamo all'attacco del 7 ottobre. E poi dobbiamo chiederci, cosa faremmo in quella situazione? Acconsentire e morire? O combattere?
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La guerra imperialista dei dazi
di Fosco Giannini
Il protezionismo come prassi storica del capitalismo e base materiale del neoprotezionismo di Trump. La consustanzialità dell’isolazionismo alla guerra imperialista e all’odierna spinta bellica degli Usa. La necessità delle lotte dei comunisti e dei popoli per la liberazione dal giogo imperialista e della Nato.
Non saranno forse, “i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo”, ma certo la quindicina di giorni che ha separato la seconda investitura di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio 2025) dalla firma, da parte dello stesso presidente Usa (4 febbraio 2025), dell’ordine esecutivo per l’avvio della guerra doganale, ha già scatenato una scossa tellurica, sul terreno economico-finanziario internazionale, di almeno 9 gradi della scala Mercalli.
Il neoprotezionismo “trumpiano” inizia ufficializzando nuove tariffe doganali del 25% contro Messico e Canada e del 10% contro la Cina, che si assommerebbero, se praticate, a quelle già in atto contro il gigante guidato dal partito comunista cinese. Inoltre, “per proteggere gli Usa” anticipatamente da ogni ritorsione, il provvedimento firmato da Trump prevede “una clausola di ritorsione” in grado di far innalzare le stesse barriere doganali contro i Paesi già colpiti, qualora essi rispondessero con uguali misure protezionistiche.
Consapevole dell’atto di guerra economico-finanziario proclamato e della sua gravità oggettiva, Trump ha inoltre ratificato, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act, “lo stato di emergenza nazionale”, che gli consentirebbe di disporre di ampi poteri per affrontare le eventuali e molto probabili crisi e contraddizioni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.
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Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”
di Kit Klaremberg*
Tra la raffica di ordini esecutivi emessi dal presidente Donald Trump nei primi giorni della sua amministrazione, forse il più importante fino a oggi è quello intitolato “rivalutare e riallineare l’assistenza estera degli Stati Uniti”.
In base a quest’ordine è stata immediatamente imposta una pausa di 90 giorni a tutta l’assistenza allo sviluppo all’estero degli Stati Uniti in tutto il mondo, a eccezione, naturalmente, dei maggiori beneficiari degli aiuti statunitensi in Israele ed Egitto. Per ora, l’ordine vieta l’erogazione di fondi federali a qualsiasi “organizzazione non governativa, organizzazione internazionale e appaltatore” incaricato di attuare i programmi di “aiuto” degli Stati Uniti all’estero.
Nel giro di pochi giorni centinaia di “appaltatori interni” dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) sono stati messi in congedo non retribuito o licenziati a titolo definitivo come risultato diretto dell’ordine esecutivo.
Il collaboratore del Washington Post John Hudson ha riferito i funzionari dell’organizzazione definiscono le direttive di Trump sull’”assistenza allo sviluppo estero” un “approccio shock-and-awe”, che li ha lasciati barcollanti, incerti sul loro futuro.
Un membro anonimo dell’USAID gli ha detto che “hanno persino rimosso tutte le fotografie dei programmi di aiuto nei nostri uffici”, come attestano le fotografie che accompagnano l’ordine.
Mentre l’epurazione dell’amministrazione Trump ha provocato onde d’urto tra il corpo di sviluppo internazionale di Washington e i banditi di Washington che si nutrono delle sue reti, l’improvviso taglio dei fondi dell’USAID ha scatenato il panico all’estero.
Dall’America Latina all’Europa dell’Est, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari nelle ONG e nei media per spingere per le rivoluzioni colorate e varie operazioni di cambio di regime, il tutto in nome della “promozione della democrazia”.
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Ricerca Profonda. La rivincita dell’Open Source
di Francesco Cappello
DeepSeek è un modello di intelligenza artificiale cinese che sta sfidando con successo i colossi tecnologici americani e che rischia di bucare la bolla dell’HiTech statunitense gonfiata a dismisura dalle big three, i grandi fondi di investimento USA. Possibili vendite allo scoperto da parte di grandi player finanziari.
Il modello di IA cinese gratuito e Open Source ha raggiunto prestazioni elevate in tempi brevi e con un budget limitato, scuotendo il panorama dell’IA a livello globale
Tanto con poco
DeepSeek è stato sviluppato da un team cinese [1] con un investimento di soli 5 milioni di dollari, un importo notevolmente inferiore rispetto ai miliardi spesi da aziende come Open AI, Google e Meta. Nonostante ciò, DeepSeek ha superato modelli come GPT-4 di OpenAI e Claude 3.5 Sonnet di Antropic, specialmente in matematica e coding (in particolare, DeepSeek V3 ha raggiunto un’accuratezza del 51.6% in matematica e coding, rispetto al 23.6% di GPT-4o e il 20.3% di Claude 3.5).
Questo è stato possibile grazie a un’architettura chiamata mixture of experts – che riduce i costi computazionali – e ad altre tecniche innovative di addestramento, come il dual pipe and computation communication overlap (l’utilizzo di floating point 8 anziché 32 e la previsione di due token successivi invece di uno. Inoltre, DeepSeek è stato addestrato con sole 2000 schede video H800, mentre altri modelli hanno richiesto oltre 100.000 schede).
La rivincita dell’Open Source. Comunità cooperanti
Un aspetto fondamentale di DeepSeek è la sua natura open source (OS), che permette a chiunque di studiare, utilizzare e migliorare il modello. Questo approccio che è utile approfondire qui di seguito, si contrappone alla strategia delle grandi aziende tecnologiche che custodiscono gelosamente le loro tecnologie. La disponibilità del codice sorgente di DeepSeek sta abbassando le barriere all’innovazione e spostando il potere dai giganti dell’IA a una comunità globale di sviluppatori.
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La sopravvivenza strategica di Hamas fa impazzire Israele
di The Cradle
Sfruttando la sua forza istituzionale, l’adattabilità sul campo e le tattiche psicologiche, Hamas ha magistralmente trasformato la distruzione di Gaza in una dimostrazione di Resilienza, ottenendo avanzamenti sia simbolici che tattici e impedendo a Israele di rivendicare una qualsiasi vittoria politica
23 gennaio 2025. Il rilascio di tre donne prigioniere israeliane a Gaza da parte dell’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, in cambio di 90 detenuti palestinesi, ha innescato una frenesia mediatica nello Stato di Occupazione.
La “scena” drammatica, combattenti che spuntano tra le rovine della guerra, circondati da una folla esultante, ha minato le narrazioni ufficiali israeliane sulla guerra, i suoi obiettivi e il trattamento dei prigionieri israeliani. Ha sollevato una domanda che fa riflettere gli israeliani: cosa stavamo facendo a Gaza per 15 mesi?
Le Brigate Qassam hanno organizzato ogni dettaglio dell’evento per massimizzare l’impatto. Dalle borse regalo griffate alle uniformi lucide dei combattenti, l’esibizione trasudava una precisione calcolata. Si è persino tenuta una sfilata militare in Piazza Saraya, un’area fortemente assediata dalle Forze di Occupazione Israeliane. La scelta del sito è stata voluta, a dimostrazione della continua Resilienza in un luogo destinato a simboleggiare la sconfitta di Tel Aviv nella sua più lunga campagna militare di sempre.
Fonti di Hamas informano che la scelta della città di Gaza, posizionata a Nord della Valle di Gaza e del Corridoio Netzarim, un corridoio di separazione creata dall’esercito israeliano per dividere in due la Striscia, che presto si prevedeva sarebbe stato smantellato, è stata una decisione voluta e simbolica, scelta rispetto ad altre alternative per le sue implicazioni strategiche e politiche.
Naturalmente, Hamas aveva la possibilità di rilasciare le detenute in luoghi “più sicuri”, come il centro o il Sud di Gaza, ma ha scelto intenzionalmente la piazza.
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Sovranità vs imperialismo: ecco perché le élite demonizzano la libertà dei popoli
di OttolinaTV
Tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese in poi, può anche essere letta come storia del conflitto tra nazioni e imperi, tra comunità nazionali che hanno lottato e lottano per la propria sovranità e imperi aggressivi e coloniali che cercano di assoggettare altri popoli e nazioni per sottometterli e asservirli ai propri interessi, che si tratti interessi di egemonia e potere o meri interessi economici; in questo periodo di transizione a un nuovo ordine multipolare, in cui la sovranità e l’autodeterminazione nazionale diventeranno veramente il principio fondante del nuovo equilibrio mondiale, popoli coraggiosi hanno cominciato finalmente ad alzare la testa e le armi contro i propri aggressori e contro l’ordine mondiale costituito, un ordine dove il privilegio della vera sovranità e libertà era ed è riservato a pochissime nazioni del mondo che, per il loro atteggiamento, sarebbe più corretto chiamare veri e propri imperi, le quali, con la guerra armata o anche solo quella economica, non accettano che questo privilegio diventi diritto globale e condiviso. E anche per il nostro Paese e per il nostro continente, ormai da 80 anni militarmente occupato a causa di una guerra persa, la questione della sovranità e dell’indipendenza diventa sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, una questione di vita o di morte perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti un’agenda dettata dai nostri interessi e che le nostre classi dirigenti collaborazioniste, sia politiche che economiche e a Palazzo Chigi e come a Bruxelles, sono accuratamente selezionate a monte e supportate dai media dominanti sulla base della loro mediocrità e servilismo nei confronti dell’impero atlantico.
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Ancora sull'Africa. Walter Rodney
di Carlo Formenti
I tre articoli sul marxismo africano che ho recentemente pubblicato su queste pagine, dedicati rispettivamente ad Amilcar Cabral, Said Bouamama, e Kevin Okoth (di cui è appena uscito il libro Red Africa che ho tradotto per Meltemi), hanno suscitato una certa attenzione (non solo in Italia: gli amici della rivista El Viejo Topo li stanno traducendo in spagnolo). Mi ha scritto, fra gli altri, Andrea Ughetto segnalandomi i “Ritratti” (usciti su Machina) che ha destinato ad altre due grandi figure di leader rivoluzionari neri: Thomas Sankara e Walter Rodney. Mi ha così ricordato che Rodney è pluricitato nel libro di Okoth e che quei pur brevi estratti mi avevano interessato, per cui mi sono procurato e ho letto a stretto giro due suoi lavori: The Russian Revolution. A View from the Third World e Decolonial Marxism. Essays from the Pan-African Revolution. Prima di approfondire gli stimoli che ne ho ricavato, è il caso di ricordare che Rodney, originario della Guyana, è stato un vero e proprio nomade della rivoluzione nera. Divenuto un punto di riferimento dei movimenti radicali in Jamaica, ne venne espulso (e il suo allontanamento provocò una vera e propria insurrezione). Trasferitosi in Africa, insegnò all’università di Dar Es Salaam, dove studiò il progetto di transizione al socialismo della Tanzania di Nyerere. Rientrato infine in Guyana, si impegnò a organizzare le lotte dei lavoratori del suo Paese natale, finché fu fatto assassinare (aveva trentotto anni) dai servizi del governo fantoccio al servizio dell’imperialismo occidentale, andando ad aggiungersi al lungo elenco di leader neri uccisi in Africa, Stati Uniti e Centro America.
I. La rivoluzione Russa vista dall’Africa
Perché rivendicare uno sguardo africano sulla storia della Rivoluzione Russa? Per rispondere, Rodney parte dalle menzogne che gli intellettuali occidentali hanno sfornato nelle “analisi” storiche, antropologiche, economiche, politiche e sociali che hanno dedicato a tutte le fasi – pre-coloniale, coloniale e post coloniale – della storia africana.
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Arretra l’Occidente e Israele subisce dopo 77 anni la prima dura sconfitta dalla Resistenza palestinese
di Algamica*
Abbiamo aspettato una manciata di giorni per non farci trascinare dall’euforia e tirare un filo a piombo sui fatti eccezionali che si sono realizzati in Palestina. L’uscita dalla crisi di Israele e dell’Occidente nel dominare il Medio Oriente richiederebbe la soluzione finale della questione palestinese attraverso la distruzione totale di Gaza come elemento storico necessario oggi come lo fu per il liberismo la distruzione di Dresda nel 1945 a Germania già sconfitta, la deportazione totale dei palestinesi e l’eliminazione di Hamas come condizione sine qua non a definire la vittoria di Israele e di riflesso di rilanciare il peso dell’Occidente. Nonostante un genocidio il popolo palestinese non si ritiene sconfitto e lo Stato di Israele, e indirettamente gli Stati Uniti, è stato costretto a trattare con la Resistenza palestinese rappresentata da Hamas. Pertanto tutti quelli che suonavano le campane a morte e consigliavano ai palestinesi di arrendersi sono chiamati a rivedere il proprio orientamento teorico e politico: quello che si profila è una prima sconfitta storica dello Stato di Israele in 77 anni dalla sua fondazione da parte della Resistenza palestinese.
In questi giorni abbiamo seguito in uno stato di fibrillazione il susseguirsi dei colpi di scena intorno al decisivo conflitto in Medio Oriente e in Palestina, che vede da una parte l’Occidente schierato a sostegno del genocidio del popolo palestinese da parte di Israele e la tenacia delle forze della resistenza del popolo palestinese e di Hamas che incarnano le necessità e la forza della disperazione di un popolo oppresso e martoriato.
L’annuncio da parte dei mediatori degli Stati del Golfo e poi anche da parte degli Stati Uniti sul raggiungimento dell’accordo per il “cessate il fuoco” tra Israele e Hamas, dunque dell’inizio della tregua dell’assedio di Gaza e dei massacri indiscriminati contro le masse della Striscia, aveva colto il mondo di sorpresa. Anche se il governo israeliano non si era ancora espresso ufficialmente, a Gaza la gente in massa ha immediatamente celebrato la notizia.
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I killer psicotici di Israele, senza veli
di Redazione Contropiano - Yoel Elizur*
Questo articolo che vi proponiamo è apparso sul quotidiano Haaretz. Non è scritto da un giornalista, ma da uno psicologo.
Vi potrete trovare diversi piani di lettura, spesso non condivisibili. Un non israeliano, in effetti, non può provare nessuna empatia, neanche minima, con i soldati intervistati a scopo terapeutico o analitico. Neanche con quelli che lo psicologo Yoel Elizur classifica come “incorruttibili”, che si sono in qualche misura opposti ai commilitoni più brutali.
E’ chiaro infatti che tutta la ricerca è stata costruita all’interno dell’universo identitario israeliano, e che dunque distanze e vicinanze, estraneità totale o “comprensione”, ribrezzo o compassione dipendono dal sentirsi parte di un’umanità senza altre specificazioni oppure di un “popolo e una fede” intrisi di suprematismo (foss’anche solo culturale).
Le due frasi “illuminanti” sull’atteggiamento e le pratiche dei soldati a Gaza (e in Libano) sono state pronunciate non per caso da due elementi agli estremi opposti nel ventaglio dei “casi”.
a) “È come una droga… ti senti come se fossi tu la legge, sei tu a dettare le regole. Come se dal momento in cui lasci il luogo chiamato Israele ed entri nella Striscia di Gaza, tu fossi Dio”. Non si potrebbe essere più chiari. Una volta usciti dall’universo dei rapporti tra simili, dalle regole e dai valori condivisi con i correligionari, non esiste alcun limite verso “gli infedeli”. Si può fare qualsiasi cosa ai palestinesi, come ragazzini che giocano con le formiche o le lucertole.
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Yemen: scoperta una massiccia rete di spionaggio della CIA e del Mossad interna alle ONG pro Occidente
di Enrico Vigna
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Mentre lo Yemen evoca quotidianamente immagini di conflitti con Israele e la coalizione guidata dai sauditi, è emersa una nuova dimensione per questo paese e il suo popolo: la guerra segreta delle spie al suo interno. MintPress ha esaminato i documenti sulla più grande cellula di spionaggio della CIA mai scoperta nello Yemen, rivelando una grande operazione di sicurezza, che ha intercettato i suoi membri e ha esposto le attività di spionaggio statunitense, ampliando notevolmente la nostra comprensione del complesso campo di battaglia in Yemen.
* * * *
A giugno, MintPress aveva rivelato come il governo guidato da Ansar Allah di Sanaa avesse smantellato una cellula di spionaggio, la Forza 400, prevedibilmente operativa per Stati Uniti e Israele, descrivendo in dettaglio i membri della cellula e le loro attività. Washington ha risposto chiedendo il rilascio degli arrestati che sosteneva fossero dipendenti delle Nazioni Unite, di organismi diplomatici e ONG, etichettandoli come ostaggi detenuti dagli Houthi, un termine dispregiativo spesso usato dai funzionari occidentali per descrivere il movimento politico e militare noto come Ansar Allah.
Il corrispondente di MintPress News, Ahmed AbdulKareem ha ottenuto un accesso senza precedenti ai documenti relativi alla vicenda delle presunte spie. Inoltre, una notevole quantità di documenti top-secret è stata fornita a MintPress, che confermavano le dichiarazioni rilasciate dai detenuti durante gli interrogatori. Sono state anche fornite ed esaminate anche ore di riprese che mostrano gli interrogatori condotti dal personale di sicurezza yemenita di Ansar Allah, che hanno confermato i dettagli delle accuse contro i detenuti.
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Venezuela, il calendario dei popoli e l'agenda di chi li opprime
di Geraldina Colotti
C’è un calendario dei popoli e uno di chi li opprime, compilato in base agli interessi inconciliabili che muovono la lotta di classe, e confusi solo nei paesi in chi la borghesia ha vinto la partita nel secolo scorso, riuscendo a imporre la “verità” dei vincitori: “Per ora”, come disse il comandante Chávez consegnando con quella frase una promessa. Che quella promessa si sia compiuta con la rivoluzione bolivariana, e che questa continui a incamminarsi verso una transizione al socialismo vantando un anno in più di resistenza, è una forte spina nel fianco di un capitalismo in crisi sistemica, che sta portando il mondo alla catastrofe.
Per imporre la strategia del “caos controllato” anche in America latina – un continente ancora esente da un conflitto armato e che, il 28 e 29 gennaio del 2014, un vertice della Celac ha dichiarato “zona di pace” – l’imperialismo a guida Nato deve strapparsi a ogni costo quella spina dal fianco: sommergendola sotto un manto di menzogne, per preparare un attacco in più grande stile dagli esiti incerti.
Se, infatti, il primo governo di Donald Trump ha inasprito e moltiplicato il sistema di misure coercitive unilaterali illegali messo in moto con il decreto Obama (che definì il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”), il secondo, che inizierà formalmente il 20 gennaio, non si annuncia di segno diverso. Dopo aver vinto le elezioni, il 5 novembre, il tycoon ha infatti annunciato che a far parte del suo staff saranno alcuni dei rappresentanti più incarogniti nel perseguire i governi socialisti dell'America latina, come Marco Rubio ed Elon Musk. E come il cubano-statunitense, Mauricio Claver-Carone, ex presidente del Bid e da sempre all'attacco di Cuba e del Venezuela, ora inviato speciale del Dipartimento di Stato per l'America latina.
A Rubio, senatore della Florida, noto per le posizioni da falco contro la Cina, contro Cuba (da cui è scappata la sua famiglia), contro il Venezuela e il Nicaragua, toccherà il ruolo di Segretario di Stato. Per aver mobilitato a favore di Trump il voto dei “latinos”, sarà il primo capo della diplomazia di origine ispanica.
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La sinistra occidentale e la nuova negazione dell’imperialismo
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster torna alle pietre miliari del pensiero marxista antimperialista – presenti nelle opere di V. I. Lenin, Samir Amin e altri – per affrontare la crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra. Questa visione del mondo e le sue conseguenze, scrive Foster, ha implicazioni preoccupanti non solo per i lavoratori supersfruttati delle periferie, ma per tutti i lavoratori del mondo e per il carattere internazionalista del marxismo contemporaneo
È dall’inizio della Prima Guerra mondiale – durante la quale quasi tutti i partiti socialdemocratici europei parteciparono alla guerra interimperialista a fianco dei rispettivi Stati nazionali – e dalla dissoluzione della Seconda Internazionale, che la divisione sulla questione dell’imperialismo non assumeva, a sinistra, dimensioni così serie, manifestandosi come un segno della profondità della crisi strutturale del capitale nel nostro tempo.[1] Sebbene le sezioni più eurocentriche del marxismo occidentale abbiano cercato a lungo, in vari modi, di attenuare la teoria dell’imperialismo, l’opera classica di V. I. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo (scritta nel gennaio-giugno 1916), ha mantenuto per oltre un secolo la sua posizione centrale all’interno di tutte le discussioni sull’imperialismo, non solo per la sua accuratezza nel rendere conto della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per la sua utilità nello spiegare l’ordine imperiale del secondo dopoguerra.[2] Tuttavia, lungi dall’essere isolata, l’analisi complessiva di Lenin è stata integrata e aggiornata in vari momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello scambio ineguale, dalla teoria dei sistemi-mondo e dall’analisi della catena del valore globale, tenendo conto dei nuovi sviluppi storici. In tutto questo, la teoria marxista dell’imperialismo ha mantenuto un’unità di base che ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali.
Oggi, tuttavia, questa teoria marxista dell’imperialismo viene comunemente rifiutata in gran parte, se non nella sua interezza, da sedicenti socialisti occidentali con baricentro eurocentrico. Di conseguenza, il divario tra la visione dell’imperialismo della sinistra occidentale e quella dei movimenti rivoluzionari del Sud globale è più ampio che in qualsiasi altro momento del secolo scorso. Le basi storiche di questa frattura risiedono nel declino dell’egemonia statunitense e nel relativo indebolimento dell’intero ordine imperialista mondiale, incentrato sulla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, di fronte all’ascesa economica delle ex colonie e semicolonie del Sud globale. Il tramonto dell’egemonia statunitense, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, è stato accompagnato dal tentativo degli Stati Uniti/NATO, di creare un ordine mondiale unipolare dominato da Washington.
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Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico
di Alessandro Visalli
Il politico conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole Royal Society il 23 aprile 1961 pronunciò queste parole:
“La vita ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente”.[1]
Queste parole, che articolano in modo sintetico e mirabile, il ‘razzismo popolare’ così diffuso in Inghilterra è al fondamento del “nazionalismo imperiale” che connette in un unico inestricabile insieme idee sulla razza, senso di appartenenza ed ambizione di dominio. Si tratta di quello che l’autrice chiama “imperialismo liberale”, o che Tony Blair chiamò “Nuovo imperialismo liberale”, per giustificare nel 2003 la guerra in Iraq. Quella unione indissolubile, nutrita di ‘bipensiero’ alla Orwell, di ‘totalità disumana’ e ‘promessa di riforme’ che caratterizza l’universalismo liberale nella sua stessa costituzione.
Confrontarsi con questa storia di pratiche e idee, è oggi particolarmente importante, quando la mai scomparsa postura di legittimazione del diritto (ed il fardello) di portare al mondo l’emancipazione e la ‘libertà’ riprende il suo posto centrale alla vigilia della nuova Grande Guerra che si prepara e, per intanto, nelle “guerre locali” che proliferano.
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