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cumpanis

Unione europea: l’ottobre imperialista

di Fosco Giannini

Dalla rimozione del piano Musk per la pace al decreto Zelensky per la continuazione della guerra; dalla Risoluzione Ue per le armi all'Ucraina al "portafolio digitale": un itinerario per il rafforzamento del polo imperialista europeo

1663251563948 APL’informazione generale verso i popoli dell’Unione europea, verso i 450 milioni circa di cittadini e lavoratori dei 27 Paesi dell’Ue appare, oggi più che mai, oscura e incodificabile. Ma, appunto, appare, poiché in verità l’oscurità e l’incodificabilità, già ai primi tentativi di lettura razionale degli eventi, ai primi tentativi di metterli in relazione tra loro, si mostrano per ciò che sono: strumenti prescelti dalla “voce” dell’asse angloamericano ed europeo per la costruzione e l’imposizione del verbo imperialista, per la “verità” costruita in laboratorio, per un pensiero di massa che sempre più vuol essere ridotto a “batterio sintetico”.

La “vox” unica imperialista – ben più temibile, per i suoi sterminati “eserciti”, della pur orrenda Vox spagnola di Santiago Abascal, per la quale Giorgia Meloni lavora – manipola i fatti come un giocatore delle “tre campanelle”: li racconta e ce li porge o enfatizzandone i dettagli a sé favorevoli o rimuovendone quelli a sé sfavorevoli, confondendo, inoltre, la loro stessa sequenza, la loro conseguenzialità, in modo che il “batterio sintetico” del pensiero omologato non possa mai stabilire i nessi tra un fatto e l’altro. Il gioco delle “tre campanelle” è considerato dal diritto italiano una truffa e chi lo pratica un’associazione a delinquere. Nella differenza di verdetto giuridico tra una truffa perpetrata sui tavolini di una sagra del tartufo e l’orrore della costruzione scientifica di un senso comune di massa accecato sin dalla nascita, vi è tutta la verità sulla potenza del capitale.

Alla luce di questa premessa proviamo a “rileggere” i fatti accaduti in questa prima porzione di ottobre, fatti sui quali la “vox” imperialista, il fronte unico angloamericano ed europeo hanno lavorato al fine di epurare da essi elementi di pericolo per l’Impero e al fine di svuotarli di nessi e conseguenzialità. Dunque, di senso.

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comedonchisciotte.org

Una tabella di marcia per sfuggire alla morsa dell’Occidente

di Pepe Escobar

Il percorso geoeconomico di allontanamento dall'ordine neoliberale è irto di pericoli, ma le ricompense per l'instaurazione di un sistema alternativo sono tanto promettenti quanto urgenti

1440x810 cmsv2 15e57507 9744 5939 bbfe a80d9ae8c929 6622002È impossibile seguire le turbolenze geoeconomiche inerenti alle “doglie del parto” del mondo multipolare senza le intuizioni del professor Michael Hudson dell’Università del Missouri, autore del già seminale Il destino della civiltà.

Nel suo ultimo saggio, [qui tradotto su CDC] il professor Hudson approfondisce le politiche economiche e finanziarie suicide della Germania, il loro effetto sull’euro, già in caduta, e accenna ad alcune possibilità per una rapida integrazione dell’Eurasia e di tutto Sud globale per cercare di spezzare la morsa dell’Egemone.

Ne è nata una serie di scambi di e-mail, in particolare sul ruolo futuro dello yuan, riguardo al quale Hudson ha osservato:

“I Cinesi con cui ho parlato per anni e anni non si aspettavano un indebolimento del dollaro. Non stanno piangendo per il suo aumento, ma sono preoccupati per la fuga di capitali dalla Cina, poiché penso che, dopo il Congresso del Partito [che inizierà il 16 ottobre], ci sarà un giro di vite nei confronti dei fautori del libero mercato di Shanghai.” La pressione per i prossimi cambiamenti si sta accumulando da tempo. Lo spirito di riforma per il controllo del ‘libero mercato’ aveva iniziato a diffondersi già più di dieci anni fa tra gli studenti [cinesi], e molti loro sono saliti in alto nella gerarchia del Partito.”

Sulla questione chiave dell’accettazione da parte della Russia del pagamento dell’energia in rubli, Hudson ha toccato un punto raramente esaminato al di fuori della Russia: “Non vogliono essere pagati solo in rubli. È l’unica cosa di cui la Russia non ha bisogno, perché può semplicemente stamparli. Ha bisogno di rubli solo per bilanciare i pagamenti internazionali e stabilizzare il tasso di cambio, non per farlo salire.”

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lafionda

Ucraina: una tragedia annunciata

di Ennio Bordato

russia ucrainaPochi giorni fa la morte di Michail Sergeevič Gorbačev ha segnato la fine di un’era. Per molto tempo la politica estera della Russia verso l’Occidente è stata determinata dal suo approccio e dalla sua eredità, fino a quando non si è scontrata con un nuovo muro invisibile, ma del tutto reale, costruito dall’Occidente tra sé e la Russia negli ultimi 20-25 anni. Questo nuovo muro ha svelato la debolezza della politica e delle concessioni di Gorbaciov, politica applaudita calorosamente in Occidente, ma che ha condannato la Russia alla dipendenza e alla capitolazione geopolitica. Gorbaciov, infatti, credeva nella ristrutturazione delle relazioni internazionali e nella possibilità di costruire una casa comune europea. Gli sviluppi in Europa, così come l’evoluzione delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, hanno mostrato l’ingenuità di questo approccio. Il suo tentativo strategico di avvicinarsi all’Occidente attraverso concessioni unilaterali risale alla fine del 20° secolo, ma è stato respinto nel 21° secolo. La dottrina di Gorbaciov, ammesso che si possa parlare di dottrina, non ha resistito all’impatto con la realtà e alla prova del tempo.

Ciò che è accaduto dalla fine dell’Unione delle Repubbliche Socialista Sovietiche in Ucraina (e negli Stati Baltici) è il risultato di questo approccio errato. Nel dicembre del 1991 la settantennale esperienza sovietica cessava di esistere. Smentendo il referendum democratico del marzo dello stesso anno che aveva visto il 78% della popolazione esprimersi a favore del mantenimento dell’Unione, i tre presidenti delle repubbliche dell’URSS – Russia, Ucraina e Bielorussia – decidevano di “ascoltare” le voci dei consiglieri statunitensi che da tempo erano presenti nel caos della perestrojka gorbacioviana.

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codicerosso

Senza mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato sarà difficile la vittoria di Lula

di Juraima Almeida*

In questo articolo l’autrice sostiene che in questo mese che ancora manca al secondo turno la candidatura di Lula deve cambiare la strategia seguita finora: mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato, che si riassume nel tormentone di Lula ‘durante il mio governo…’

brazil elections 61206 800x445Nelle elezioni brasiliane di domenica scorsa l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva è stato il candidato più votato per la presidenza, ma gli è mancato l’1,7% dei suffragi per imporsi al primo turno sull’attuale presidente dell’ultradestra Jair Bolsonaro: l’epico duello tra i due si risolverà nel ballottaggio del 30 ottobre.

Il vantaggio di Lula su Bolsonaro è stato di quattro scarsi punti percentuali, nonostante tutti i sondaggi e le indagini prevedessero un vantaggio tra sette e dieci punti: questa è stata la prima vittoria dell’attuale mandatario. Ma la vittoria più pesante è stata riportata sia nella formazione di quello che sarà a partire dal 2023 il Congresso che nei governi provinciali.

Bolsonaro è riuscito a mantenersi in partita e continuare nella competizione per almeno altre quattro settimane: c’è stata la crescita di una base ampia e apparentemente solida che oscilla tra la destra e l’ultradestra.

Per qualsiasi analisi sul futuro bisogna partire dalla realtà, perché come segnala il direttore del Centro Latinoamericano de Análisis Estratégico, Aram Aharonian, la società brasiliana non è la stessa di 19 anni fa, quando quell’ex operaio metallurgico di Sao Bernardo do Campo e dirigente della Central Única de Trabajadores (CUT), cavalcando un’ondata di speranza, arrivò al governo (e al potere?). Il tempo passa…

Ed è assolutamente vero: molto è successo in questi ultimi due decenni e domenica le urne hanno dimostrato che i più poveri dei poveri delle periferie urbane non hanno votato -come si credeva- massicciamente per il PT e il suo candidato. Ora, anche vincendo, sarà difficile governare essendo in minoranza in Parlamento.

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sbilanciamoci

È vero che l’Europa si sta distaccando dalla Cina?

di Vincenzo Comito

Alcune grandi compagnie come Apple, Google e Amazon stanno spostando produzioni in Vietnam e India dalla Cina ma il processo di decoupling va lento e presenta spinte in senso contrario. L’Europa si allinea agli Usa ma grandi aziende tedesche continuano a investire nel paese asiatico

13712871 largeIl decoupling

Ormai la lotta per l’egemonia tra gli Stati Uniti e la Cina è la questione principale che si pone a livello economico, militare, politico, tecnologico, a livello mondiale. E’ in tale quadro che da qualche anno, e con una crescente intensità negli ultimi mesi, si discute molto della possibile separazione – o decoupling – tra l’economia cinese e quella statunitense e, almeno per alcuni versi, di quella più generale tra i paesi occidentali e il gigante asiatico. Sull’argomento c’è però un grande livello di confusione. Il testo che segue cerca di fare in qualche modo il punto su un tema certamente molto complesso da interpretare, centrando l’attenzione in particolare sul caso degli investimenti europei. 

 

Quanto appare reale la tendenza al decoupling?   

La guerra in Ucraina, il Covid e la decisione cinese di privilegiare la lotta alla malattia rispetto allo sviluppo economico hanno portato a rotture parziali delle catene di fornitura globali, in particolare in alcuni settori a partire da quello dell’auto, e a ritardi nelle consegne di merci, oltre all’intasamento dei porti e così via, nonché soprattutto ad una rinnovata volontà statunitense, peraltro già avviata ai tempi di Trump,  di contrastare a tutti i costi la crescita economica e tecnologica cinese. Bisogna ricordare anche il fatto che negli ultimi dieci anni i salari degli operai cinesi sono aumentati di tre volte, ciò che per le imprese pesa spesso molto. 

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comedonchisciotte.org

Perché la Russia vincerà comunque, nonostante i vantaggi dell’Ucraina

di Scott Ritter*

La Russia non sta più combattendo contro un esercito ucraino equipaggiato dalla NATO, ma contro un esercito della NATO presidiato da ucraini. Tuttavia, la Russia ha ancora il sopravvento nonostante la battuta d'arresto di Kharkiv

RussWin1 750x430Il 1° settembre l’esercito ucraino ha iniziato una grande offensiva contro le forze russe schierate nella regione a nord della città meridionale di Kherson. Dieci giorni dopo, gli ucraini hanno ampliato la portata e l’entità delle operazioni offensive per includere la regione intorno alla città settentrionale di Kharkov.

Mentre l’offensiva di Kherson è stata respinta dai russi, con le forze ucraine che hanno subito pesanti perdite sia in termini di uomini che di materiali, l’offensiva di Kharkov si è rivelata un grande successo, con migliaia di chilometri quadrati di territorio precedentemente occupato dalle truppe russe riportati sotto il controllo del governo ucraino.

Invece di lanciare la propria controffensiva contro gli ucraini che operavano nella regione di Kharkov, il Ministero della Difesa russo (MOD) fece un annuncio che molti trovarono scioccante: “Per raggiungere gli obiettivi dichiarati di un’operazione militare speciale per liberare il Donbass“, hanno annunciato i russi via Telegram, “è stato deciso di raggruppare le truppe russe… per aumentare gli sforzi in direzione di Donetsk“.

Sminuendo l’idea di una ritirata, il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che “a tal fine, entro tre giorni, è stata condotta un’operazione per limitare e organizzare il trasferimento delle truppe [russe] nel territorio della Repubblica Popolare di Donetsk”.

Durante questa operazione“, si legge nel rapporto, “sono state effettuate diverse operazioni diversive e dimostrative, indicando le reali azioni delle truppe” che, hanno dichiarato i russi, hanno portato alla “eliminazione di oltre duemila combattenti ucraini e stranieri, nonché di più di cento unità di veicoli blindati e artiglieria“.

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perunsocialismodelXXI

La prigione più grande del mondo

di Carlo Formenti

Carcere la storia dello sviluppo dei penitenziari nella realta italianaL'editore Fazi pubblica un libro che fin dal titolo – La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati - lascia intuire l’opinione dell’autore in merito alla politica israeliana nei confronti del popolo palestinese. Ove non bastasse il titolo la dedica dissipa ogni dubbio: “Ai bambini palestinesi, uccisi, feriti e traumatizzati dal vivere nella più grande prigione del mondo”. Opera di un intellettuale comunista pregiudizialmente ostile nei confronti di Israele, di un esponente della destra antisemita, di un simpatizzante di Hamas o di un pacifista “a senso unico”? No, a firmare il libro è Ilan Pappé, autorevole storico israeliano (docente all’Università di Exeter, in Inghilterra) già autore di diversi bestseller fra i quali Palestina e Israele: che fare? ( con Noam Chomsky).

Pappé è una mosca rara in un Paese dove le uniche forze che denunciano la politica israeliana nei Territori Occupati come ingiusta, crudele, per non dire criminale, sono il piccolo Partito Comunista, qualche minuscolo movimento anti sionista e quella esigua minoranza di intellettuali “illuminati” di cui lo stesso Pappé è un esponente. Tuttavia il suo lavoro non è una perorazione ideologica né una predica morale (o peggio moralistica), bensì una rigorosa esposizione di fatti storici corredata da un’ampia documentazione (verbali di riunioni di governo, memorie dei protagonisti, cronache nazionali e internazionali, sentenze di tribunali militari e civili, testi di legge, decreti, regolamenti emanati dalle autorità di occupazione, dichiarazioni di leader di partito, ecc.). Una mole di materiali talmente ingente che chi non abbia seguito con particolare attenzione gli eventi del conflitto palestinese dalla Guerra dei sei giorni (1967) a oggi rischia di perdercisi dentro (parlando di attenzione, non mi riferisco tanto all'attività militante dei movimenti filo palestinesi quanto a un costante impegno di documentazione sulla realtà dei fatti).

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la citta futura

America latina, la “nuova onda” progressista e il socialismo bolivariano

di Geraldina Colotti

Dopo l’attacco ai germogli di rivoluzione sbocciati 20 anni fa in America Latina a seguito dell’affermazione di Hugo Chavez in Venezuela, si assiste a una seconda ondata progressista. Ma sussistono differenze importanti fra le due ondate e differenziazioni strategiche fra le esperienze rivoluzionarie di Venezuela e Cuba e l’approccio moderato di altre forze progressiste, come quella del Pt di Lula in Brasile

db3c3c41db567cb432ab683bb772b5e2 XLUna seconda ondata progressista per l’America Latina? E su quali basi, forze, contenuti, nemici e alleati? La vittoria di Gustavo Petro, in Colombia, ha riacceso il dibattito: con qualche riflesso persino nell’isteria bovina che anima il nostro Stivale, avviato al voto anticipato. Nel pollaio politico in cui si beccano galletti e galline, si ripresenta infatti puntuale il presunto spauracchio Venezuela, simbolo di un socialismo come quintessenza di tutti i mali, fallito in ogni sua forma.

Che il “socialismo bolivariano” sia stato e sia lo stimolo per la tenuta o la ripresa dei processi di cambiamento in America latina, è dimostrato dai fatti. Il primo fatto, più testardo di tutti, è che, in Venezuela, ci sono governi che si richiamano al socialismo da quasi 24 anni: ossia da quando, il 6 dicembre del 1998, l’ex tenente colonnello Hugo Chávez Frias vinse alla grande le presidenziali, alla guida di una coalizione composta da nazionalisti progressisti, da partiti di centro-sinistra o di estrema sinistra e da ex guerriglieri che avevano combattuto con le armi le “democrazie camuffate” della IV Repubblica.

La prima “muta” di quel blocco sociale “plebeo”, deciso a portare la sfida di una nuova egemonia, coniugando 500 anni di lotta anticoloniale a una seconda indipendenza basata sui principi del socialismo (in base, però, a un modello che non fosse “né calco né copia”), avvenne dopo il golpe contro Chávez del 2002, e dopo la lunga serrata petrolifera padronale che seguì al ritorno al governo del Comandante. Gli elementi di socialismo si fecero da allora sempre più marcati. I parametri di quella svolta erano già insiti nel processo costituente, approvato dopo un’ampia discussione nel paese, nel 1999.

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maggiofil

Disertare contro il perbenismo guerrafondaio*

di Valerio Romitelli

Imperialismo americanoTra i tanti significati che può avere il termine gergale “perbenista” ce ne è uno che lo rende particolarmente d’attualità. Diciamo dunque che perbenista è chiunque creda che il mondo così com’è andrebbe bene, anzi di bene in meglio, se non ci si mettessero di mezzo dei fenomeni maligni, diabolici, che ne ostacolano il normale progresso civile e naturale.

Alla luce di questa definizione possiamo distinguere almeno due tipologie di perbenisti. C’è quella più classica del perbenista conservatore e moderato, che crede anzitutto nelle virtù civilizzatrici dello sviluppo tecnologico e delle istituzioni statali garanti della libertà; qui i fenomeni contrari al bene del progresso deriverebbero quindi dai cattivi sentimenti serpeggianti tra gli individui, quali la disonestà, la corruzione, l’ignoranza o la prepotenza autoritaria, se non totalitaria, ai quali le istituzioni democratiche o le virtù concorrenziali connesse alla libertà di mercato sarebbero chiamate a porre limiti.

Accanto a questa tradizionalissima figura di perbenista liberale, moralista, conservatore e moderato, c’è però anche quella del perbenista di sinistra, non esclusa anche la più estrema. Anche qui non manca certo la fiducia nella potenza emancipatrice del progresso tecnologico, ma la figura collettiva portatrice del bene nel mondo da questo punto di vista non è tanto lo Stato o le istituzioni pubbliche quanto il sociale. Sarebbero infatti le lotte e la cooperazione solidale messe in campo dalla “moltitudine” più generica e sfruttata dell’umanità a creare il “bene comune”; quel “bene comune” in cui si condenserebbero gli avanzamenti sia dello sviluppo tecnologico sia del riconoscimento dei diritti sociali.

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La guerra vista senza paraocchi

di Michele Franco

Intervista a Francesco Dall’Aglio, Ricercatore presso l’Istituto di Studi Storici dell’Accademia delle Scienze di Sofia (Bulgaria)

guerra senza paraocchi 720x300Sul tuo profilo Facebook stai conducendo una disamina seria e documentata delle notizie che provengono dagli eventi che, quotidianamente, si consumano nel corso della guerra in Ucraina. Leggendo i tuoi post e i commenti che esprimi si ricava l’impressione di osservare un altra realtà rispetto a quella che ci viene propinata dai dispositivi della comunicazione deviante che appestano la “pubblica opinione”. Puoi illustrarci le motivazioni e le ragioni per cui ti stai cimentando in questa attività?

Le motivazioni non hanno nulla a che fare con l’apprezzamento per la ‟operazione speciale”, come ogni tanto qualcuno mi rinfaccia. Il motivo è molto semplice: io mi occupo di storia e presto molta attenzione all’interpretazione delle fonti.

Per motivi professionali, inoltre, conoscendo sia il russo che l’ucraino (molto meno bene purtroppo) avevo la possibilità di seguire i media locali, da ben prima che scoppiasse la guerra.

Fin dall’inizio del conflitto ho notato uno scollamento pressoché assoluto tra le informazioni che al pubblico italiano, e occidentale in generale, era consentito ricevere dai mass media, e ciò che si vedeva sul campo. Tutto ciò che contrastava con i punti fermi del discorso che, per brevità e in maniera un po’ superficiale definirò ‛atlantista’, veniva omesso; le voci dissidenti etichettate come prezzolate dal Cremlino, e i media russi censurati per evitare che ‛infettassero’ l’opinione pubblica.

Ho anche notato da subito una distanza abissale tra la doppia narrazione che ci veniva fornita: una Ucraina valorosa e che bisogna dotare di armi ed equipaggiamenti perché in tempi più o meno brevi la sua resistenza consentirà di infliggere perdite talmente tanto alte alla Russia da obbligarla a ritirarsi e a chiedere la pace.

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lafionda

Le basi per una discussione sull’esperienza cinese

di Giordano Sivini

Cinapoi6tg8oSi esprime con chiarezza Alberto Bradanini in Cina. L’irresistibile ascesa (Sandro Teti, 2022): “L’ascesa prodigiosa della Cina costituisce a suo modo la plastica evidenza che esistono altre strade per uscire dal sottosviluppo rispetto agli inganni prospettati dall’Occidente, anche se con i limiti menzionati in tema di libertà e partecipazione. La metodica deformazione di tali scenari nasconde la cattiva coscienza di un impero – la cui nozione è inconciliabile con quella di democrazia – che aggredisce i paesi che non si piegano e che oggi non riesce a garantire sufficiente benessere, lavoro e coperture sociali nemmeno a casa propria, mentre la Cina (ancora oggi ben più povera in termini di reddito pro-capite) è in grado di assicurare alla sua sterminata popolazione prosperità e servizi pubblici superiori a molti paesi capitalisti (si pensi alla disoccupazione quasi inesistente)” (p. 128).

Ma, anche in tema di libertà e partecipazione, i limiti ai quali Bradanini si riferisce vanno letti comparativamente, ed è lo stesso Bradanini che fa la comparazione. In Cina il termine democrazia descrive la libertà d’espressione all’interno dei confini ideologici definiti dal Partito e la partecipazione dei cittadini alla vita del Paese sempre attraverso il Partito. In Occidente un sistema formale consente al popolo di scegliere i propri governanti all’interno di una cornice che impedisce la messa in discussione della gerarchia del potere e dei termini della distribuzione della ricchezza, e quando i governi sono inadempienti, incompetenti o corrotti, restano legittimi perché scelti dal popolo attraverso libere elezioni. In Cina i diritti economici, vale a dire l’aspirazione del popolo a fruire di condizioni di vita dignitose, hanno la prevalenza. In molti paesi dell’Occidente che sono formalmente democratici perché il governo è espressione di un voto popolare, la fame e la miseria endemiche sono considerate un dettaglio marginale che non suscita scandalo.

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labottegadelbarbieri

La guerra sporca che si combatte intorno a Zaporizhzhia

di Giorgio Ferrari

114627304 c0e16b77 7f92 46e8 a2b3 e6f370e7c45eNotizie sempre più allarmanti giungono in questi giorni dalla centrale nucleare ukraina di Zaporizhzhia dove, secondo fonti ukraine (le uniche prese in considerazione), i russi starebbero letteralmente minando le attrezzature della centrale.

Non c’è dubbio che la sorte degli impianti nucleari ukraini, data la guerra in corso, è cosa che desta serie preoccupazioni nell’opinione pubblica mondiale, ma soprattutto europea che certamente non può dimenticare i giorni terribili vissuti nel 1986 quando la nube di Chernobil investì buona parte dell’Europa centro orientale, ma anche della Bielorussia e del territorio russo confinante.

Perciò, quando i russi all’inizio della guerra occuparono militarmente il sito di Chernobil (febbraio 2022) l’incubo di quella catastrofe si ripropose in tutta la sua gravità, con l’aggravante che ai primi di marzo paracadutisti russi circondarono la centrale nucleare di Zaporizhzhia, che annovera sei reattori nucleari ed è la più grande concentrazione nucleare di tutta l’Europa.

Perché compiere una mossa così azzardata, sapendo che avrebbe oltremodo alimentato le critiche all’operato della Russia già condannata unanimemente per aver invaso uno stato sovrano?

La ridda di ipotesi che fin dall’inizio furono sviluppate dai mezzi di informazione europei convergeva, con qualche sfumatura, nell’attribuire ai russi l’intenzione di minacciare l’intera Europa attraverso una forma di deterrenza terroristica avente per oggetto la distruzione o il danneggiamento di siti nucleari. A nessuno venne in mente di prendere in considerazione l’ipotesi che l’occupazione di Chernobil e Zaporizhzhia avesse uno scopo non distruttivo, ma protettivo, forse per la consumata abitudine, tutta occidentale, di considerare i russi gente spietata e senza scrupoli.

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comuneinfo

Il rebus di uno Stato criminale

di Giorgio Salerno

13485736414 f7a12b8fcf bCome chiamereste un soggetto che pratica da oltre settant’anni violazioni dei diritti umani e del corpus di norme scritte nei trattati internazionali? Le opzioni, come gli aggettivi, possono essere varie ma nessuna di esse potrebbe discostarsi molto dal concetto di criminalità seriale o, meglio, sistematica. L’applicazione delle regole giuridiche è un principio cardine degli ordinamenti liberali. Eppure, tutti gli Stati – e le coalizioni politiche ed economiche di Stati – che a quegli ordinamenti si ispirano senza alcuna esitazione, fanno eccezione nel caso dell’apartheid israeliano nei confronti di un intero popolo. Per chi non crede alla volubilità del destino, ci sono rilevanti cause storiche, geopolitiche e commerciali a spiegare le ragioni di tanta impunità. Quel che, per molti versi e alla luce dei decenni trascorsi, risulta davvero difficile da spiegare è dove abbia trovato la forza per non arrendersi quel popolo perseguitato, umiliato e ucciso ogni giorno.

* * * *

Nei primi giorni di luglio l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza di ampia immunità per lo stato riguardo ai crimini di guerra compiuti a Gaza. Adalah e Al Mezan, associazioni palestinesi per i diritti umani – a sostegno della richiesta di risarcimento di Attiya Nabaheen, che aveva 15 anni quando fu colpito dal fuoco dei soldati israeliani, nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014, rimanendo paralizzato – avevano contestato una legge del 2012, secondo la quale gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele, in quanto dal 2007 è stata dichiarata “territorio nemico”.[1] Colpire i civili è un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale: ma per Israele e i suoi alti magistrati, non conta niente.

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cumpanis

Sanzioni alla Russia e crisi alimentare globale

di Geraldina Colotti*

Linee imperialiste e antimperialiste al G20 dei ministri degli Esteri, a Bali, in Indonesia

IMG 20220715 090318 1024x768sfdgrAl G20 dei ministri degli Esteri, a Bali, in Indonesia, la crisi alimentare e le tensioni sull’energia nel contesto del conflitto in Ucraina sono state al centro dell’agenda. L’edizione 2022 del rapporto delle Nazioni Unite, “Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” dice che il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a ben 828 milioni nel 2021, ossia circa 46 milioni in più dal 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia di COVID-19, arrivando a colpire fino al 9,8% della popolazione mondiale. Cifre che allontanano ulteriormente la “prospettiva di sconfiggere, entro il 2030, la fame, l’insicurezza alimentare e ogni forma di malnutrizione”.

Nel 2021, circa 2,3 miliardi di persone (29,3%) in tutto il mondo erano in una situazione di insicurezza alimentare moderata o grave – 350 milioni in più rispetto a prima dello scoppio della pandemia da COVID-19. Quasi 924 milioni (11,7% della popolazione mondiale) hanno sofferto di insicurezza alimentare grave, con un aumento di 207 milioni in due anni. Anche il divario di genere nell’insicurezza alimentare è ulteriormente aumentato nel 2021. In tutto il mondo, il 31,9% delle donne ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6 % degli uomini: un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 del 2020.

Intanto, il conflitto in Ucraina, che coinvolge due dei maggiori produttori mondiali di cereali di base, semi oleaginosi e fertilizzanti, sta mettendo in difficoltà le catene di approvvigionamento internazionali – che già risentono pesantemente di eventi climatici estremi sempre più frequenti, specialmente nei paesi a basso reddito – e sta facendo salire i prezzi di cereali, fertilizzanti, energia e anche degli alimenti terapeutici pronti all’uso per bambini affetti da grave malnutrizione. Incombono, dice il rapporto, conseguenze drammatiche per la nutrizione e la sicurezza alimentare mondiali.

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la citta futura

Price-cap: la mossa del Draghi

di Marco Beccari

Un tetto al prezzo del gas e del petrolio russo non è possibile, all’interno della visione liberista, se non mediante gli aiuti di Stato, almeno che non si voglia percorrere la strada avventurista che potrebbe condurre all’embargo di queste materie prime

c8c03a14b880e1993c74db74663b0cf1 XLNell’ultimo vertice G7 di Elmau, in Germania, Draghi ha spinto nuovamente per mettere un tetto massimo al prezzo del petrolio e del gas, ma solo a quello russo. In questo modo il nostro stratega vuole colpire economicamente il paese eurasiatico, classificato all’ultimo incontro della NATO di Madrid come “nemico”, ma dall’altra vuole ridurre l’inflazione che sta colpendo sempre più pesantemente l’Italia. Draghi è molto esplicito sopra gli effetti della propria proposta dichiarando nella conferenza stampa finale del meeting: “Tutti i leader concordano sulla necessità di limitare i nostri finanziamenti alla Russia di Putin, ma allo stesso tempo occorre rimuovere la causa principale di questa inflazione. Abbiamo dato ai nostri ministri il mandato di lavorare «con urgenza» su come applicare un tetto al prezzo del gas e del petrolio, ma la Commissione Europea ha detto anche che accelererà il suo lavoro sul tetto al prezzo del gas, una decisione che l’Italia accoglie con favore”. L’Italia con questa proposta, avanzata da tempo, si pone tra i falchi nel conflitto economico con la Russia. Questo fatto avrà un peso quando si verificheranno le ritorsioni russe o si proverà ad accreditarsi come improvvisati mediatori per la risoluzione del conflitto.

La risposta russa non si è fatta attendere: il portavoce Peskov del Cremlino ha infatti dichiarato che un eventuale tetto sul prezzo del gas dovrebbe essere discusso con Gazprom. In sostanza non è l’UE a poter fissare il prezzo del gas russo, modificando in modo unilaterale i contratti che sono indicizzati, come per i contratti “take or pay”[1] di fornitura pluriennale, all’andamento del costo del petrolio Brent.