Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina
di Alberto Toscano
Qual è la logica del piano Trump su Gaza? La costruzione di spazio meticolosamente controllato e depoliticizzato, cioè pacificato, per la circolazione, il consumo e la produzione del capitale. Come spiega Alberto Toscano nell'articolo che pubblichiamo oggi, la creazione della «Nuova Gaza» servirebbe a trasformare la Striscia nel «centro dell’architettura regionale filoamericana», assicurando potere economico, politico e militare sul flusso di energia, capitale e merci. Un'operazione che integra il genocidio in corso in un disegno neocoloniale più ampio e lo rende funzionale al nuovo regime di accumulazione primitiva.
Così, per Trump, Netanyahu e Blair, «a Gaza si può costruire una riviera solo sulle ossa dei morti».
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Questi predoni del mondo, dopo aver distrutto la terra con le loro devastazioni, stanno ora saccheggiando l’oceano: spinti dall’avidità, se il loro nemico è ricco; dall’ambizione, se è povero; insaziabili tanto verso l’Oriente quanto verso l’Occidente: l’unico popolo che contempla la ricchezza e la miseria con la stessa bramosia. Saccheggiare, massacrare, usurpare con falsi titoli — questo lo chiamano impero; e dove fanno un deserto, lo chiamano pace.
Tacito, Agricola
Ciò che è bello di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono. Nulla la distrae; nulla le toglie il pugno dalla faccia del nemico. Non le forme dello Stato palestinese che costruiremo, fosse anche sul lato orientale della luna o sul lato occidentale di Marte, quando sarà esplorato.
Mahmoud Darwish, Silence for Gaza
Alla fine di settembre, l’amministrazione Trump ha pubblicato il suo piano in 21 punti per porre fine al «conflitto di Gaza». Negli ultimi otto mesi, l’osceno «piano di sviluppo per Gaza» di Trump – che presentava il territorio devastato come la «Riviera del Medio Oriente», accompagnato dalle ormai onnipresenti e allucinate rappresentazioni generate dall’IA su come essa dovrebbe apparire – è servito come punto di riferimento costante per la campagna israeliana di pulizia etnica e genocidio.
Netanyahu e i suoi ministri hanno assaporato il fatto che l’ontologia immobiliare del piano – come Brenna Bhandar e io abbiamo delineato nel nostro articolo Le mani sul pianeta. L'imperialismo immobiliare di Trump – escludesse il diritto internazionale e prevedesse un trasferimento totale della popolazione come preludio a un boom edilizio.
Qui risiede forse la funzione principale di questo «piano», come di innumerevoli altri: la gestione strategica del tempo politico. Seguendo una logica da diagramma dell’espropriazione più che da progetto per un nuovo ordine, Israele, gli Stati Uniti e le potenze alleate o complici possono proseguire le loro guerre di eliminazione e accumulazione come se fossero governate da un fine discernibile, una sorta di endgame.
In questo senso, i piani completano un’altra tecnica della politica temporale-coloniale d’insediamento israeliana: i negoziati (incluso lo stesso accordo di Oslo), perfidamente messi in scena come una sorta di guerra psicologica internazionale per debilitare il nemico, perpetuare la violenza espropriativa e fare da scudo contro le crescenti ondate di delegittimazione.
Come ha riconosciuto persino The Economist, «i colloqui sul futuro servono solo a guadagnare tempo per Israele, che nel frattempo crea fatti alternativi nel presente». Come ha osservato l’analista politico palestinese Abdaljawad Omar, i negoziati non sono altro che un’altra modalità di guerra perpetua, o di pacificazione senza fine, attraverso la quale Israele spera «di esaurire l’indignazione globale così come spera di esaurire la resistenza palestinese: tramite il rinvio, la confusione, la normalizzazione del collasso e, naturalmente, la coercizione mediante la strumentalizzazione dell’antisemitismo».
Il calcolo diplomatico – ossia la necessità di ottenere l’assenso e la partecipazione di Egitto, Turchia, Giordania e degli Stati del Golfo – ha attenuato l’estremismo patrimoniale della proposta originaria. A febbraio, Trump aveva dichiarato ai giornalisti a bordo dell’Air Force One: «Pensatelo come un grande sito immobiliare. Gli Stati Uniti ne saranno i proprietari e lo svilupperemo lentamente, molto lentamente — non abbiamo fretta — per portare stabilità in Medio Oriente». In una successiva intervista a Fox News, in cui confermava che questa acquisizione di Gaza avrebbe annullato ogni diritto di ritorno per gli abitanti palestinesi, Trump sembrò trasferire il titolo di proprietà del territorio dal governo statunitense a se stesso: «Costruiremo comunità sicure, un po’ lontano da dove si trovano ora, dove c’è tutto questo pericolo. Nel frattempo, ne sarei io il proprietario. Pensatelo come uno sviluppo immobiliare per il futuro. Sarebbe un pezzo di terra bellissimo. Nessuna grande spesa».
L’utopia del costruttore Trump, che mette in scena il rendere Gaza inabitabile come precondizione per la sua trasformazione in una proprietà redditizia, non è affatto scomparsa: al Urban Renewal Summit di Tel Aviv, a settembre, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato un’imminente «miniera d'oro immobiliare», affermando: «Abbiamo completato la fase di demolizione, che è sempre la prima fase della riqualificazione urbana – ora dobbiamo costruire». Ha poi aggiunto: «Abbiamo speso molto denaro per questa guerra. Dobbiamo vedere come dividere la terra in percentuali».
Ma mentre questa logica immobiliare del genocidio («la fase di demolizione») persiste nella mente e nelle azioni dei protagonisti principali, il piano di settembre di Trump e alcune delle proposte più dettagliate che lo hanno preceduto e preparato – in particolare i documenti trapelati che descrivono la Gaza International Transition Authority(GITA) dell’Istituto Tony Blair e il Gaza Reconstitution Economic Acceleration and Transformation (GREAT) Trust collegato alla Gaza Humanitarian Foundation – incorporano tale logica in un disegno neocoloniale più ampio.
Sostengo che questo disegno sia insieme sintomo e prova dei legami intimi e delle affinità elettive tra le utopie apparentemente marginali dell’estrema destra, specialmente nelle sue tendenze «tecno-fasciste», e le ideologie e pratiche centrali dell’imperialismo contemporaneo. A un livello più profondo, ciò che possiamo osservare all’opera in questi diagrammi di espropriazione, è il nesso tra accumulazione ed eliminazione — la logica genocidaria dell’«accumulazione primitiva», ossia una dimensione saliente delle relazioni di distruzione proprie del capitalismo.
Questi piani per quella che l’ultimo documento di Trump chiama «Nuova Gaza» – che costituiscono un genere a sé, precedente al genocidio e che ne accompagna lo svolgimento da molteplici prospettive – rappresentano una sorta di palinsesto ricombinante delle tecniche coloniali di pacificazione, espropriazione, dominazione ed espulsione. Tutte queste incorporano:
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quadri di governo che annullano le rivendicazioni palestinesi di autonomia, sovranità o autodeterminazione;
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la produzione di spazi neocoloniali (Gaza come «zona» o «hub»);
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una visione capitalista dello sviluppo speculativo ed estrattivo che cancella qualsiasi altra rivendicazione o esperienza della terra, della comunità e della cultura palestinese.
La visione che ne risulta è quella di uno spazio meticolosamente controllato e depoliticizzato, cioè pacificato, per la circolazione, il consumo e la produzione del capitale. Gaza non è solo una «prova generale del futuro», un laboratorio planetario per esercitare una violenza genocidaria tecnologicamente sofisticata su popolazioni «sacrificabili» – come denunciato dal presidente colombiano Gustavo Petro e da molti altri commentatori: ma è, anche, come dimostrano questi «piani», una prova delle modalità neocoloniali di sottomissione funzionali ai nuovi regimi di accumulazione del capitale.
Il piano in 21 punti di Trump, che attenua le forme più apertamente coloniali di autorità delineate nei documenti GITA e GREAT e nominalmente pone un limite alle spinte espansionistiche di Israele («Israele non occuperà né annetterà Gaza»), condivide tuttavia quella che potremmo definire la richiesta minima di tutte queste visioni di sottomissione: la demilitarizzazione e la radicale depoliticizzazione dello spazio palestinese. Come è dichiarato nel piano, infatti: «Gaza sarà governata sotto l’amministrazione temporanea e transitoria di un comitato palestinese tecnocratico e apolitico». Quest’ultimo sarà supervisionato da un «Consiglio per la Pace», presieduto da Trump con il sostegno di Tony Blair e di altri non nominati.
È significativo notare la necessità sintomatica di raddoppiare il «temporaneo» con il «transitorio», il «tecnocratico» con l’«apolitico», affinché non rimanga alcun dubbio che la «governance» sia l’antitesi dell’autogoverno. Soprattutto, anche l’ombra della resistenza anticoloniale deve essere annientata; la «nuova Gaza» dovrà essere una «zona deradicalizzata e libera dal terrore», condizione negativa per l’unica visione «positiva» concepita per Gaza: quella di una «zona economica speciale» con «tariffe e tassi d’accesso preferenziali». Il parametro da raggiungere è quello delle «città miracolose moderne del Medio Oriente», e il metodo consiste nel «sintetizzare i quadri di sicurezza e governance per attrarre e facilitare gli investimenti». Come ha osservato Daniel Lévy, questo documento somiglia a «una carta per una versione del XXI secolo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali» e costituisce «un tentativo di erigere un ulteriore strato di occupazione internazionale al popolo palestinese, in aggiunta a quella di Israele».
Il piano promosso dal Tony Blair Institute per la Gaza International Transition Authority è una proposta molto più dettagliata rispetto al documento volutamente generico di Trump. Come ha osservato Arnaud Miranda, esso immagina Gaza come «un laboratorio per una nuova governance tecno-imperiale». Il suo organigramma della transizione, dettagliato, quantificato e calendarizzato, è l’esatto contrario di una costituzione politica — Gaza non ha cittadini, al massimo residenti o soggetti sotto tutela — ma una struttura per un esperimento di dominio imprenditoriale neocoloniale. L’organo politico più alto dell’autorità — nominato, come ci viene comicamente istruito, «per consenso internazionale» — è un consiglio con un presidente.
Nella sua progettazione, l’autorità di transizione di Blair è un’illustrazione perfetta del fatto che le idee dominanti di oggi sono le idee della classe dominante: se Blair è stato definito da molti a definirlo «il viceré di Gaza», due dei membri previsti del consiglio sono miliardari — Marc Rowan, proprietario di un fondo di private equity e figura chiave negli sforzi dell’amministrazione Trump per reprimere la solidarietà con la Palestina e imbavagliare il pensiero critico; e Naguib Sawiris, magnate egiziano delle telecomunicazioni, della tecnologia e dell’immobiliare. Accanto alla tecnocrate olandese Sigrid Kaag, un altro potenziale membro del consiglio è l’imprenditore e rabbino Aryeh Lightstone, figura centrale degli Accordi di Abramo e uno dei fondatori della cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation, descritta da Médecins Sans Frontières come un «sistema di fame e disumanizzazione istituzionalizzato». Vale la pena notare che il principale finanziatore del TBI, per un ammontare di mezzo miliardo di dollari, è il caro amico di Blair Larry Ellison, che, oltre ad essere il più grande donatore privato dell’IDF, è figura chiave, tramite la sua azienda Oracle, nell’integrazione tra il settore tecnologico e l’amministrazione Trump. Inoltre egli è ora pronto, insieme al figlio, a conquistare una posizione quasi monopolistica sui media statunitensi). Come ha scritto Ammiel Alcalay su Middle East Eye, la GITA prefigura «la corporativizzazione di un intero popolo traumatizzato sotto la "leadership" di miliardari».
In questo scintillante scenario di eteronomia senza limiti, il Consiglio, dotato di una propria forza di sicurezza speciale, sorveglia e controlla una «autorità esecutiva palestinese» (da non confondere con l’attuale Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah), che non può eseguire nulla, che ha pochissima, se non nessuna, autorità ed è fondata sull’abnegazione di qualsiasi rivendicazione nazionale palestinese. Le uniche rivendicazioni che i palestinesi sono realmente autorizzati a fare, in questo schema, sono quelle di proprietari terrieri. La GITA prevede infatti una «Unità per la conservazione dei diritti di proprietà», il cui compito sarebbe «garantire che qualsiasi partenza volontaria dei residenti da Gaza durante il periodo di transizione sia documentata, legalmente protetta e non comprometta il diritto individuale di ritorno o di mantenimento della proprietà». Il fatto che la cornice sia quella della «partenza volontaria», unito alla vaghezza su come le «rivendicazioni di proprietà transitorie» potrebbero essere giudicate, è altamente sintomatico.
La tecnocrazia guidata da miliardari delineata dalla GITA di Blair assume una patina ancora più tecno-futurista nel Gaza Reconstitution Economic Acceleration and Transformation (GREAT) Trust, la cui presentazione PowerPoint circolata alla Casa Bianca, è trapelata suscitando notevole costernazione. Come ha osservato la studiosa palestinese Rafeef Ziadah, «il documento riecheggia il piano Gaza 2035 promosso dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu… la proposta del 2024 che immaginava Gaza come un hub logistico sterilizzato, collegato al mega-progetto saudita Neom e privo di una presenza palestinese significativa».
Riccamente illustrato con grafici d’investimento e immagini generate dall’intelligenza artificiale, GREAT si colloca a metà strada tra il progetto di governance di Blair e la precedente «modesta proposta» del blogger di estrema destra e consigliere informale della Casa Bianca Curtis Yarvin, intitolata Gaza, Inc.
La fantasia distopica di Yarvin immaginava una concezione della sovranità completamente corporativa e privatizzata, che «esce» dai parametri stessi del diritto internazionale e della politica democratica — sul modello di Próspera, la «charter city» in Honduras finanziata da venture capitalist come Peter Thiel, Balaji Srinivasan e Marc Andreessen. Per Yarvin, una precondizione per trasformare Gaza nella «prima corporazione sovrana a entrare alle Nazioni Unite» non è solo deportarne la popolazione, ma anche cancellare i titoli di proprietà della loro terra – astraendoli invece in un gettone fungibile. Come dichiarava:
Come Blair, anche Yarvin vuole mettere miliardari sionisti al comando, suggerendo che il roadshow per questa IPO (offerta pubblica iniziale) dovrebbe essere guidato da Adam Neumann, il miliardario israelo-americano cofondatore di WeWork. Al centro di questa visione speculativa della privatizzazione come pacificazione c’è l’assunto che «tutti i titoli di proprietà immobiliare hanno la guerra come blocco di genesi» [1] .
Il piano GREAT (sottotitolato «Da un proxy iraniano demolito a un prospero alleato abramitico»), come le proposte affini, rappresenta anche una ricapitolazione, ricombinazione e accelerazione di molteplici forme e dispositivi di dominio provenienti dalla storia del capitalismo coloniale e razziale. In quanto nodo di quella che definisce «la trama abramitica» di questa regione imperiale, la forma politica che Gaza dovrebbe assumere è quella di una «tutela multilaterale guidata dagli Stati Uniti».
Il Trust, ci viene detto, governerà Gaza «per un periodo di transizione fino a quando una struttura politica palestinese riformata e deradicalizzata sarà pronta a prenderne il posto». Per implementare questa struttura di governance antipolitica — una macchina per svuotare la sovranità palestinese, fondata sulla supposta disponibilità dei subalterni a diventare un cliente docile e pacifico — GREAT prevede proprie produzioni di spazio neocoloniale, ossia quelle che chiama «zone umanitarie di transizione libere da Hamas».
Presentate con mappe operative, queste «aree di transizione umanitaria», che saranno gestite inizialmente dalla Gaza Humanitarian Foundation e poi da un «quadro di sicurezza ibrido», sono discendenti dirette, e non troppo lontane, della pratica britannica di reinsediamento nei «nuovi villaggi» in Kenya e in Malesia, della politica francese di regroupement in Algeria e della strategia statunitense di «hamletization» in Vietnam.
A dimostrazione della perfetta continuità dell’immaginario dominante della controinsurrezione, il disegno stesso della “«Nuova Gaza», con i suoi campi da golf e le aree verdi, attinge alla storia della guerra sociale nella metropoli imperiale. Come si legge in una delle slide: «come la strategia di Haussmann nella Parigi del XIX secolo, questo piano mira a risolvere una delle cause radici dell’insurrezione continua di Gaza: il suo disegno urbano».
E oggi, felicemente per i suoi promotori, la disciplina spaziale può essere completata dal controllo cibernetico, una volta che «tutti i servizi e l’economia di queste città saranno gestiti attraverso un sistema digitale basato su identità e alimentato dall’intelligenza artificiale».
Ma il piano GREAT ha un orizzonte molto più ampio della semplice gestione della pacificazione dopo il genocidio. Nel linguaggio ansimante e vacuo dei visionari del venture capital, esso prevede la possibilità di raccogliere miliardi in investimenti pubblico-privati, adottando un «modello di finanziamento innovativo» che combinerebbe una sorta di «trust fondiario tokenizzato» i cui rendimenti verrebbero investiti in un «Fondo di ricchezza per Gaza». Il valore di Gaza, oggi stimato a 0 dollari, crescerebbe in dieci anni fino a oltre 300 miliardi di dollari (con la creazione di «un milione di posti di lavoro»).
Elemento cruciale della visione di GREAT è l’idea di Gaza come «hub» all’interno di un vasto complesso regionale logistico–estrattivo–produttivo destinato a competere con la Cina. La creazione della «Nuova Gaza» servirebbe ad accelerare l’integrazione redditizia del Corridoio Economico India–Medio Oriente–Europa (IMEC) e a trasformare la Striscia nel «centro dell’architettura regionale filoamericana», assicurando potere economico, politico e militare sul flusso di energia, capitale e merci (con particolare attenzione ai «minerali delle terre rare»).
Come osserva Ziadah, ciò che «si immagina non è la ricostruzione per gli abitanti [di Gaza], ma la conversione di Gaza in un centro logistico al servizio dell’IMEC», «una forma di tutela corporativa al servizio del capitale globale». In GREAT, conclude, «Gaza è descritta meno come una società e più come un bene in sofferenza da rivendere con profitto. Questo è il capitalismo della catastrofe nella sua forma più pura. È la devastazione riformulata come precondizione per il profitto speculativo».
La «ri-immaginazione» di Gaza rappresenta l’apoteosi di quella fusione tra capitale e dominio autoritario che definisce, per gran parte della reazione globale, le «città miracolose» del Medio Oriente. Ridotta a tabula rasa dal genocidio israeliano, Gaza rinasce attraverso dieci «mega-progetti» che includono, emblematicamente, un raccordo MBS (dal nome del principe saudita Mohammed Bin Salman), un’autostrada centrale MBZ (dal nome di Mohammed bin Zayed Al Nahyan, sovrano di Abu Dhabi), una Elon Musk Smart Manufacturing Zone e una Gaza Trump Riviera con relative isole artificiali. Centri dati, gigafactory per veicoli elettrici, un porto in acque profonde, oleodotti e gasdotti — tutti gli accessori dell’accumulazione del XXI secolo sono previsti.
Per quanto riguarda la terra, non solo i diritti di proprietà dei palestinesi sono effimeri, ma il piano, nel calcolare i costi e i benefici relativi tra l’alloggio temporaneo nella Striscia (finanziato a debito con terre pubbliche come garanzia) e la »ricollocazione volontaria», formula un argomento economico diretto a favore della pulizia etnica, notando che si risparmierebbero 500 milioni di dollari per ogni 1% della popolazione ricollocata, «aumentando così il valore di Gaza». Si aggiunge che il Trust manterrebbe la proprietà del 30–40% delle terre di Gaza.
Sulle ceneri dello scholasticide, è altamente indicativo che le disposizioni per l’istruzione a Gaza non includano in alcun punto la ricostituzione dell’istruzione superiore, e che tutta la formazione secondaria sia designata come «professionale». Ciò è forse legato al fatto che la zona industriale per veicoli elettrici è concepita per impiegare manodopera «qualificata» a basso costo.
In questa panoplia di piani – che si sovrappongono per intenzioni, ideologia, circolazione e personale coinvolto – vediamo la raccapricciante cristallizzazione delle relazioni di distruzione che governano il nostro presente. Nel progettare il «dopo» del genocidio, essi lo giustificano retroattivamente e lo integrano come precondizione per un nuovo ciclo di integrazione imperiale regionale, accumulazione e sviluppo. Nel futuro anteriore che struttura la temporalità speculativa di questi piani, il genocidio sarà stato il necessario preludio a un luminoso futuro di espansione immobiliare speculativa, integrazione logistico–estrattiva ed egemonia regionale — avrà spezzato la spirale del «sotto-sviluppo» di Gaza per rendere possibile una «Nuova Gaza» di sviluppo iper-capitalista. Avrà anche smentito l’ammonimento, espresso dall’ex diplomatico statunitense Josh Paul, secondo cui «non si può costruire una riviera sulle ossa dei morti».
Al contrario, per Trump, Blair, Netanyahu e i loro finanziatori miliardari, a Gaza si può costruire una riviera solo sulle ossa dei morti. Ciò che questi piani rivelano, tra le righe, è una variante del XXI secolo della razzializzazione della guerra come processo di svalutazione e investimento (il piano GREAT è esplicito nell’aritmetica: dai 0 dollari prodotti dalla 1fase di demolizione» alla futura valutazione di oltre 300 miliardi). Guardare al genocidio attraverso il prisma di questi piani ci mostra la logica stessa dell’eliminazione propria del capitale, in cui una guerra di sterminio si rivela come ciò che Éric Alliez e Maurizio Lazzarato chiamano una »guerra di accumulazione»: la distruzione — di esseri umani, delle loro relazioni e istituzioni, della loro cultura e della loro terra, delle loro città, dello spazio e della natura — è retroattivamente rivelata come ciò che Marx, nel Capitale, vol. I, definiva «la serra forzata dell’accumulazione».
Sebbene il genocidio non sia stato direttamente mosso da una strategia capitalistica di accumulazione, questi piani lo reinscrivono come parte integrante di tale strategia. Ciò che Raphael Lemkin descriveva come l’attacco sincronizzato a diversi aspetti della vita di un popolo prigioniero diventa qui la condizione preliminare per i mega-progetti: i nuovi corridoi logistici e le infrastrutture per i minerali delle terre rare, gli idrocarburi fossili e le catene delle merci, ma anche per i massicci complessi tecnologici della violenza concentrata (ora «alimentata dall’intelligenza artificiale») necessari a garantire questi modelli di circolazione e accumulazione.
In questi piani — mentre rievocano, ripetono e ricombinano logiche coloniali e razziali all’interno di una cornice sovradeterminata dall’avanguardia del capitale (IA, veicoli elettrici, ecc.) — possiamo scorgere i tratti distintivi della logica genocidaria che definisce la cosiddetta accumulazione primitiva, come logica ricorsiva della violenza capitalista. Come ha sostenuto Harry Harootunian nel suo straordinario memoir marxista sul genocidio armeno, The Unspoken as Heritage, la vera storia del capitalismo ripropone continuamente «una formula che combina l’omicidio genocidario e il furto massiccio, sanciti dall’accumulazione e diretti da qualche forma di autorità politica, che si tratti di uno stato nascente o di un impero in declino. … L’omicidio di massa significa acquisizioni di massa». Da questa prospettiva, il genocidio è «uno strumento necessario per attuare il processo di accumulazione primitiva del capitalismo», il quale, attraverso «l’attuazione sistematica dell’appropriazione, dell’espropriazione e del furto su larga scala… rovescia l’ordinario nel suo contrario: un inferno vivente di necropolitica» [2].
Le transizioni immaginate da questi piani per Gaza rendono la cessazione del genocidio condizionata al politicidio; si fondano sulla sottomissione dei palestinesi – che al massimo verrebbero impiegati come manodopera servile o come forze di sicurezza collaborazioniste in una strategia imperialista di accumulazione regionale che ri-funzionalizza tutti i dispositivi del colonialismo per alimentare le fantasie speculative autoritarie degli odierni miliardari e dei loro consiglieri tecnocratici. Il seguito del genocidio si rivela così come l’estensione indefinita della sua logica, ma anche la sua sussunzione come momento in una più ampia visione imperialista. L’omicidio di massa diventa un mediatore effimero per il tecno-capitale autoritario e i suoi megaprogetti.
Questi piani sono il diagramma fedele di un futuro che è l’antitesi della giustizia, dell’eguaglianza e della liberazione, per i palestinesi e per i popoli di tutto il mondo; è un futuro in cui il genocidio non è un crimine incommensurabile ma un prologo alla prosperità e un fattore di accumulazione, dove il «valore di Gaza» è un altro nome per la distruzione della Palestina. Solo lavorando all’espropriazione e alla riduzione alla miseria dei despoti del capitale — MBS, MBZ, Musk, Ellison, Rowan, Trump, Blair & Co. — si può impedire che nuove ondate di accumulazione genocidiaria estendano la loro ombra sulla terra. Loro pianificano la nostra cancellazione; noi dovremmo pianificare la loro.
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