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L'eurocentrismo "funzionale" di Marx ed Engels
Paradossi e contraddizioni del concetto di modo di produzione asiatico
di Carlo Formenti
Mi scuso con i lettori, ma la mia insufficiente conoscenza delle funzioni del template di questa piattaforma mi ha impedito di inserire le traslitterazioni corrette dei nomi di persone e istituzioni russe per cui queste parole risultano malamente "italianizzate"
Le accuse di eurocentrismo ai due autori del Manifesto del Partito Comunista nonché fondatori del socialismo scientifico non sono nuove. Una delle requisitorie più dure in tal senso si deve al sudafricano Hosea Jaffe, esponente delle correnti marxiste più attente alle lotte di liberazione dei popoli coloniali ed ex coloniali; costui, in un saggio intitolato Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (Jaca Book, Milano 2007) arriva ad affibbiare ad Engels l’epiteto di euro-razzista e di social-sciovinista tedesco, citandone alcune frasi (che oggi farebbero effettivamente rizzare i capelli sulla testa a ogni militante di sinistra) contenute in scritti sulla guerra degli Stati Uniti contro il Messico, sulla conquista francese dell’Algeria e sulla colonizzazione italiana dell’Eritrea. Il suo giudizio è meno severo nei confronti di Marx, in quanto ritiene che i suoi scivoloni eurocentrici – comunque meno plateali di quelli di Engels - siano riscattati dal suo fondamentale contributo all’analisi del ruolo del colonialismo nel processo di accumulazione capitalistica.
Con Onofrio Romano, nel libro Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi marxisti da archiviare (DeriveApprodi 2019), che contiene la trascrizione di una nostra lunga conversazione, ho rilanciato – sia pure in forma meno virulenta – critiche analoghe, estendendole all’insieme della cultura marxista occidentale e riproponendo l’opposizione fra marxismo occidentale e marxismo orientale teorizzata da Domenico Losurdo (Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017).
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Necessario o superfluo? Comunismo, bisogni umani e i rischi di una semplificazione pseudo-socialista
di Luca Colamini
“Il capitalismo ti dà il superfluo, il socialismo ti dà il necessario”: così recita uno slogan, coniato e diffuso da Marco Rizzo e largamente impiegato nel corso di comizi e interventi su organi televisivi e di stampa. Apparentemente una formula snella ed efficace, una sintesi chiara e senza fronzoli, che va dritta al punto ed è comprensibile da tutti. Coerente, peraltro, con l’immagine bread and butter di quadri politici capaci di rabboccare l’olio del motore dell’automobile e di tirare di boxe. Gente vicina alla classe operaia, di cui condivide il linguaggio, le abitudini e il buon senso.
Ma quali sono i presupposti di un simile slogan? Non intendiamo certo “fare le pulci” a una formula propagandistica per puro e sterile esercizio polemico. Tuttavia, anche quando si adatta il registro al contesto, le parole d’ordine qualificanti di un’organizzazione comunista dovrebbero contenere ed esprimere sinteticamente una solida impostazione teorica, legarsi a un’adeguata analisi della situazione storica contemporanea e della “fase”, e agli obiettivi di avanzamento del movimento operaio. Per questa ragione, gli slogan vanno sempre interrogati, e occorre considerare accuratamente la possibilità che inducano ad assumere posizionamenti tattici improduttivi o dannosi, o addirittura riflettano un orizzonte strategico inadeguato. Nel caso della formula in questione, la ricerca dell’efficacia comunicativa corre il serio rischio di veicolare distorsioni teoriche, controproducenti sul piano pratico e politico, e per giunta subalterne ai leitmotiv della propaganda borghese circa la natura e gli obiettivi del socialismo. Ma andiamo con ordine.
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A sua immagine e somiglianza
Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale
di Sebastiano Isaia
La cooperazione degli operai comincia soltanto nel
processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno
già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono
incorporati nel capitale (K. Marx).
1. Studiare l’Industrial Smart Working e la cosiddetta Fabbrica Intelligente (cioè robotizzata e digitalizzata), chiamata anche Industria 4.0 e in altri mille modi (tutti ugualmente suggestivi e idonei alla mistificazione del rapporto sociale capitalistico da parte di economisti, sociologi e politici “modernisti”), ha avuto per me soprattutto il significato di ritornare a riflettere su un fondamentale concetto marxiano: la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, con annessa dialettica tra sussunzione formale e sussunzione reale. Una dialettica che peraltro si presta benissimo, a mio avviso, come chiave di interpretazione analogica di molti e importanti fenomeni sociali che si danno fuori dai luoghi immediati della produzione del valore, e che investono appunto aspetti della nostra vita che sembrano non avere nulla a che fare con la sfera immediatamente economica. Di più: è proprio questa dialettica che, a mio avviso, giustifica l’uso – si spera non ideologico – del concetto di sussunzione totale della vita da parte del capitale, anche se è nella sfera produttiva (di plusvalore) che tale concetto trova il suo più pregnante e puntuale riscontro.
I teorici della Fabbrica Intelligente affermano che a differenza della vecchia fabbrica, quella di nuova concezione richiede agli operai non solo di eseguire gli ordini ma soprattutto di pensare (nientedimeno!), anche in “modalità creativa” e, addirittura, “critica” [1]. Ma si tratta di una truffa ideologica (vedi, ad esempio, il concetto di Cobotica – collaborative robot –, che rimanda all’«assistenza collaborativa» del robot nei confronti del lavoratore), di un guazzabuglio terminologico inteso a capovolgere i termini della questione, a mistificare la realtà, la quale vede il capitale assorbire sempre più completamente nel proprio corpo il lavoratore.
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Sulla transitorietà delle forme e delle decisioni politiche nella stagione delle emergenze
di Sandro Moiso
Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione / Decisione / Politico / Ordine concreto / Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 88, 9,00 euro
«Temo i lettori superficiali» (Carl Schmitt, Interrogatorio n. 2161, Norimberga 29 aprile 1947)
Il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), comunque lo si voglia considerare, continua ancora oggi a porre questioni di estremo interesse. La lettura di queste riflessioni intorno all’opera del filosofo, giurista e politologo, offerte da Andrea Salvatore, docente di Filosofia politica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, permette di coglierne i motivi di attualità, sdoganandolo di fatto dall’ambito quasi esclusivamente giuridico e dall’area del pensiero politico conservatore o fascista in cui a lungo è stato relegato.
Certo la sua adesione al regime nazista fin dal maggio del 1933 e il fatto che egli abbia mantenuto la sua carica di docente presso l’Università Humboldt di Berlino, da quello stesso anno fino al 1945, non hanno certo contribuito a suscitare a “sinistra” l’attenzione nei confronti del suo pensiero. Eppure, eppure… le sue riflessioni sulle dinamiche politico-giuridiche che rendono attuative e condivise le norme che regolano lo Stato e la società moderna rimangono tutt’ora decisamente interessanti, proprio per la spregiudicatezza delle sue formulazioni.
Va detto subito, piaccia o meno, che il pensiero di Carl Schmitt non ammette alcuna possibilità di cambiamento sostanziale di un sistema politico-giuridico dato in assenza di un suo rovesciamento.
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Aristocrazia e tecnocrazia diretta
di M. Minetti
In chi scrive di politica possiamo spesso riconoscere uno sbilanciamento tra la capacità di analizzare la realtà e quella di progettarne il cambiamento.
L’analisi viene condotta sulla base di concetti interpretativi comuni, appoggiando le nuove conoscenze ad una solida base di studi pregressi, ai dati, alla osservazione dei fenomeni coevi.
Il progetto di trasformazione sociale che i vari autori esprimono, invece, rappresenta molto di più l’insieme dei valori a cui fanno riferimento e l’immagine pubblica che vogliono dare di sé stessi al mondo.
La prima parte degli studi di tutti costoro è quindi utile alla conoscenza, la seconda spesso totalmente velleitaria. Per mia sfortuna, non posso a mia volta sfuggire a questa valutazione empirica. Il futuro semplicemente non è scritto e non si ispira alla teoria.
Il tramonto delle masse
Da più fronti convergono teorie che interpretano la realtà attuale come una evoluzione della egemonia unipolare degli USA, quello che Bush senior chiamò Nuovo Ordine Mondiale (NWO) in seguito alla caduta dell’URSS (1), in uno scontro multipolare in cui libero mercato e democrazia rappresentativa non sono più dei modelli indiscussi. Questo NWO è durato circa trenta anni e coincide con ciò che abbiamo chiamato globalizzazione o neoliberismo.
Nella crisi della democrazie parlamentari, dovuta alla più ampia crisi della rappresentanza politica, sono emersi molti studi che hanno definito le strutture sociali e politiche del presente o del prossimo futuro in modi diversi ma concordi, spesso con ossimori fantasiosi.
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Panzieri e le minoranze comuniste del suo tempo
di Diego Giachetti
A cent’anni dalla sua nascita, Raniero Panzieri rimane una delle figure più importanti nella storia dell’intellettualità militante e del movimento operaio del secondo dopoguerra. Il recente libro di Marco Cerotto pubblicato da DeriveApprodi (Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano) dedicato alla sua biografia teorica e politica e altre iniziative, tra cui lo «Scavi» sulla nostra rivista, permettono di approfondire i diversi aspetti di una figura ancora in buona misura da riscoprire. L’articolo di Diego Giachetti è un ulteriore prezioso contributo in questa direzione. In particolare, l’autore si concentra su un tema di ricerca inesplorato, ovvero i rapporti che Panzieri ha avuto con le minoranze comuniste presenti alla sinistra del Partito comunista negli anni Cinquanta e Sessanta. Con bordighisti e trotskisti mantenne infatti una relazione di contatto diretto e una dialettica critica e rispettosa, individuandone i limiti ma anche il peso nella rottura della cappa staliniana del Pci, che dopo gli eventi del 1956 era percepita sempre più intollerabile da molti militanti. Analizzando elementi di convergenza e di divergenza, utilizzando materiali rari o dimenticati, Giachetti ricostruisce con precisione storica e interesse politico un pezzo significativo di quello snodo fondamentale del Novecento.
* * * *
Tra le tante questioni emerse nel corso delle ricerche sulla figura esemplare di Raniero Panzieri (1921-1964), alcune meritano di essere poste come ipotesi per un lavoro di approfondimento ancora da farsi. Mi riferisco nello specifico ai suoi rapporti con le minoranze comuniste presenti alla sinistra del Partito comunista negli anni Cinquanta e Sessanta.
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I due Marx
di Robert Kurz
Nel momento in cui ci si trova a commemorare delle nascite, delle morti, o altri anniversari che risalgono a più di un secolo prima, l'oggetto del ricordo, il più delle volte, si è già trasformato in un pezzo da museo finito tra i reperti di un passato ormai morto che non suscita più la minima emozione. Le pagine culturali dei quotidiani, i dignitari della cultura e i curatori fallimentari della storia possono celebrare il loro "evento" stando comodamente appoggiati agli scaffali sui quali sono esposti i ricordi che un tempo avevano fatto battere assai più velocemente i loro cuori. Il "Manifesto del partito comunista" del 1848, redatto da due giovani intellettuali allora pressoché sconosciuti, Karl Marx e Friedrich Engels, ha conservato per molto tempo una sua freschezza ed attualità sorprendente. Un testo che, anche dopo più di un secolo, continua ancora a suscitare un odio rabbioso e ad essere messo all'indice - mentre allo stesso tempo ha una diffusione pari a quella della Bibbia - un testo del genere deve per forza contenere tanta dinamite intellettuale quanto ne possa bastare per un'epoca intera.
Ciò malgrado, il "Manifesto" ormai non potrà più festeggiare il suo 150° anniversario come se fosse un documento che viene discusso in maniera controversa nel bel mezzo del tumulto delle lotte sociali. In un qualche punto degli anni 1980 - al più tardi con la grande svolta verificatasi nel 1989 - questo testo rimasto scottante per così tanto tempo, improvvisamente tutt'a un tratto è diventato freddo e scialbo; è come se, da un giorno all'altro il suo messaggio si fosse come ingiallito, e oggi, anche se lo si studia ancora, lo si fa ormai «senza né odio né passione», come se fosse solo la testimonianza di una storia finita.
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Anni Settanta e violenza politica
di Marco Grispigni
Nel solco aperto dall’intervista a Paolo Persichetti, ospitiamo un contributo di Marco Grispigni sul tema della violenza politica nel lungo Sessantotto italiano. Un tema che non può essere eluso nel dibattito storiografico sul periodo, ma che vede ancora oggi gli storici e le storiche arrancare, in linea generale, di fronte alla voluminosa preponderanza delle interpretazioni politico-giornalistiche e, in tono minore di quelle memorialistiche. Prendendo a pretesto il volume di Gentiloni Silveri sulla storia dell’Italia repubblicana, Grispigni evidenzia i limiti di buona parte delle ricostruzioni storiografiche sul tema della violenza politica.
Dalla definizione dell’oggetto stesso degli studi (cos’è esattamente la violenza politica?) alla periodizzazione del fenomeno (con le polemiche intorno al ruolo periodizzante dei due «grandi eventi» rappresentati dalla Strage di Piazza Fontana e del rapimento e uccisione di Aldo Moro, fino alla (in)capacità di leggere la varietà fenomenologica del fenomeno armato sul piano non solo dei repertori d’azione, ma anche della progettualità e della capacità di comunicare ed interagire coi movimenti di massa.
Se conoscere ciò che eravamo ci permette di capire meglio ciò che siamo oggi, l’importanza del tema della violenza politica negli anni Settanta del secolo scorso non risiede solo, quindi, nella necessità di comprendere il fenomeno in sé, ma anche e soprattutto in quella di saperlo collocare in modo corretto nella storia recente d’Italia, sottraendolo dal ruolo di «alibi» per qualsiasi ricostruzione storica ad uso politico che assolva dalle proprie responsabilità una classe imprenditoriale e politica che, in modo bipartisan, ci ha portato esattamente alla situazione in cui siamo. [A. P.]
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Dall’austerità di Berlinguer, al cancello di Arundhati Roy
di Lelio Demichelis
Gennaio 1977: al Teatro Eliseo di Roma si svolge un Convegno di intellettuali – promosso da Enrico Berlinguer e dal suo Pci – su un tema particolarissimo e anche molto scivoloso, quello dell’austerità come via per arrivare, se non ad una società socialista almeno ad una società più giusta. È un rovesciamento radicale delle forme classiche (ottocentesche e novecentesche) del marxismo. Il Convegno fece allora molto discutere, ma verrà anche archiviato/rimosso con grande rapidità.
È stata una grande occasione persa? Forse sì, se rileggiamo quell’evento con gli occhi di oggi – dopo quarant’anni di neoliberalismo e di tecnologie di rete, di disuguaglianze sociali aumentate, di crisi ambientale/climatica che sarebbe già arrivata al ‘punto di non ritorno’ secondo Jonathan Franzen (e molti scienziati), di autocrazia/totalitarismo del sistema industriale/industrialista (o il totalitarismo della società tecnologica avanzata secondo Marcuse, che lo descriveva già settant’anni fa e oggi diventato ipertecnologico[i]), di classe operaia evaporata, di governo del mondo da parte di un oligopolio di imprese private (il Gafam e annessi e connessi). Quel Convegno e il successivo Progetto politico a medio termine, potevano essere analoghi al cancello di cui ha scritto Arundhati Roy a proposito della pandemia? – «un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e i cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo»[ii].
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Quello Draghi è il primo governo occidentale compiutamente "post-democratico"
di David Broder*
Con l'attuale quadro, "è estremamente preoccupante che una tale forza[Fratelli d'Italia] sia l'unica opposizione, con la sinistra sia assente che incapace di rappresentare qualsiasi tipo di alternativa politica a Draghi", secondo David Broder,storico del comunismo italiano e francese, nella sua interessante analisi che illustra come la il Governo Draghi sia il primo governo occidentale compiutamente "post-democratico"
Il nuovo governo italiano di Mario Draghi è stato salutato per aver unito tutte le forze politiche dal centro-sinistra alla Lega di estrema destra. Eppure l'adulazione dell'ex capo della Banca Centrale Europea come "salvatore nazionale" continua una tendenza che eleva le decisioni economiche tecnocratiche al di sopra delle scelte democratiche - e sono gli italiani della classe operaia che ne soffriranno.
Mai eletto a nessuna carica pubblica, il nuovo primo ministro ha voluto assicurare agli italiani comuni che aveva a cuore i loro interessi. Ex funzionario della Commissione europea, ha ribadito che il suo obiettivo era ricostruire la fiducia tra i cittadini e le loro istituzioni e superare il preoccupante crollo sociale causato dall'aumento della disoccupazione.
In vista del suo primo voto di fiducia al Senato, il nuovo premier ha promesso di far uscire l'Italia dalla crisi ripulendo le finanze pubbliche, combattendo l'evasione fiscale, garantendo la coesione sociale e riportando l'economia a una crescita sostenibile. I media hanno quasi unanimemente elogiato il tecnocrate per aver salvato l'Italia dal caos lasciato da una classe politica in bancarotta: in mezzo a tanta adulazione, non è stata una sorpresa che abbia iniziato il suo mandato con l'84% di consensi pubblici.
Tutto ciò è accaduto nell'autunno 2011, quando l'ex consigliere di Goldman Sachs Mario Monti è diventato primo ministro italiano. Il suo ormai famigerato governo ha continuato a introdurre una strabiliante austerità che ha spinto verso l'alto la disoccupazione ed ha portato ad un calo del 3% del PIL. Tale fu il crollo di questa figura "provvidenziale", che quando Monti si presentò alle elezioni politiche quindici mesi dopo la sua nomina, solo un elettore su dieci appoggiò il suo partito.
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Come sopravvivere alla valutazione al tempo del Covid
Manuale per docenti, studenti e genitori
di Rete Scuola Saperi e Cura
L’articolo che pubblichiamo di seguito è un contributo della Rete scuola saperi e cura sul tema della valutazione a scuola al tempo del Covid 19. La rete, formata da insegnanti genitori e studenti, è nata a Napoli durante la pandemia con l’intento di ripensare radicalmente l’educazione e la cura come processi sociali complessi e campi di battaglia sui quali si giocano il presente e il futuro, non solo della scuola. Ci sembra che, nel tempo di emergenza che viviamo, il tema del “giudizio” sui bambini e i giovani e la forma che esso assume a scuola sia uno dei nodi centrali dei quali peraltro si discute poco o lo si fa a partire da approcci nel migliore dei casi superficiali. A dispetto di quanto viene affermato nelle norme e nei discorsi ufficiali, la scuola è preda di una ossessione valutativa, intenta alla somma e alla misurazione delle cosiddette competenze, un furore che non riesce a fermarsi nemmeno davanti ad una crisi globale come quella che attraversiamo. È la prova che il ceto pedagogico ne è soggiogato avendo assorbito la pratica del “valutare e punire” come unico modo possibile. Intento della rivista è (anche) quello di dare spazio a quei gruppi che provano ad uscire da questo pensiero “a una dimensione”. (Gli asini)
“Se c’è una cosa che l’emergenza sanitaria ha messo bene in evidenza è la differenza tra ciò che è veramente indispensabile rispetto a ciò che non lo è. Niente più lezioni, voti, niente più test INVALSI, simulazioni o addestramenti, niente più Alternanza Scuola Lavoro, niente più verifiche. Dopo una prima sensazione di straniamento, è stato presto chiaro quello di cui si sentiva veramente la mancanza: la relazione umana, tra studenti e insegnanti, tra studenti e studenti. Anche se mediati o surrogati attraverso tecnologie più o meno efficaci, sono stati il dialogo e l’interazione ciò che abbiamo cercato e tentato subito di riprodurre.” (Rossella Latempa, 31/03/2020)
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Il partito dalle pareti di vetro
di Alba Vastano
I comunisti oggi sono messi con le spalle al muro e con la prospettiva di un futuro che li vede fuori dai giochi della rappresentanza politica… Un’accurata analisi sul che fare, sulle basi teoriche su cui si fonda e vive un partito comunista, può essere favorita dalla lettura del saggio ‘Il partito dalle pareti di vetro’ di Alvaro Cunhal, segretario generale del Pcp
Nell’anno domini 2021 la politica è morta, insieme con le ideologie già defunte. Sebbene questo in corso sia un anno importante per chi di un’ideologia in particolare ne fa il senso della propria vita. Ricorre quest’anno, infatti, il centenario della Fondazione del Partito comunista italiano, che modificò all’epoca e nei decenni a venire la visione del mondo, tentando di annullare il binomio dominante/dominato, re/suddito, padrone/schiavo e rendendo centrale la questione del lavoro e l’organizzazione della società. L’obiettivo a cui tendere per Antonio Gramsci, fra i fondatori del partito, e secondo Marx, il filosofo di Treviri, si basava sul rovesciamento di ogni forma di capitalismo, tramite la rivoluzione del proletariato. Cosa vuol dire oggi essere comunisti e praticare il comunismo sembra non essere più percettibile nella visione comune della società odierna globlizzata e nel linguaggio politico attuale. Anche perché la classe di appartenenza, il proletariato, ha cambiato forma e nome: da operaio/ lavoratore a consumatore in balìa dei mercati.
Tanto più complesso risulta agire in una realtà in cui il bene comune, i diritti sociali, la parità fra le persone e il principio di uguaglianza, uno di capisaldi della nostra Costituzione espresso nell’articolo 3 , sono valori scomparsi che hanno ceduto il posto alle privatizzazioni, alle riforme a danno del lavoratore, alla scomparsa del diritto per tutti ad una vita degna e dignitosa. Le politiche liberiste in atto hanno smantellato lo Stato di diritto per lasciare il posto allo Stato delle banche e degli speculatori finanziari, i grandi tycoon capitalisti.
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Contro il governo Draghi!
di Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
Nello spirito di collaborazione che si è instaurato con "Cumpanis”, “L’AntiDiplomatico” pubblica come anticipazione il nuovo editoriale della rivista
Venerdì 12 febbraio. Mario Draghi sale al Quirinale, scioglie la riserva e presenta la lista dei ministri. Nasce il suo governo. Solitamente, “il suo governo”, è una locuzione tendente - nella dialettica fra presidente del consiglio e ministri - a chiarire chi è il capo di un esecutivo. In questo caso, invece, “il suo governo” è un’espressione totalmente affermativa, nel senso che l’intero governo è sotto il potere di Draghi ed egli non ne è il presidente ma il “dictator”. Quali forze hanno determinato quest’esito nefasto per la democrazia italiana e, per essere meno elusivi, per il movimento operaio complessivo italiano, per “la classe”? Attraverso quali passaggi si è giunti a sottomettere il governo, il parlamento, l’intera politica, l’intero Paese al comando di Draghi? Le forze che hanno spento la luce della democrazia italiana non sono rintracciabili nel vacuo vaudeville della nostra politica: esse sono oltreconfine e oltreoceano e si svelano lungo l’asse euroatlantico Usa-Ue, Biden e Merkel-Macron. E’ decisivo collocare immediatamente e prioritariamente sia la caduta del governo Conte che la costituzione del governo Draghi nel contesto internazionale, poiché questa lettura dei fatti è - non casualmente - quella più rimossa e negata, sia dall’intero arco delle forze politiche parlamentari che dall’intero sistema mediatico. Come, infatti, tutti i cicisbei, i cavalier serventi degli USA, della NATO e dell’Ue che sostengono il governo Draghi, possono arrivare a disvelare la semplice verità, e cioè che sono state proprio queste potenze mondiali ad intervenire sul quadro politico italiano al fine di far cadere i due governi Conte, che, pur mantenendo una natura essenzialmente filo-imperialista, spostavano troppo, e “insopportabilmente” per gli USA, il loro asse commerciale verso la Russia e la Cina? E, conseguentemente, portare l’uomo di cui più hanno fiducia, Draghi, a guidare l’Italia e il nuovo Parlamento di spauriti vassalli che lo ha incoronato?
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Il centenario del Pcd’I e i caratteri originali del comunismo italiano
di Alexander Höbel
La storia del Pci è caratterizzata dal tentativo di percorrere una via originale al socialismo in Italia e in Occidente. Il tentativo è stato soffocato da oscure trame italiane e internazionali e dalle politiche liberiste e trasformazioni che hanno inciso pesantemente sull’aggregazione e la forza della classe lavoratrice
1. Il centenario della fondazione del Partito comunista d’Italia, che si sta ricordando in queste settimane, è stata l’occasione per riprendere la discussione sull’esperienza di quello che è stato il maggiore partito comunista dell’Occidente.
La lettura maggiormente veicolata nel dibattito pubblico dai media mainstream è stata quella che attribuisce al “peccato originale” della scissione comunista del ’21 tutti i mali della sinistra italiana, individuando nel Congresso di Livorno l’inizio di una vera e propria “dannazione”, quella appunto delle scissioni e delle divisioni. È una interpretazione che oscura un elemento decisivo, ossia che la frattura interna al movimento operaio si era prodotta non a Livorno, ma sul piano internazionale e su una questione decisiva come la guerra o la pace, allorché, nel 1914-15, i partiti socialisti e socialdemocratici, tradendo la marxiana parola d’ordine “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, avevano votato in massa i crediti di guerra, facendo fallire la II Internazionale e mandando i lavoratori di tutti i paesi a uccidersi sui campi di battaglia. La nascita della “sinistra di Zimmerwald”, di cui Lenin fu uno dei maggiori protagonisti, e poi dei partiti comunisti fu la reazione a tutto questo; del resto, la Rivoluzione d’Ottobre vinse con la parola d’ordine della pace, oltre a quella del “potere ai soviet”, ossia alla prospettiva di un ordine nuovo fondato sul potere dei lavoratori, di quel socialismo che finalmente sembrava farsi concreta realtà storica.
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L’imprinting come nuova logica dello sfruttamento
Oltre la dissoluzione del rapporto salariale*
di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli(1)
L’oggetto analitico di questo libro è lo sfruttamento contemporaneo, o meglio la sua indagine a partire dall’armamentario concettuale della critica dell’economia politica marxiana – e in particolare dalla nozione chiave di sussunzione – per poi metterlo alla prova della contemporaneità ed eventualmente aggiornarlo. In questo senso, il nostro lavoro affonda le radici in un dibattito tutt’altro che recente, almeno per quanto riguarda la galassia del neo-operaismo italiano. Infatti, già alla fine degli anni Settanta dalle preziose colonne della rivista «Primo Maggio», Christian Marazzi dava una lettura delle trasformazioni qualitative che avevano colpito la composizione di classe, e al contempo metteva in luce alcuni limiti che caratterizzavano l’armamentario teorico dell’operaismo degli anni Sessanta:
«assumendo come “prius” la classe operaia come misura del capitale e dei suoi movimenti ci si incolla di fatto ad una dimensione quantitativa dello scontro fra capitale e operai. Manca completamente la valutazione qualitativa, soggettiva delle trasformazioni che questo rapporto genera sulla dinamica complessiva della società. Questa dimensione qualitativa viene recuperata con la “crisi della legge del valore”, crisi che ci permette di “comportarci” soggettivamente al di fuori del vincolo capitalistico, al di fuori del “produttivismo” delle lotte operaie. La crisi della legge del valore è il coronamento coerente di questo primo operaismo, ma purtroppo è una analisi impotente di fronte alle trasformazioni indotte dallo stesso rapporto capitale-operai sul resto della società (come, ad esempio, la riarticolazione del processo produttivo sul territorio, il decentramento, le runaway industries, ecc). Sia chiaro, qui non si tratta di negare la crisi della legge del valore, ma di scavare nell’articolazione del suo processo di crisi, e quindi di evitare di assumerla come fatto lineare, teleologico» (2).
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Dominio senza egemonia
Appunti per una storia delle classi dirigenti italiane
di Carlo Formenti
Pubblico qui di seguito il testo integrale dell'intervento di cui ho letto un estratto nel corso del convegno "Malattia nazionale. Distorsioni di un capitalismo piccolo piccolo" che è appena stato trasmesso sui canali della Rete dei Comunisti e di Contropiano
La borghesia italiana non è mai riuscita a costruire uno Stato decente né ad aggregare un blocco sociale in grado di esercitare una reale egemonia (in senso gramsciano). Di conseguenza per conservare il potere, da un lato ha spesso dovuto ricorrere al dominio, schiacciando con la forza la resistenza delle classi subalterne quando si sono ribellate (senza riuscire a loro volta a produrre una concreta alternativa sistemica), dall’altro lato ha altrettanto spesso dovuto ricorrere all’appoggio esterno di potenze straniere.
Ciò vale fin dalla nostra costituzione come nazione indipendente. Il cosiddetto Risorgimento è stato l’esito, più che di una rivoluzione popolare (di cui si sono avuti solo accenni con episodi isolati come le Cinque Giornate di Milano e la Repubblica Romana), di guerre di conquista del Regno di Savoia a spese di altri staterelli, guerre che sono state vinte grazie all’appoggio francese prima e prussiano poi (senza dimenticare la benevola neutralità inglese: vedi lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). In particolare, l’annessione del Regno delle Due Sicilie è stata una vera e propria colonizzazione interna, associata all’espropriazione delle risorse del Meridione, che sono servite a finanziare l’accumulazione primitiva del capitalismo settentrionale, (vedi le analisi di Nicola Zitara) e dalla repressione selvaggia delle masse contadine cui non è stato concesso nulla perché occorreva assicurarsi il consenso dei latifondisti.
Il trasformismo e il giolittismo che hanno gestito il Paese unificato nei decenni successivi hanno offerto una ulteriore conferma della cronica incapacità di dare vita a robuste istituzioni statali e a una classe dirigente degna di tale nome.
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Con gli analfabeti non si può fare la guerra
di Leo Essen
Con gli analfabeti non si può fare la guerra
(Bertolt Brecht)
Sul numero 84 del 2001 della Rivista La Contraddizione, Vladimiro Giacché propone la traduzione di alcuni testi minori di Bertolt Brecht, ai quali premette una breve e preziosa presentazione che mostra quanto istruttiva era ancora la loro lettura. Soprattutto, dice Giacché, questi testi sono preziosi per fugare un luogo comune della politologia borghese contemporanea, rappresentato dall’opposizione di democrazia e totalitarismo. Luogo comune che, dice, ha il suo nume tutelare in Hannah Arendt, e che oggi (2001) è pienamente egemone, e consente di cogliere tre obiettivi in un colpo solo: a) trasformare la democrazia parlamentare in un feticcio; b) demonizzare l’esperienza sovietica, assimilata in tutto e per tutto alla Germania nazista; c) cancellare il puro e semplice dato di fatto che la Germania nazista fu un Paese capitalista.
Per quanto riguarda direttamente i testi di Brecht, devo ammettere che ancora oggi, 2021, sono utili per fugare altrettanti luoghi comuni della politologia borghese che dominano il dibattito televisivo-filosofico nostrano.
Non solo è importante tenere a mente che il fascismo è stato legato alla necessità di conservare l'ordine sociale capitalista, e che, qualsiasi cosa se ne dica, e nonostante le differenze, anche enormi, con gli anni Trenta del Novecento, il capitalismo è vivo e vegeto e cerca, anche con i mezzi più disumani, di organizzare le nostre esistenze.
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Militanza: ancora su rivolta e rivoluzione
di Franco Milanesi
Questo testo, tratto da: Franco Milanesi, Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, si coniuga a testi precedentemente pubblicati in occasione dell’inaugurazione della rivista, lo scorso settembre, sul tema «rivolta e rivoluzione»: Benedetto Vecchi, Una rivolta senza rivoluzione; Serge Quadruppani, L’incendio rivoluzionario contro la carbonizzazione del pianeta. (La seconda onda mondiale delle sollevazioni e ciò che essa combatte); Mimmo Sersante, Il tempo della rivolta
Il flusso della ribellione, le mete della rivoluzione
Il «fare» della militanza non è il passaggio all’atto di una teoria (come se ne fosse l’«applicazione») ma è la sua trasfigurazione nell’agire di un soggetto che si impegna per sovrapporre ideale e pratica politica. Questo nesso sconvolge alcune della categorie del politico, evidenziando i margini angusti di un linguaggio che transita quasi immutato dal XV al XX secolo. Osservate dall’angolazione del soggetto politico militante (fenomeno tipicamente novecentesco) alcuni concetti come rivolta, potere, ideologia – mostrano una slabbratura dei margini che obbliga ad un ripensamento che li adegui alla specificità del tempo della politica totale.
Questa critica alla tradizione concettuale occidentale è necessaria se si vogliono comprendere a fondo i due termini che hanno storicamente turbato e scosso la presenza borghese: rivolta e rivoluzione. La teoresi si è affannata attorno ad essi distinguendoli, unificandoli, contrapponendoli e soprattutto prendendo parte per l’uno o per l’altro. Ricostruire alcune curvature di questo percorso (così tipicamente novecentesco) serve a far chiarezza attorno al nucleo significativo della militanza.
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Raniero Panzieri: per un socialismo della democrazia diretta
di Pino Ferraris
Il 14 febbraio 1921 nasceva a Roma Raniero Panzieri, intellettuale marxista, militante e dirigente del Partito socialista italiano, poi fondatore e animatore, fino alla morte prematura (9 ottobre 1964), del gruppo e della rivista «Quaderni rossi». Lo ricordiamo con il saggio che Pino Ferraris gli dedicò nell’opera L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a cura di Pier Paolo Poggio, vol. II, Il sistema e i movimenti (Europa: 1945-1989), Jaca Book, Milano 2011, pp. 381-401
La figura di Raniero Panzieri ha avuto, nel corso degli anni e dei decenni successivi alla sua morte, un destino paradossale. Tra rimozioni e mitizzazioni, tra dispute patrimoniali e sommarie stroncature è accaduto che la sua biografia politico-culturale, che ha una robusta coerenza di fondo, sia stata spezzata, smembrata: il “meridionalista” di Palermo è stato assolutamente oscurato dall’“operaista” di Torino, il suo ruolo di dirigente politico viene scisso dalla sua attività di produttore di cultura, colui che «per tutta la vita si è dedicato al partito e che viene spinto da una sorta di disperazione a formare gruppi di altro genere»1 viene proposto come “il Battista” dei gruppi minoritari degli anni ’70.
Panzieri dedicò gran parte del suo impegno culturale a smontare “sistemi” cristallizzati di pensiero nel movimento operaio. Persino il suo approccio a Marx, punto di riferimento costante e sicuro della sua elaborazione culturale, era così libero e creativo da renderlo completamente disponibile «all’operazione chirurgica di separare il Marx vivo e ancor oggi utilizzabile da ciò che nella sua opera rappresenta gli incunaboli del riformismo e del diamat».2 La prima edizione postuma di una parte dei suoi scritti apparve inchiodata sotto l’incredibile titolo La ripresa del marxismo-leninismo in Italia.3
Il protagonista del disgelo culturale, l’anticonformista innovatore del pensiero di una sinistra che faticava a uscire dalle rigidità dogmatiche dello stalinismo e della guerra fredda, per un non breve periodo subì le deformazioni indotte da quel «recupero anacronistico di culture politiche da immediato dopoguerra»4 che coinvolse buona parte della sinistra degli anni ’70.
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La proposta di Jacques Bidet di ricostruzione e rifondazione del "Capitale" di Marx
di Bollettino Culturale
Il libro di Jacques Bidet, intitolato Explication et reconstruction du “Capital”, è così audace che il lettore si sente sfidato a seguire il suo autore dall'inizio alla fine. Non solo audace, ma anche estremamente provocatorio per chiunque proponga di leggere Marx alla luce di nuovi fenomeni contemporanei. Il libro ha un contenuto straordinariamente denso, che richiede una profonda conoscenza del Capitale da parte di coloro che desiderano giudicare, con correttezza, la proposta di rifondazione di Bidet.
La prima parte del suo libro è dedicata alla Spiegazione il cui scopo è quello di completare l'esposizione di Marx basata su ciò che ha lasciato implicito e persino incompleto. Più chiaramente, si tratta di aggiungere nuovi concetti all'esposizione di Marx che non sono stati esplorati da lui, ma che, in un certo senso, non gli sarebbero estranei. Nella seconda parte, la Ricostruzione, Bidet propone una nuova esposizione categorica del Libro I, in modo che "sia all'altezza delle sue ambizioni: scientificamente coerente, empiricamente rilevante e politicamente significativo".
La controversia sulle letture del Capitale
Chiunque si impegni in una simile impresa, non può ignorare che il Capitale è già oggetto di letture che godono di una certa posizione di monopolio nel campo accademico. Bidet lo sa molto bene. Mette in evidenza le tre interpretazioni più conosciute e accettate, sottolineando i loro crediti dovuti, sottolineando le loro inadeguatezze teoriche.
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La tendenza dominante è quella di affrontare le sfide storiche?
di Michael Roberts
Di recente, la neo-confermata segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, ed ex capo della Fed [N.d.T.: Il Federal Reserve System, conosciuto anche come Federal Reserve ed informalmente come la Fed, è la banca centrale degli Stati Uniti], Janet Yellen, ha esposto in una lettera indirizzata al suo stesso staff quali sono le sfide che il capitalismo statunitense dovrà affrontare. Ciò che ha detto è che « l'attuale crisi è assai diversa da quella del 2008. Ma la sua portata, e le sue dimensioni, se non più grandi, non sono da meno. La pandemia ha provocato la devastazione totale dell'economia. Intere industrie hanno sospeso il loro lavoro. Sedici milioni di americani si trovano ancora a dipendere dall'assicurazione sulla disoccupazione. Gli scaffali dei magazzini dei supermercati si stanno svuotando. » Questo è adesso; ma andando avanti, leggiamo che Yellen dice che ci sono state « quattro crisi storiche: il Covid-19 è una. Ma in aggiunta alla pandemia, il paese sta affrontando anche una crisi climatica, una crisi di razzismo sistemico, e una crisi economica che si prepara da cinquant'anni. »
Yellen non ha specificato quale sarebbe questa crisi cinquantennale. Ma si è dimostrata fiduciosa che l'economia dominante è in grado di trovare la soluzione a tutte queste crisi.
« L'economia non è solo qualcosa che si può trovare sui libri di testo. Non è nemmeno, semplicemente, un insieme di teorie.
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Il PCI e il complesso problema della bolscevizzazione del partito
di Angelo D’Arcangeli
Il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia sta suscitando numerosi dibattiti, iniziative e pubblicazioni, in un intrecciarsi di ricordi, commemorazioni e riflessioni sul passato, sul presente e sul futuro. Tra nostalgia e sogni di nuovi assalti al cielo.
Il PCI è stato un protagonista assoluto del ‘900 italiano e la sua esperienza, ricca e contraddittoria, oltre a suscitare ancora un certo immaginario contiene molti elementi utili per la nostra “cassetta degli attrezzi” e, quindi, per approcciare con maggiori strumenti e cognizione di causa con il grande enigma irrisolto dello scorso secolo: la rivoluzione in Occidente.
E’ questa l’ottica e questo il motivo per cui occorre “fare i conti” con la storia del PCI, tirarne un bilancio. Senza inutili giudizi schematici e facili “ismi” o, al contrario, semplificazioni accondiscendenti verso importanti errori politici. Ma, semplicemente, per imparare. O, almeno, per cercare di farlo.
A questo fine condivido alcune riflessioni sulla storia del PCI, come contributo al dibattito e ad un’elaborazione più vasta e articolata, collettiva. Lo faccio soffermandomi su alcuni snodi della storia del partito che reputo particolarmente importanti e, anche, molto utili per comprenderne il percorso.
Il PCI nacque per la potente spinta data dalla Rivoluzione d’Ottobre al movimento socialista e operaio di tutto il mondo e per un Biennio rosso che aveva mostrato, rovinosamente, l’insufficienza rivoluzionaria del PSI.
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Riprendiamoci i saperi, riprendiamoci la vita
Emiliana Armano dialoga con Antonella Corsani
In occasione della recente pubblicazione del suo libro, Chemins de la liberté. Le travail entre hétéronomie et autonomie abbiamo invitato Antonella Corsani ad approfondire presupposti e implicazioni della sua ricerca.
Questo libro si iscrive in una prospettiva critica delle tesi sul capitalismo cognitivo – concetto che Antonella Corsani ha contribuito in modo importante ad introdurre nel dibattito teorico-politico – ed è scritto a partire dalla sua esperienza di inchiesta di più di quindici anni, prima nel movimento degli intermittenti dello spettacolo, poi nel movimento delle cooperative di attività e di impiego. È contemporaneamente uno studio di ampio respiro, insieme militante e teorico, che investe trent’anni di elaborazione critica e pratica del pensiero post-operaista, e ricostruisce in maniera chiara e puntuale la nascita negli anni ‘90 e la successiva articolazione delle tesi sul capitalismo cognitivo. Uno studio che ha il coraggio e il merito di fare un bilancio sulle coordinate teoriche fondamentali di un concetto, che è stato centrale nella teoria dei movimenti radicali. Riuscendo a tenere coesa, in una visione militante e rigorosa, sistematica e severa, la teoria e l’esperienza politica in un tentativo di situare questi diversi piani in maniera relata. In corso d’opera, durante il periodo di elaborazione ho avuto il piacere di dialogare con Antonella Corsani e ora quello di poterle rivolgere alcune domande sugli intenti e sulle tesi contenute nel suo libro per poterlo far conoscere e discutere. Qui di seguito riporto questo dialogo.
* * *
D. Vuoi fornire, ai lettori, qualche elemento sul percorso teorico e politico che ti ha condotta a scrivere Chemins de la liberté. Il progetto come è nato? Come si è inserito tra la contingenza del tuo attuale lavoro di ricerca in Università e i tuoi precedenti studi e ricerche militanti? Come hai pensato che fosse l’occasione di fare il punto di un percorso collettivo…?
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Covid: il punto di vista di Liberiamo l'Italia
di Sollevazione
I. Premessa
Ad un anno dal suo inizio, dovrebbe essere chiara a tutti la volontà politica di costringerci in uno stato di emergenza perpetuo.
L’Operazione Covid è stata accuratamente pianificata dall’alto e costruita a vari livelli, anche se nel nostro Paese l’emergenza sanitaria che ne è seguita è figlia anzitutto dello sfascio della sanità italiana, causata dalla crescente privatizzazione e da decenni di tagli targati “Europa”.
Il Covid è però anche un’arma, lo strumento che l’oligarchia dominante sta usando (non solo in Italia) per rimodellare la società in base ai propri disegni ed interessi. Da qui la politica delle chiusure per far sì che il pesce grosso mangi quelli piccoli; da qui l’imposizione delle attività “a distanza” per isolare le persone l’una dall’altra; da qui la narrazione terroristica per coprire il dramma della disoccupazione e della precarietà che ne consegue; da qui le mille misure autoritarie pensate per fermare sul nascere ogni opposizione.
“Great Reset” per l’appunto definisce icasticamente la corrente strumentalizzazione della cosiddetta pandemia al fine di instaurare il nuovo ordine mondiale di cui il World Economic Forum è l’ennesimo latore. In questo quadro la “Finanziarizzazione dell’Economia” organizzata in modo da drenare risorse dall’Economia Reale, nel cui ambito si svolgono le nostre attività quotidiane, ha raggiunto ormai dimensioni ipertrofiche e non è più in grado di sostenersi continuando a drenare risorse, senza collassare. L’enorme progressiva capitalizzazione dei cosiddetti derivati, vere e proprie scommesse sulle quotazioni dei titoli, ha raggiunto dimensioni pari a molti multipli del PIL mondiale.
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Piano contro mercato
di Carlo Formenti
Pensieri a margine di un libro di Pasquale Cicalese e di un post di Alessandro Visalli
Per uno studioso di economia che si ispira esplicitamente al marxismo e che – “difetto” ancora più grave – non appartiene alla corporazione degli economisti accademici, trovare una collocazione editoriale per i propri scritti è impresa al limite dell’impossibile. Pasquale Cicalese ci è riuscito grazie alla coraggiosa iniziativa degli amici del sito Lantidiplomatico https://www.lantidiplomatico.it/ i quali, dall’agosto 2020, hanno lanciato la L. A. D. Gruppo editoriale, una casa editrice che pubblica e.book e libri acquistabili online. Il suo libro Piano contro mercato. Per un salario sociale di classe raccoglie una serie di articoli pubblicati su diversi siti (Marx 21, Contropiano, Lantidiplomatico, Carmillaonline e La Contraddizione) in un arco temporale che va dal 2012 al 2020.
Nella “Prefazione” Guido Salerno Aletta – nome noto ai lettori di Milano Finanza - anticipa le ragioni di un titolo che evoca lo scontro fra i due modelli di sviluppo che oggi si fronteggiano a livello globale: da un lato, il dominio del Mercato che caratterizza il mondo occidentale, dall’altro il dominio della Politica che caratterizza la Cina, ovvero centralità dell’accumulazione finanziaria versus centralità del salario sociale. Mentre nelle prime righe della “Postfazione” Vladimiro Giacché dichiara senza mezzi termini di considerare Pasquale Cicalese “uno dei pochi economisti italiani che valga la pena di leggere”, e questo non tanto e non solo perché non è un economista accademico, quanto perché “poche categorie professionali sono uscite screditate come questa dalla Grande Recessione e, più in generale, dalle vicende economiche dell’ultimo decennio”. Provo a spiegare perché condivido questo giudizio.
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