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SuperMario, e il porto sicuro in cui approdò il Titanic
di Simone Luciani
Abbiamo un vincitore, ed è «La Stampa». Nel rito pagano dei Baccanali in onore del tecnico che arriva e salverà (indubbiamente…) il Paese, nella zuccherosa, colesterolemica orgia di ritratti e bozzetti in lode del deus ex machina della tragedia (amara, invece, amarissima) di un’Italia lacerata a livello sanitario, economico, sociale e psicologico, per distacco è il quotidiano torinese, già della famiglia Agnelli, già di De Benedetti, di nuovo della famiglia Agnelli, a sbaragliare la concorrenza e stendere gli avversari con una combinazione montante-jab-montante cui nessun organo di stampa potrebbe resistere.
E sì che i giornaloni ce l’hanno messa tutta, nella gara a portare l’omaggio più gradito. Non uno che manchi all’appello, in biografie a tutta pagina che somigliano a un elenco di trofei degno delle teche in vetro del Barcellona. Una laurea con Caffè di qua (chissà che direbbe, a proposito…), un dottorato di là, una medaglia su, un civil servant di giù, il whatever it takes che troviamo a pagine unificate praticamente ovunque.
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Il giorno della marmotta: il ritorno dei tecnici
di Lorenzo Zamponi
Dieci anni dopo Monti, con Mario Draghi torna il «governo tecnico», una specialità italiana che segna l'ennesima morte della politica. L’élite economica prova così ad apparecchiare la tavola per gestire in modo diretto i soldi in arrivo dall’Ue
Il due febbraio è il giorno della Candelora, quando per tradizione si dovrebbe poter prevedere la fine dell’inverno. È il «giorno della marmotta» in cui è ambientato Ricomincio da capo, film del 1993 in cui il personaggio interpretato da Bill Murray è condannato a rivivere all’infinito la stessa giornata. Ed è parso a molti di rivivere le giornate dell’autunno 2011 quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prendendo atto del fallimento del tentativo di ricomporre l’alleanza di governo tra Pd, M5S, Leu e IV, ha annunciato il varo di «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica», e dato l’incarico di formare il nuovo governo a Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della Banca centrale europea.
Si prospetta all’orizzonte un nuovo governo tecnico, a dieci anni dall’esecutivo guidato da Mario Monti. Il clima mediatico è sorprendentemente simile: a due ore dall’annuncio di Mattarella, già si leggevano e si sentivano lodi sperticate all’«uomo che ha salvato l’Europa e ora salverà l’Italia» e si agitavano scenari apocalittici in caso di fallimento dell’operazione, dal ritiro dei 209 miliardi di Next Generation Eu al ritorno del rischio di default. Con ogni probabilità nelle prossime ore la pressione dei mercati e delle cancellerie europee si farà sentire con forza, magari attraverso il solito meccanismo dello spread, in modo da convincere anche i renitenti, nell’opinione pubblica e in parlamento, ad appoggiare Draghi.
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Perché bisogna dire no a Draghi
di Alessandro Di Battista - TPI
Ognuno avrà la sua opinione su Mario Draghi e sulla crisi politica italiana. Ma oltre alle opinioni esistono i fatti. Elenchiamoli. La lenta costruzione di un governo caro alle élite nasce nell’estate del 2019 quando Renzi aprì al Movimento 5 Stelle solo per prendere tempo. Incassò un paio di ministri e subito dopo creò IV, preoccupandosi, ovviamente, di lasciare svariati “pali” renziani all’interno del PD. Se non ci fosse stata la pandemia la demolizione del Conte II sarebbe avvenuta mesi fa. Questa fu la ragione per la quale mi opposi ad un governo con il PD. Semplicemente non mi fidavo di Renzi e, soprattutto dei suoi ventriloqui. La Storia parla da sé.
Altro fatto incontrovertibile: tutto l’establishment italiano ha lavorato incessantemente per evitare che il Movimento 5 Stelle governasse liberamente. Ricordo lo spread ballerino all’inizio del Conte I, ricordo gli attacchi dei giornali, ricordo le fantasmagoriche inchieste sull’occultamento di frigorifero da parte del padre di Di Maio.
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Il drago che verrà
di Mauro Poggi
Ci aveva già provato nel 2018 con l’esiguo Cottarelli, ora pare che il presidente Mattarella ci voglia riprovare con il ben più sontuoso Draghi in odore di quirinalato.
Al di là della pretestuosità della motivazione ufficiale (la crisi economico-sanitaria), a impedire la naturale soluzione elettorale è la consapevolezza che l’esito segnerebbe un tracollo per i partiti che hanno sostenuto il Governo Conte 2 e “consegnerebbe il Paese alla destra”. Ne seguirebbe un governo inviso all’Europa, con prevedibili ritorsioni su Recovery Fund e spread.
Un concetto espresso in tutte le salse da vari autorevoli commentatori, ognuno incurante del fatto che questo modo di ragionare sancisce l’impressionante declino della ragione democratica, iniziato da quando il Paese si consegnò anima e corpo alle ragioni europeiste.
È probabile che l’ipotesi di un governo tecnico presieduto da Draghi goda già di ampio consenso in Parlamento: sarebbe strano che il Presidente della Repubblica commettesse lo stesso errore del 2018, quando cercò di imporre un nome che alla prova dei fatti nessuno voleva.
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Il “golpe bianco” di Mario Draghi (dopo quello di Monti del 2011)
di Fabrizio Marchi
Siamo al secondo commissariamento del Paese dopo quello del 2011 quando Berlusconi fu defenestrato dal “golpe bianco” di Monti, sostenuto ovviamente dall’establishment dell’Unione Europea, di cui Monti è un solerte e fedele funzionario.
All’epoca in tanti (un po’ gonzi, lo vogliamo dire?…) festeggiarono per la caduta di Berlusconi, non capendo che si stava aprendo l’era della “tecnocrazia” come vera e propria “tecnica” e modalità di governo.
Ora sta accadendo la stessa identica cosa, cambiano solo gli attori, protagonisti e comprimari, con Mario Draghi che entra prepotentemente sulla scena, dopo che molti illustri analisti o presunti tali (lo ricordo benissimo) per molto tempo avevano ripetuto che il “nostro” non aveva nessuna intenzione di “scendere direttamente in politica” e tanto meno di assumere le redini del governo. In realtà è proprio questo il modo per preparare la scesa in campo di un tecnocrate, costruendogli l’immagine di uomo super partes, appunto, di “tecnico” fuori dalle beghe e dalle litigiosità dei partiti ed estraneo ad una classe politica arruffona, inadeguata e screditata; insomma, una sorta di salvatore della patria.
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Il governo tecnico di Draghi: la nuova marcia su Roma
di Niccolò Biondi
Dopo la caduta del governo Conte – che, con tutti i limiti e le contraddizioni del caso, ha rappresentato una parziale tregua rispetto alle politiche di macelleria sociale e smantellamento della Costituzione degli ultimi trenta anni – si sta profilando all’orizzonte un governo tecnico guidato da Mario Draghi, nel giubilo dell’establishment politico e mediatico che incensa di lodi il “salvatore della patria”.
I governi tecnici sono, da sempre, la migliore prospettiva per i liberali e per le categorie sociali (soprattutto imprenditori e industriali) che rappresentano, nonché il punto in cui il liberalismo economico sfocia nell’autoritarismo. In questa ottica si può affermare che il governo tecnico guidato da Draghi si configuri come una nuova marcia su Roma, che inaugura una nuova stagione politica reazionaria, con logiche politiche neocorporativa all’interno di un governo diretto del capitalismo italiano. Ma andiamo per ordine. Come mai il governo “tecnico” rappresenta l’ideale politico liberale, ed è un punto di congiunzione con l’autoritarismo e il fascismo?
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Draghi Presidente, ce lo spiega l’Unione Europea
di coniarerivolta
La crisi politica che si svolge sotto i nostri occhi appare difficile da decifrare se ci limitiamo alle dinamiche partitiche e personali. Sicuramente c’è stato un duello tra Conte e Renzi, sicuramente Italia Viva vorrebbe avere più peso nel governo e, soprattutto, nella spartizione delle risorse pubbliche che sarà definita nel Recovery Plan. Eppure, ci sembra impossibile comprendere quello che sta succedendo se non si allarga lo sguardo al contesto economico e sociale entro cui si svolge il teatrino dei tavoli di trattativa, del toto-ministri e delle conferenze stampa. Il contesto è quel piano inclinato che determina le tendenze di fondo, ovvero le dinamiche principali, più importanti, che trascinano dietro di sé tutti gli altri eventi, le carriere politiche dei singoli, le fortune dei partiti.
La più efficace fotografia del contesto ce la offre, su un piatto d’argento, una figura chiave dell’establishment europeo, Marco Buti, il capo di gabinetto (ruolo tecnico-politico) del Commissario Europeo agli Affari Economici e Finanziari Paolo Gentiloni. In una lectio magistralis all’Università di Firenze del 29 gennaio, Buti sintetizza i possibili scenari che aspettano l’Italia dietro l’angolo della crisi politica, attraverso l’immagine di una “trilogia impossibile”.
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La tecnica non è mai neutrale. Guida critica alla Draghi-mania
di Mattia Marasti, Alessandro Bonetti e Matteo Lipparini
In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, mentre la crisi economica si intreccia a quella sanitaria, la classe politica ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza. Ponendo meschini egoismi davanti alla stabilità del governo, ci si è addentrati in una crisi politica inopportuna, innescata fra le altre cose dal MES. Uno strumento che perfino Cottarelli e Boeri ritengono inutile in questo momento.
È iniziata poi una guerra personale di veti incrociati, comizi davanti ai giornalisti e lunghe attese, incomprensibili a una popolo già abbastanza provato.
In circostanze diverse, questa crisi avrebbe portato il Presidente della Repubblica a sciogliere le camere convocando elezioni anticipate. Ma viste le circostanze, Mattarella ha preferito convocare l’ex governatore della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea Mario Draghi.
Draghi è un personaggio più complesso di quello che si sta dipingendo in queste ore. Quello che però desta preoccupazione è l’idea che la tecnica sia, in qualche modo, il silver bullet per risolvere problemi che affliggono il nostro Paese da oltre 30 anni.
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Dal Gruppo Gramsci all'autonomia operaia: un percorso tutt'altro che lineare(I)
di Piero Pagliani
Introducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista "Rosso" sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell'Autonomia non sia nata dal filone "classico" dell'operaismo che si è dipanato da "Quaderni Rossi" a "Contropiano", bensì da un'altra componente "eretica" delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell'area marxista leninista "ortodossa", la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta - dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale - due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo "continuista" del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un'adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono - non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato - al tragico epilogo della storia dell'Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti)
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Il vaccino chi salverà?
di Luca De Crescenzo
I. L’economia politica dei vaccini
Il mondo ha festeggiato il nuovo anno all’insegna del vaccino, nella speranza di potersi mettere alle spalle quello appena trascorso, guarendo definitivamente dalla pandemia che l’ha colpito. Con il taglio delle scorte e i ritardi nelle consegne delle dosi di Pfizer e AstraZeneca, l’entusiasmo ha cominciato a lasciar spazio alla preoccupazione. Il punto è che non basta un farmaco a fare la cura. Vale per l’individuo ma vale anche per la popolazione. Per la fisiologia dell’organismo le condizioni di vita incidono sul decorso di una malattia quanto la medicina pensata per curarla. Per quella dell’intera umanità, la modalità e la velocità con cui la medicina viene distribuita e prodotta incidono quanto il suo profilo farmacologico. L’economia politica è la farmacocinetica delle masse. Nel caso della pandemia da Covid, più spazio e tempo di diffusione si concede al virus, più strade gli si offrono per mutare, per diventare non solo più virulento o infettivo ma anche eventualmente capace di aggirare le protezioni immunitarie suscitate dai vaccini, vanificandone l’efficacia e ricominciando il ciclo. L’epidemiologo evoluzionista Robert Wallace ha chiamato “molteplicità di gregge”1 questa possibilità di esplorazione concessa al virus, in contrapposizione a chi riteneva che lasciargli libertà fosse la strada per raggiungere “l’immunità di gregge”. Un illusione svanita con i brividi suscitati dall’emergere delle varianti prima inglese, poi sudafricana e ora brasiliana. Come ha detto Philip Kraus, che coordina il gruppo di esperti sui vaccini dell’OMS, “la rapida evoluzione di queste varianti suggerisce che se è possibile che il virus evolva un fenotipo resistente ai vaccini, questo può accadere prima di quanto sperassimo”2. In questa corsa alle armi contro il virus, il sistema immunitario della nostra società soffre di pericolose patologie.
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Il mito del deficit
La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo
di Stephanie Kelton
Care lettrici e cari lettori italiani,
in questo libro utilizzo le lenti della teoria monetaria moderna (Modern Monetary Theory, MMT) per mostrare che, contrariamente a quanto gli economisti mainstream e i politici ci raccontano da decenni, i governi che emettono la propria valuta (che detengono, cioè, la sovranità monetaria) non possono mai “finire i soldi”, né possono diventare insolventi (fare default) sui titoli di debito emessi nella loro stessa valuta. A dire il vero non hanno neanche bisogno di emettere titoli di Stato per finanziare i propri deficit di bilancio. Né hanno bisogno di ricorrere alla tassazione per finanziare le proprie spese. Questo perché, in quanto emittenti di valuta, a differenza delle famiglie e delle imprese, che sono dei semplici utilizzatori di valuta, gli Stati che dispongono della sovranità monetaria possono semplicemente creare “dal nulla” tutto il denaro di cui hanno bisogno. Questi governi, dal punto di vista tecnico, hanno una capacità di spesa illimitata nella propria valuta: possono cioè acquistare senza limiti tutti i beni e servizi disponibili nella valuta nazionale. (Come spiego nel libro, questo non implica che i governi che emettono la propria valuta debbano spendere o incorrere in deficit senza limiti; esistono dei limiti, solo che non sono di natura finanziaria).
Comprendere questa semplice verità equivale a fare un vero e proprio salto di paradigma, perché significa che la maggior parte dei paesi – e in particolare le nazioni industrializzate tecnicamente avanzate e altamente sviluppate che spendono, tassano e prendono in prestito nelle proprie valute inconvertibili (e adottano un regime di cambio fluttuante) – possono “permettersi” (letteralmente) di fare molto di più per incrementare il benessere dei propri cittadini e più in generale per perseguire qualunque obiettivo politico scelgano di prefissarsi (penso per esempio alla mitigazione del cambiamento climatico) di quanto comunemente si creda.
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Forum Cina /2. La linea di Mao
di Roberto Sassi
Intervento al convegno La Cina nel mondo multipolare il 16 Gennaio 2020
Premessa
La mia relazione coprirà un arco di tempo piuttosto ampio ed affronterà problemi complessi, fortunatamente come introduzione ai temi trattati posso rimandare all’ottimo intervento del compagno Angelo D’Arcangeli per l’Accademia Rebelde il 27 novembre 2020 (https://youtu.be/ltRjeWEkAuo), che ripercorre in maniera sintetica le origini della rivoluzione cinese, il suo sviluppo e i primi decenni dell’edificazione socialista.
Nel periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 al 1976, anno in cui muoiono Zhou Enlai e Mao Zedong e la Cina cambia profondamente, esulando dai dati meramente macroeconomici, l’aspettativa di vita è passata da 40 a 65 anni (in India, nello stesso periodo, è passata da 38 a 54); la popolazione cinese è cresciuta da circa 550 milioni a circa 900 milioni di abitanti; il tasso di alfabetizzazione è passato dal 20% ad oltre il 65%; l’emancipazione della donna ha raggiunto grandi traguardi.
In questi anni, il governo è stato saldamente in mano al Partito Comunista Cinese, che pure ha sviluppato al suo interno e riversato nella società un ampio e spesso aspro confronto sui temi dell’edificazione della società socialista, così come ampio ed aspro fu spesso il confronto durante il precedente sviluppo della guerra di popolo.
Le figure di Mao Zedong e Zhou Enlai sono espressione con una certa evidenza di due tendenze: una dinamica, volta al movimento, al superamento degli assetti raggiunti, l’altra equilibratrice, volta alla stabilizzazione, al consolidamento dei risultati ottenuti.
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La democrazia sociale novecentesca come forma politica della parità relativa tra capitale e lavoro
di Mattia Gambilonghi*
L’obiettivo del saggio in questione è quello di chiarire l’accezione del termine che dà il titolo al volume, quello, cioè, di “democrazia sociale”, e, in secondo luogo, di mettere in luce il legame che questa particolare forma politica viene ad instaurare, da un lato, con il cosiddetto costituzionalismo democratico-sociale (o “della seconda ondata”), e, dall’altro, con le forme di interventismo e di governo dei processi economici e sociali affermatesi a partire dall’entre-deux-guerres.
Inizieremo col dire che l’idea e il concetto di “democrazia sociale” ci sembra in larga parte coincidente e sovrapponibile con quello di “Stato sociale”, a patto però di concepire quest’ultimo non, à la Fortshoff, semplicemente come un segmento o una sezione dell’ordinamento politico e della sua organizzazione, ovvero come l’insieme delle erogazioni e delle prestazioni che attraverso le politiche economiche e di bilancio sono assicurate dallo Stato per tutelare e garantire i soggetti più deboli o in condizioni di difficoltà. Al contrario, secondo uno sguardo ed un approccio improntati alla globalità, lungi dall’essere un qualcosa di non-strutturale e di estremamente contingente e congiunturale – legato cioè ai programmi e alle deliberazioni politiche e in ragione di ciò inevitabilmente destinato ad espandersi o a contrarsi in base agli orientamenti del momento – lo Stato sociale va qui inteso nella sua accezione più larga e specificamente giuridica, sarebbe a dire, come una vera e propria forma di Stato dotata di una propria specifica razionalità interna e proprio per questo capace di distinguersi e di differenziarsi dal punto di vista qualitativo sia dai suoi predecessori, come ad esempio le varianti e diverse declinazioni dell’ottocentesco Stato liberale di diritto (Rechtsstaat, rule of law, ecc.), che dalle forme politiche caratterizzanti invece il ciclo neoliberale inauguratosi nel corso degli anni Ottanta.
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Rosso: quindicinale del Gruppo Gramsci*
di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita
Pubblichiamo la prima delle tre sezioni di archivio della rivista «Rosso». A questa seguiranno «Rosso – giornale dentro il movimento» e «Rosso – per il potere operaio».
La raccolta è scaricabile gratuitamente in fondo a questa pagina
Può apparire strano che la nascita della più celebre rivista dell’Autonomia non sia da attribuire a nessun segmento di quella dirompente costellazione teorico-politica che si è soliti chiamare «operaismo» italiano. Tanto più che, proprio a leggendarie pubblicazioni periodiche, le molteplici traiettorie del marxismo operaista hanno legato, da «Quaderni rossi» a «Contropiano», la loro travagliata fortuna.
Imprevedibili diversivi del caso? Bizzarrie della Storia? Oppure segni indicativi che prefigurano ciò che sarà? Difficile da dire. Di sicuro, sulla copertina del primo numero – recante la data del 19 marzo 1973 – si legge: «Rosso quindicinale politico-culturale del Gruppo Gramsci».
Agli albori, dunque, c’è un’altra eterodossia: quella deviazione dal formalismo dogmatico della tradizione emme-elle, praticata da un’area in rotta con il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) e facente capo a Romano Madera. Se l’intera vicenda di «Rosso» è avvolta dalle nebbie della rimozione, pedaggio pagato al permanere d’una riserva inquisitoria in campo storiografico, altrettanto arduo risulta ricostruire il profilo della realtà che ne promosse la fondazione. Delle ragioni di questa difficoltà si è scritto di recente, alludendo – da un lato – ai velenosi frutti della stagione repressiva e, dall’altro, a quella naturale assimilazione del «prima» al «dopo» che si generò, nella percezione di molti protagonisti, al momento dello scioglimento del Gruppo, ufficializzato nel dicembre del ’73.
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Profitto contro stato sociale: la crisi accelera la resa dei conti
di coniarerivolta
È passato meno di un anno dallo scoppio della pandemia da Covid-19 in Italia. Ad oggi, nonostante i diversi vaccini messi a punto, siamo ben lontani dal poter parlare della fine dell’emergenza. Molti settori economici sono tutt’ora interessati da limitazioni e da vere e proprie chiusure. Alcuni dei servizi essenziali funzionano ancora a singhiozzo, come i servizi sanitari e la scuola. I contagi giornalieri sono ancora oltre diecimila in tutto il Paese e i morti si contano a centinaia ogni giorno. Anche la campagna vaccinale va a rilento.
In parole povere, il ritorno alla normalità sembra ancora lontanissimo, per molti aspetti. C’è, però, un ambito nel quale la normalità potrebbe tornare prima del previsto: quello della disciplina di bilancio. Il problema è che non è una buona notizia. Il termine disciplina, infatti, non ha nulla a che vedere con le presunte virtù che potrebbe evocare. Con disciplina di bilancio si identifica il rispetto del pareggio tra le entrate e le uscite dello Stato, un’imposizione che da quasi trenta anni soffoca la crescita economica, con conseguente aumento della disoccupazione, e che ha portato il Paese ad affrontare l’emergenza Coronavirus con un sistema sanitario fortemente indebolito. È il binario morto dell’austerità, tanto caro alle classi dominanti e all’Unione Europea, dal quale solo negli ultimi mesi, per effetto del crollo delle entrate fiscali e delle (insufficienti) misure tampone per l’economia, si è temporaneamente deviato. Ma la normalità, intesa come pieno ossequio di questo paradigma, pare dietro l’angolo.
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Capitale senza rivoluzione?
di Riccardo Bellofiore
Pubblichiamo la relazione di Riccardo Bellofiore alla conferenza sul centenario della rivoluzione d’ottobre tenuta a Roma il 18-22 gennaio 2017 e organizzata dall’associazione e rete C17. L’intervento è stato trascritto e pubblicato in Comunismo necessario – Manifesto a più voci per il XXI secolo, a cura di C17 (Mimesis, 2019).
L’intervento è strutturato in due parti. Nella prima troverete le domande poste da C17. La seconda parte è dedicata alle risposte di Riccardo Bellofiore
Domande di C17:
Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e la produzione di soggettività (ambivalente) che segnano das Kapital contemporaneo.
1. Aggiornare la critica
Condizione e finalità della critica dell’economia politica borghese è, per Marx, l’esistenza delle classi e la loro incessante lotta: attraverso la «scoperta» dello sfruttamento, la critica marxiana rende visibile la società divisa in luogo dell’individuo isolato e la storia in luogo dell’eternità delle categorie dell’economia politica. Tuttavia, il nuovo paradigma economico-politico «borghese» oggi dominante ha radicalmente modificato il suo oggetto e le forme attraverso cui mistifica il conflitto di classe: alle classi sociali è stato sostituito l’individuo proprietario, alla legge del valore-lavoro quella del valore-utilità, fondando l’origine dell’economia sullo scambio di mercato anziché sulla produzione. In che modo una critica dell’economia politica adeguata al tempo presente deve confrontarsi con queste modifiche nell’oggetto della scienza economica?
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La guerra a Big Tech
di Francesco Del Vecchio*
Amazon, Apple, Google e Facebook sono sotto indagine negli Stati Uniti, dopo anni di mosse controverse
Nei giorni dell’attacco a Capitol Hill, Facebook, Twitter e altri social network hanno preso decisioni senza precedenti nei confronti di Trump, rimuovendo post e profili legati all’ex presidente. C’è chi ha accusato le piattaforme di censura e chi invece ha rinfacciato loro di essere intervenute troppo tardi e in maniera puramente simbolica dopo anni in cui hanno hanno avuto un ruolo fondamentale proprio nel normalizzare e diffondere messaggi violenti. Una contraddizione e un conflitto che hanno comunque ricordato a tutti la centralità che i social occupano oggi nel dibattito pubblico. Le conseguenze dell’assalto al Congresso, tuttavia, rischiano di nascondere quella che fino a qualche mese fa era stata la storia centrale nel confronto tra la politica statunitense e Big Tech (Facebook, appunto, e Amazon, Apple, Google) e che riguarda la lotta al monopolio dei colossi tecnologici, contro cui la politica americana sembra (o almeno sembrava) aver trovato un accordo pressoché totale.
Lo scontro è esploso nello scorso ottobre, giungendo all’avvio di un processo contro Google da parte del Dipartimento di Giustizia statunitense. “Per molti anni, Google ha usato tattiche anticoncorrenziali per mantenere ed estendere il suo monopolio sul mercato dei servizi di ricerca generale e sulla pubblicità di ricerca, ovvero i pilastri del suo impero”, si legge nelle 57 pagine dell’accusa. Il Dipartimento di Giustizia ha evidenziato anche le differenze tra la Google di vent’anni fa, nata come una promettente start-up con un metodo di ricerca innovativo, e quella di oggi, ovvero “un monopolio che detiene il controllo totale di internet”.
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Ma siamo sicuri che andrà tutto bene?
I comunisti e la guerra di classe prossima ventura
di Enzo Gamba
La gravità della crisi acuisce la lotta tra borghesia e proletariato e tra grandi e piccoli capitali, sottomette ancora di più lo Stato al mercato e accentua la trasformazione bonapartista della politica. Per questo serve un programma minimo che unisca gli sfruttati e dia impulso alla costituzione del partito comunista
Crisi economica e sanitaria
Verso la fine del 2019, nelle previsioni di alcuni avvertiti economisti, non solo marxisti, si indicava l’anno 2020 come l’anno in cui la crisi strutturale dell’economia mondiale capitalistico-finanziaria avrebbe avuto l’ennesimo crollo, un nuovo episodio di crisi che si determinava all’interno di quella che sembrava essere, ormai da decenni, la “normale” linea decrescente di recessione e stagnazione dell’economia mondiale capitalistica finanziaria, cioè di una tendenza complessiva che, pur negativa, prevedeva e teneva conto anche degli aspetti di “controtendenza”, come è il caso dell’economia cinese. Nell’anno 2020, nelle avvedute previsioni di questi economisti, sarebbero venuti al pettine anche i nodi delle gigantesche bolle finanziario-speculative che già nell’autunno del 2019 avevano cominciato a creare notevoli problemi.
Purtroppo, verso la fine di quell’anno iniziava silenziosamente a esplodere l’altra bolla, quella pandemica. Proprio come si espande una crisi economica, ma in questo caso a una velocità notevolmente maggiore, la crisi sanitaria dovuta alla Covid-19 ha bloccato l’economia mondiale e si è compenetrata con la crisi economica già operante: la crisi strutturale capitalistica ha preso la forma della crisi sanitaria, colpendo in maniera differenziata sia per nazioni, sia per classi, sia per settori economici produttivi, commerciali e finanziari.
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Alle origini della Bolognina e della «mutazione genetica» del Pci
Un contributo per tenere aperta la riflessione storica
di Fausto Sorini e Salvatore Tiné
In occasione dei 100 anni della nascita del Partito Comunista d'Italia riproponiamo questo articolo
Nell’analisi delle cause piú profonde del processo di «mutazione genetica» del Pci, destinato a sfociare nella svolta della Bolognina e quindi nella sua tragica auto-dissoluzione, è necessario riprendere la riflessione sulla storia dei comunisti italiani dal 1945 al 1989. Si è trattato infatti di un processo storico profondo, ma tutt’altro che lineare e fino alla fine sempre aperto a sviluppi e a esiti diversi e perfino contrapposti tra loro: la «mutazione genetica» che gradualmente e nelle forme di una trasformazione tanto profonda quanto «molecolare» ha investito una parte importante dei gruppi dirigenti a tutti i livelli del partito, la loro prassi concreta come la loro ideologia e cultura politiche, nel corso dei drammatici e travagliatissimi anni Settanta e Ottanta, ha incontrato ostacoli e resistenze tenaci, generando sempre contraddizioni e conflitti anche aspri, non solo tra i quadri del partito, ma anche nel suo corpo, ovvero nella massa degli iscritti e dei militanti. Sappiamo che il tema delle cause della «mutazione genetica» del Pci è destinato a rimanere ancora per molto tempo oggetto di una riflessione aperta e problematica. Ma sarebbe assai negativo non discuterne, non affrontare nemmeno o rimuovere il tema di enorme rilievo storico e politico, o riducendo tutto ad un colpo di testa dell’ultima ora della gestione occhettiana.
Non c’è dubbio che con la segreteria di Achille Occhetto la mutazione giunge a compimento. Serve un pretesto, un’occasione propizia per giustificare una svolta drastica, in un partito in cui forte è ancora il legame degli iscritti e dei militanti con il suo nome e i suoi simboli legati alla tradizione della III Internazionale.
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“Vogliamo fare l’impero europeo”, detto chiaro e tondo
di Francesco Piccioni
E’ strano come sia passato quasi inosservato, tra molti compagni sempre “sul pezzo” quando si tratta di cogliere un sciocchezza di Salvini o una sacrosanta soddisfazione di Eric Cantona, un titolo di prima pagina del confindustriale Sole24Ore: «L’Europa? Sia un impero potente al servizio di buoni propositi».
Da anni ci battiamo – con qualche successo, per fortuna – per spiegare che l’Unione Europea non è “soltanto” un mercato comune, ma una sovrastruttura semi-statuale che sta realizzando da 30 anni, a colpi di trattati comunitari e “raccomandazioni” sempre più ultimative un trasferimento di poteri politici dagli Stati nazionali alla struttura con sede a Bruxelles (o a Francoforte, per quanto riguarda la Banca centrale).
Facciamo questo lavoro di “spiegazione” sciorinando fatti, indicando il contenuto dei trattati, illustrando certe decisioni e certi “diktat”, che nell’insieme descrivono una politica di classe, determinata e feroce nei confronti di lavoratori (“fissi” e precari), pensionati, disoccupati, giovani e via elencando categorie popolari.
Un “mercato comune”, del resto, non si preoccuperebbe di controllare le politiche di bilancio dei singoli Stati, non cercherebbe (con non molto successo) di individuare una politica estera unitaria, di costruire coordinamenti gerarchici di polizie, intelligence, forze militari, apparati ideologici e di comunicazione, ecc.
Ma torniamo al titolo del Sole, perché il virgolettato appartiene al ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire, che si candida a succedere all’attuale presidente, Emanuel Macron, ai minimi della popolarità in vista delle elezioni del 2022.
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Le radici social-liberiste del PCI
di Thomas Fazi
In un recente articolo ho ripercorso l’importante dibattitto economico che ebbe luogo nel 1976 nelle file del PCI, che portò il partito, nonostante il suo miglior successo elettorale di sempre – nelle elezioni politiche di quell’anno il Partito Comunista ottenne il 34 per cento dei voti, poco meno della DC –, ad offrire la sua adesione incondizionata alle politiche di austerità e di moderazione salariale promosse dal governo monocolore DC, sostenuto dal PCI nella forma dell’appoggio esterno al governo di solidarietà nazionale, e come quella svolta “economica” abbia rappresentano il primo passo verso la svolta “politica” che quindici anni dopo avrebbe portato alla morte del partito.
In quella sede, però, per ragioni di spazio, non ho approfondito le ragioni che portarono il PCI a prendere quella decisione, così determinante per il futuro del partito. È opinione diffusa secondo gli esponenti della sinistra contemporanea che esse vadano rintracciate unicamente nella difficilissima congiuntura storica in cui si trovava il nostro paese – e in particolare il PCI – e che la “disputa accademica” tra gli economisti vicini al partito, oggetto del mio articolo succitato, abbia avuto un ruolo del tutto marginale.
Come ha scritto l’amico Mario Monaco in un commento a margine di quell’articolo,
«l’azione politica del Partito Comunista va calata nella realtà difficilissima dell’epoca, nella quale il PCI dovette fare fronte a tentativi stragisti e golpisti, a movimenti alla sua sinistra che non vedevano l’ora di fare la festa a Botteghe Oscure, a forze reazionarie di ogni risma all’interno di un paese cattolico, socialmente conservatore e con un fortissimo tessuto imprenditoriale nel centro-nord del paese, il tutto in presenza di una scelta di campo politica, strategica, economica e oserei dire ideologica, fatta dall’Italia nel 1948».
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Sinistre mutazioni genetiche
Le scelte liberiste del PCI
di Francesco Cappello
All’inizio degli anni ’80, in quell’Italia dominata dalla strategia della tensione, con gli elenchi della P2 da poco venuti alla luce, dopo 35 anni di opposizione, moralizzazione, contenimento dei consumi, austerità e lotta all’inflazione diventano parole d'ordine del PCI di Enrico Berlinguer.
La reazione di E. Berlinguer e del PCI a quella male intesa inflazione da costi (1) causata dalle prime crisi petrolifere degli anni ‘70, che accadeva nel seno di una economia generalmente espansiva, la quale aveva permesso al nostro paese di risollevarsi dalle macerie della guerra, crescendo con un ritmo vertiginoso del 5,5% in media per 35 anni è già leggibile in un intervento del 1976, in cui il segretario comunista era intervenuto sulle pagine dell’Unità denunciando il “pericolo inflazione“ rispetto al quale, peraltro, il potere d’acquisto dei lavoratori era già protetto dal meccanismo della indicizzazione di salari e stipendi, la cosiddetta scala mobile.
Che la causa dell’inflazione fosse prevalentemente esogena, legata cioè alle crisi petrolifere mediorientali, era inizialmente riconosciuto da parte di economisti, politici e media seppure nel seguito tale consapevolezza verrà progressivamente rimossa. Ad essere rimossa la differenza tra inflazione da costi, da domanda e inflazione da mancata, pronta risposta dell’offerta… e ancora inflazione da eccesso di moneta in circolazione rispetto alla forza dell’economia. In Italia, il 14 febbraio 1984 il decreto di San Valentino approvato dal governo Craxi tagliò 3 punti percentuali della scala mobile, accogliendo la proposta avanzata da Ezio Tarantelli nell'aprile del 1981 sul quotidiano La Repubblica.
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I dannati del clic
Lavoro digitale e nuove forme di sfruttamento
di Carlo Formenti
Il ruolo delle tecnologie digitali nella progettazione di nuove forme di sfruttamento delle classi lavoratrici, è al centro di un incontro organizzato dalla CGIL per martedì 2 febbraio https://www.centroriformastato.it/non-solo-rider-le-antiche-nuove-forme-di-sfruttamento-di-chi-lavora-per-e-con-le-piattaforme-digitali-5/. Negli ultimi anni, il tema è stato affrontato da diverse ricerche: dal libro di Riccardo Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (Einaudi 2018) al più recente Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo (Feltrinelli 2020), di Antonio Casilli, il quale parteciperà all’incontro di cui sopra. Quel “tutti” che accomuna i due sottotitoli (“ci rende tutti più poveri”, “perché lavoriamo tutti”), sembra suggerire che gli autori credano di riconoscere, in queste nuove forme di sfruttamento, un tratto generalizzabile, universale dell’attuale fase di sviluppo capitalistico. Nel testo che segue mi propongo di problematizzare questa tesi. Ma prima è opportuno sintetizzare il contributo dei due libri alla comprensione di una serie di fenomeni che stanno mettendo in discussione alcuni concetti di base della sociologia del lavoro, dalla relazione fra tecnologia e occupazione all’idea stessa di lavoro.
Sulla questione della disoccupazione tecnologica Staglianò (cfr. la recensione che Alessandro Visalli gli ha dedicato http://tempofertile.blogspot.com/2018/10/riccardo-stagliano-lavoretti.html?q=gig+economy) resta nel solco della tradizione marxista: l’odierna tecnologia “ruba” il lavoro, come ha fatto fin dalla prima rivoluzione industriale, e lo fa non tanto e non solo per ragioni “oggettive” – cioè come effetto collaterale di un inevitabile quanto irreversibile “progresso” tecnico-scientifico – ma anche e soprattutto perché è lo strumento principale grazie al quale il capitale contiene il costo del lavoro quando questo accumula rapporti di forza tali da sfidare il profitto.
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Il canto del cigno dell’economia di mercato
di Robert Kurz
Proponiamo qui una breve quanto densa intervista rilasciata al giornale politico TERZ1 da Robert Kurz nell’aprile 2000, poco dopo l’uscita del suo libro più famoso, lo Schwarzbuch Kapitalismus, cioè Libro nero del capitalismo (Eichborn Verlag, 1999).2 Un titolo, ad onor del vero, che non era quello che l‘autore aveva pensato per quest’opera, come dice anche nell’intervista. Il titolo che aveva prescelto (die Mühlen des Teufels, in italiano I mulini del diavolo) non indica, infatti, una semplice replica ai vari “libri neri” sul comunismo, in voga all’epoca. Piuttosto, richiama una critica feroce e sostanziale al sistema del capitale all’interno del quale Kurz pone anche il modello del socialismo reale, “vittima” soltanto presunta della potenza capitalistica, la quale – secondo la vulgata – avrebbe vinto questa lotta fra titani, solo apparentemente opposti.
In questa intervista Kurz tocca, di passata, alcuni dei temi salienti del suo pensiero, presenti anche nel libro in questione:
1) lo sguardo critico, già accennato, ai regimi dell’est, letti come modernizzazione forzata di recupero; tutt’al più, cioè, come immaturo succedaneo, anche parecchio difettoso, del modello capitalistico, quindi tutt’altro che sua presunta alternativa;
2) la crisi del lavoro astratto come crisi (non recuperabile) del capitalismo, dovuta al contradditorio modo di funzionamento del sistema stesso;
3) la barbarie come esito “naturale” della crisi di questo sistema, già fondamentalmente barbaro. La crisi definitiva del capitalismo, dunque, come una sorta di “ritorno alle origini”, solo senza più spazi reali di crescita;
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Forum Cina/1. Nel mondo multipolare: passato, presente e prospettive
di Giacomo Marchetti - Rete dei Comunisti
«Le discussioni sul presente e il futuro della Cina – una potenza “emergente” – mi lasciano sempre poco convinto. Alcuni sostengono che la Cina abbia scelto una volta per tutte la “via capitalista” e intenda anche accelerare la sua integrazione nella globalizzazione capitalista contemporanea. Chi propone questa ipotesi ne è abbastanza soddisfatto, e spera solo che questo “ritorno alla normalità” (essendo il capitalismo la “fine della storia”) sia accompagnato da uno sviluppo in direzione di una democrazia di stile occidentale (partiti, elezioni, diritti umani).
Costoro credono – o devono credere – nella possibilità che in questa maniera la Cina possa gradualmente raggiungere in termini di reddito pro capite il livello delle società opulente occidentali, cosa che io non ritengo possibile. La destra cinese condivide questo punto di vista. Altri deplorano tutto questo in nome dei valori di un “socialismo tradito”.
Altri si associano alle espressioni dominanti della pratica occidentale del China bashing Altri ancora, quelli al potere a Pechino, descrivono questo sentiero come “socialismo con caratteristiche cinesi”, senza essere più precisi. Comunque, ci si può fare un’idea più precisa leggendo i testi ufficiali e in particolare i piani quinquennali, che sono accurati e vengono presi piuttosto sul serio.
Nei fatti la domanda “la Cina è capitalista o socialista” è mal posta, troppo generica e astratta perché una qualsiasi risposta abbia senso nei termini di questa alternativa assoluta. Nei fatti, la Cina ha continuato a seguire un percorso originale dal 1950, forse persino sin dalla rivolta dei Taiping nel diciottesimo secolo».
Samir Amin, Cina 20131
Introduzione
Le contraddizioni aperte dagli anni ’50 nel movimento comunista dallo scontro – talvolta anche militare – tra il PCC ed il PCUS sono da sempre al centro dell’analisi e del posizionamento delle forze comuniste.
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