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Spartiacque, il 2020
di Alessandro Visalli
Ci sono anni simbolici, nei quali passa la storia e che restano nella memoria come spartiacque. Possiamo annoverare tra questi il 1914, il 1917, il 1929, il 1934, il 1939, la grande tragedia del novecento, e, insieme, la grande promessa di liberazione. Dopo abbiamo il 1945, il 1968, il 1978, l’ampliarsi della promessa, la crescita, la liberazione del terzo mondo, la riduzione delle ineguaglianze in occidente, il grande ciclo di lotte operaie nella secolare continuità con quello ottocentesco. E poi le date del riflusso, il 1980, 1989-1991, 1992 (Maastricht), 1999 (Euro), 2001 (la Cina nel Wto). Le date della crisi, 2007, 2012, 2018.
Qui cade lo spartiacque, il 2020.
Come per ognuno degli anni simbolici elencati ci sarà da riflettere a lungo sugli eventi ed i loro effetti.
Non è accaduto tutto in questo anno, anzi, tutto quel che è accaduto è solo l’esito per certi versi ovvio, necessario ed atteso, di lunghe linee di crisi. Ambientali, economiche, sociali e politiche. Nel secondo decennio del nuovo secolo il mondo si trovava sempre più in una fase di caos sistemico[1] che era tenuto a fatica a freno da potenze politico-militari ormai declinanti e da sistemi d’ordine monetari costretti ad inventare sempre nuovi meccanismi per conservare la gerarchia data[2]. Dalla fine del primo decennio era ormai chiarissima la sempre maggiore fragilità del capitalismo finanziarizzato occidentale, costantemente sull’orlo del crollo, e lo stato di estrema sofferenza di quella dittatura del pensiero di economisti morti da tempo e della legittimazione degli interessi che questi servivano nella quale siamo da decenni.
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Criptovalute e crisi del dollaro
di Redazione Contropiano
Di seguito l'articolo di Guido Salerno Aletta
Il mondo delle criptovalute è entrato nelle dinamiche economiche prima come una curiosità, poi come un mezzo per speculazioni (o fregature) eccezionali, fino a diventare una minaccia importante per le monete ufficiali, dietro cui c’è uno Stato o un insieme di Stati.
Nulla più della moneta, infatti, segnalava il potere pubblico, la forza dello Stato, la possibilità esclusiva di “creare denaro dal nulla”, al bisogno. Solo quella forza statuale, infatti, poteva assicurare che lo scambio tra merci e pezzi di carta fosse uno scambio sicuro per entrambi i contraenti.
Ma le criptomonete sono state create da soggetti privati (sono ormai circa 1.500). Fanno a meno anche della forma cartacea e assumono quella di righe di codice. Il loro stesso valore di scambio è altamente incerto, volatile, dipendendo da un “mercato” non regolato da nessun soggetto pubblico.
A complicare la situazione interviene la creazione di criptovalute di Stato che andranno ad affiancare-sostituire quelle ufficiali.
Questo articolo di Guido Salerno Aletta, che parte dalle considerazioni svolte nel “Discorso al mercato” del presidente della Consob, Paolo Savona, illumina sulle molte conseguenze relative alla digitalizzazione delle monete. A partire da quella geostrategicamente più rilevante: la destabilizzazione del dollaro, a questo punto della storia forse la principale arma dell’arsenale degli Stati Uniti.
Per arrivare a quella altrettanto importante della separazione netta tra sistemi di pagamento e sistema finanziario, ossia tra supporto indispensabile all’economia reale e speculazione mirante a “far denaro con il denaro”.
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"Il Capitale del XXI secolo di Piketty: una critica
di Bollettino Culturale
“Il capitale nel XXI secolo” è uno dei libri più importanti dell’economista francese Thomas Piketty. La maggior parte dei commenti al libro di Piketty finiscono per associarlo, in qualche modo, con l'altro Capitale, di Karl Marx, trovando commentatori che pensano che sia una continuazione o un "aggiornamento" delle proposizioni marxiane. Questa associazione è del tutto sbagliata, anche se, in alcuni momenti, è stata incoraggiata dallo stesso autore (come sembra indicare il titolo stesso). La sua accettazione presuppone la completa cancellazione della teoria sociale di Marx. La critica contenuta nei brevi commenti che seguono si muoverà intorno a questo punto per cercare di evidenziare alcuni dei principali risultati di Piketty, nonché i limiti fondamentali della teoria contenuta nel suo libro, in ciò che dice rispetto alla sua capacità di spiegare la società capitalista contemporanea.
Lo studio di Piketty sull'evoluzione della disuguaglianza patrimoniale (poiché si riferisce alla disuguaglianza dal punto di vista della proprietà dei "beni" in generale) è il più grande mai realizzato, utilizzando un enorme database. I risultati empirici di questo studio sono il principale risultato scientifico raggiunto da Piketty e dal suo team e rappresentano l'aspetto più positivo del loro lavoro.
Proprio per questo motivo, questa è stata la parte del libro che ha ricevuto le recensioni più negative dagli economisti “ortodossi” e dai portavoce dei padroni in generale, assieme alla sua proposta di “imposta sul capitale” e sulle successioni.
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Centri sociali contro legge del valore-lavoro. Una storia triste
di Leo Essen
I
Per il Romanticismo di Jena (Friedrich Schlegel, Frammento 70) tutta l’arte deve diventare scienza, e tutta la scienza deve diventare arte; poesia e filosofia devono essere unificate. L’arte e la scienza, la scienza e la vita, non sono l’una fuori dall’altra. Non sono generi diversi, o stili diversi di un supposto sapere umano che li porrebbe come forme nelle quali racchiudere il contenuto umano. Non c’è nessuna forma, nessun genere, nessun metodo che preceda l’umano, e non c’è alcun umano al di fuori di una forma. Forma e contenuto sono l’una il riflesso dell’altro, sono l’una nell’altro: unità di teoria e prassi, di cosa estesa e di cosa pensante (Spinoza).
L’arte non è distinta dal mondo, gli artisti o gli intellettuali non sono una categoria separata che si propone di riformare il mondo. L’attività artistica (o politica - non fa differenza) è immediatamente trasformazione del mondo.
Dal Romanticismo di Jena emergono due tendenze.
Una tendenza progressiva, attivistica, pragmatistica, filo-tecnologica (che include Marx, e soprattutto Lenin) che vede nella tecnologia la possibilità di trasformazione positiva del mondo. Un'opportunità di liberazione (elettricità + soviet) che, tuttavia, corre il rischio che il mondo si rimangi la promessa (o che il capitalismo tecnologico si rimangi l’istanza libertaria). Oggi questa prospettiva sembra incarnata dalla Cina.
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In morte di Agitu Gudeta
di Michele Castaldo
Ogni fatto tragico come l’uccisione di una persona pone degli interrogativi sulla irrazionalità del genere umano, più è efferato un crimine e maggiori sono le domande: perché? Ma l’uccisione di Gudeta, una donna etiope di 43 anni, rifugiata da un paese ex colonia italiana e imprenditrice nel paese, un tempo colonizzatore, pone qualche domanda in più, in modo particolare perché chi l’ha uccisa è Suleiman Adams, un uomo nero ghanese immigrato in Italia, che lavorava alle sue dipendenze.
Si pone come premessa la domanda: che metodo usare per esprimere un giudizio? Negli ultimi anni ci siamo abituati al termine femminicidio per indicare l’uccisione di mogli, conviventi, amanti, fidanzate uccise dal maschio per la rottura di un rapporto sentimentale dove il corpo femminile soccombe purtroppo alla forza bruta del maschio che uccide per la perdita di possesso di quel corpo, non solo e non sempre per ragione sessuale, ma anche perché aveva riposto in esso ogni ragion d’essere della propria vita.
L’uccisione di Gudeta non è inquadrabile solo in queste casistiche, perché, almeno per quel che se ne sa, fra la femmina etiope e il maschio ghanese c’era un rapporto diverso da quelli che comunemente vengono riferiti ai sentimenti, che inducono il maschio a usare violenza fino all’uccisione. Dunque per esaminare quel tipo di rapporto, dobbiamo cercare di inquadrarlo correttamente e scoprire quali molle – o cause – scattano in determinate circostanze. Questo, per un verso, e l’uso che vien fatto di una tragedia da parte delle forze politiche che esprimono precisi interessi di forze sociali, per l’altro verso. Altrimenti parliamo del nulla.
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A colloquio con Marx e altri maestri sulla questione fiscale
di Il Pungolo Rosso
«Essi [gli operai] debbono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici (…) e trasformarle in attacchi diretti alla proprietà privata. Così ad esempio (…) se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, gli operai proporranno l’imposta progressiva; se i democratici proporranno essi stessi una imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti di stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni e sulle misure dei democratici.» [K. Marx – F. Engels, Indirizzo del Comitato Centrale alla Lega dei comunisti, marzo 1850 – in K. Marx, Opere. Lotta politica e conquista del potere, Ed. Riuniti, p. 425.]
Alcuni compagni hanno fatto alla nostra proposta di un’imposta patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione (che appartiene alla classe capitalistica nelle sue varie componenti), con il gettito da destinare a fini di classe, questa stramba critica: non sarebbe “marxista” né classista. A loro dire la questione fiscale è del tutto interna alla classe capitalistica e/o al rapporto tra classe capitalistica e mezze classi. Per sua natura, quindi, non riguarda gli operai, il proletariato, i salariati. Anzi, molto peggio: occuparsene e avanzare rivendicazioni in materia, servirebbe solo ad ottenebrare le menti dei suddetti con falsi problemi.
L’insistenza di questa critica ci ha fatto venire voglia di andare a colloquio con i maestri, a cominciare da Marx, e porre loro qualche domanda. Di seguito i risultati del colloquio che è stato, si può immaginare, di grande interesse. Ne riferiamo qui solo una parte – l’altra parte, di non minore rilevanza, riguarda l’uso dell’arma fiscale da parte del colonialismo.
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“Una figura colossale”: Dante Alighieri
di Eros Barone
Una lettura più attenta rivela l’impossibilità di distinguere, sia pure idealmente, quelle che sono le componenti fondamentali del genio di Dante: la serietà e grandiosità, incorporata in un fermo disegno strutturale, del proposito etico e, dall’altra parte, una straordinaria plasticità di invenzioni figurative e una prodigiosa fertilità di risoluzioni stilistiche e verbali.
N. Sapegno, Storia della Letteratura Italiana, vol. I, Garzanti, Milano 1965-1969, p. 76.
Ma se potessimo intravedere anche solo di spalle Dante Alighieri che s’inerpica sull’Appennino, non capiremmo della Divina Commedia qualcosa di più di quel che oggi ne sappiamo? 1
C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, p. 133.
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“L’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno”
Non esiste gesto o atteggiamento umano che Dante, nella Divina Commedia (per tacere delle altre opere), non abbia descritto, scolpito, evocato, e ciò è stato riconosciuto dagli autori più diversi, i quali non hanno mancato di rendere il loro omaggio all’autore del “poema” cui “ha posto mano e cielo e terra” 2 e all’artefice primo della lingua italiana. In tal senso, come ha scritto uno di essi, Dante è davvero “l’inevitabile”. 3 E come non ricordare che non vi è esercizio più sano per la mente e per il cuore, nonché per i sensi, della ‘lectura Dantis’? Sì, anche e soprattutto per i sensi, giacché questi organi traggono uno speciale godimento dalla lettura, ancor meglio se ad alta voce, delle terzine incatenate dell’Alighieri. Il che è comprovato, fra l’altro, dal costante successo che hanno riscosso tali letture nel corso del tempo: da Carmelo Bene, passando attraverso Roberto Benigni, sino a Vittorio Sermonti.
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Crisi e pericolo giallo
Pensieri in libertà di fine anno
di Carlo Formenti
Tanto Lenin che Gramsci ci ricordano che le crisi economiche e sociali, per quanto gravi, non bastano a garantire la possibilità di un cambiamento rivoluzionario. Perché tale cambiamento possa avvenire, spiegano, è necessario che si verifichino almeno altre due condizioni. In primo luogo, deve esistere una profonda crisi istituzionale, tale da incrinare la capacità delle classi dirigenti di mantenere il controllo sullo Stato e sui suoi apparati (a partire da quelli repressivi). Detto altrimenti: le élite possono perdere l’egemonia, ma se hanno la possibilità e i mezzi di sostituire l’egemonia con il dominio è molto difficile rovesciarle. Inoltre deve esistere una forza politica organizzata, radicata nei territori e nei luoghi di lavoro, dotata di un programma politico che risponda agli interessi e ai bisogni della maggioranza della popolazione, e decisa a conquistare il potere per realizzare un cambio di regime.
Da quando la crisi pandemica è venuta a sommarsi ai postumi della crisi del 2008, generando uno sconquasso economico e sociale di proporzioni gigantesche, paragonabile (se non superiore) a quello provocato dalla crisi del 1929, con un crollo verticale di produzione e consumi, con un tragico aumento dei livelli di povertà, disoccupazione e disuguaglianza sociale (problemi già incancreniti da decenni di guerra di classe dall’alto condotta dai regimi neoliberisti contro le classi subalterne), abbiamo sentito ripetere a ogni piè sospinto la frase <<nulla sarà come prima>>. Ovviamente questa profezia si tinge di coloriture opposte: da un lato, la paura di chi teme di veder messo in discussione il proprio potere dopo quarant’anni di dominio incontrastato, dall’altro, la speranza di chi si augura che ciò possa realmente avvenire.
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Prolegomeni a un capitalismo francescano
di Fabio Vighi (Università di Cardiff)
1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 1. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’
La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato.
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La lunga marcia verso la Brexit
di Luca Colaninno Albenzio
Il 30 dicembre 2020 Londra ha ratificato l’accordo per le relazioni bilaterali post-Brexit concluso con le autorità dell’Unione Europea. In questo articolo ripercorriamo le dinamiche politiche e gli ostacoli affrontati dalle parti in causa nella lunga fase negoziale
La politica è uno specialismo che richiede preparazione, dedizione e studio[1]. Nessuno pensa di affidarsi ad un medico o ad un amministratore di condominio sol perché questi si è appena proposto sul mercato. Nell’ambito della politica ci sono varie branche, ognuna con le sue specificità, con i suoi conoscitori, con i suoi apparati amministrativi serventi.
La congruità della politica estera al tempo della globalizzazione è fondamentale per la tenuta di ogni Stato, come simmetricamente durante l’Ottocento era importante il Ministero degli Interni per il mantenimento del potere.
Il coordinamento tra i Ministeri degli Esteri e i rispettivi organi politici di vertice è una necessità ineludibile nel mondo di oggi. È nell’ordine delle cose che i Presidenti degli Stati Uniti si occupino di politica estera, pur avendo spesso Segretari di Stato di spessore. Il Presidente russo Vladimir Putin, al potere dal 1999, sebbene abbia come Ministro degli Esteri uno dei maggiori esperti del mondo diplomatico, vale a dire Sergej Lavrov, mostra di conoscere bene i maggiori dossier internazionali. Il Ministro degli Esteri cinese, Wang Li, è il fedele replicante della linea portata avanti dal Presidente Xi Jinping.
Presidenze degli Esecutivi e Ministeri degli Esteri non possono essere di fatto sedi vacanti, perché in politica estera il dilettantismo, nella migliore delle ipotesi, porta ad una ossequiosa irrilevanza.
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Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann
di Stefano Virgilio
Francesco Saverio Trincia: Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Scholè, 2019
Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di Francesco Saverio Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti della portata filosofica (termine particolarmente significativo, considerando la diffidenza di Freud nei confronti della filosofia) della psicoanalisi freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann. Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e di reinterpretare alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si possano accostare categorie apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando “hegelianamente” una loro reciproca implicazione ossimorica.
Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12).
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Su Ivan Illich
di Salvatore Bravo
La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita.
Accelerazioni e crisi
L’accelerazione del tempo è uno degli aspetti fondanti del capitalismo assoluto. Lo spazio ed il tempo scompaiono sotto i colpi dell’accelerazione. Niente è vissuto con pienezza, ma molto è vissuto in modo epidermico. Non si tocca nessuna profondità, ma ogni realtà è consumata a ritmi sempre più esponenziali fino a ridursi a presenza nominale. Il nichilismo dello spazio e del tempo è l’effetto delle forze che esigono l’accelerazione dei tempi di spostamento come dei tempi di consumo in nome dell’economicismo. Tutto scompare nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. L’alienazione tecnocratica è assoluta, poiché non è possibile sviluppare il senso dell’appartenenza in nessun luogo, e nello stesso tempo la precarietà frammenta l’io in innumerevoli ruoli, senza unità.
L’accelerazione ha una doppia valenza: controlla riducendo ogni realtà a numero con precisione maniacale, spinge alla produzione veloce a cui corrisponde un ritmo sempre più nichilistico di consumo. Il calcolo di precisione è la grande rete in cui ingabbiare il mondo. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita. La struttura economica è nel segno della nullificazione, programma ogni esperienza in funzione del risultato immediato senza mediazione dialettica.
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Libertà e socialdemocrazia. A proposito del modello svedese di fronte al Sars-Cov-2
di Giulio Gisondi
Appare oggi particolarmente complesso parlare della Svezia e delle misure adottate dal Paese scandinavo nel fronteggiare l’epidemia di Sars-Cov-2, senza rendersi consapevolmente o inconsapevolmente portavoce di una posizione ideologica, di una forma di propaganda e di una polarizzazione sempre più marcata: una divisione tra quelli che potremmo definire, da un lato, i tutto-chiuditisti, sostenitori a tutti i costi di generalizzate chiusure e limitazioni delle libertà personali; dall’altro, degli apri-tuttisti, coloro per i quali non andrebbe adottata alcuna misura di chiusura o di limitazione per evitare il diffondersi del contagio, né tantomeno, alcuna misura di protezione individuale e collettiva.
Questa discussione, che da giorni e mesi si sta consumando su tv, giornali, blog e social, non sembra portare a grandi risultati, né sul piano della conoscenza e comprensione di un fenomeno, né tantomeno su quello dell’analisi, ma è funzionale alla creazione di un falso dibattito tra opposte tifoserie che, se da un lato garantisce un alto livello di audience, dall’altro esclude ogni possibilità di reale approfondimento e lucida riflessione. Come per altri temi di attualità legati alla diffusione dell’epidemia e alle misure di contrasto, dalla scelta delle terapie farmacologiche all’opposizione vaccinisti/anti-vaccinisti, mask/no-mask, fino alle limitazioni delle libertà, la polarizzazione del dibattito sulle scelte sanitarie e politiche del governo e delle autorità svedesi segna una divisione mediaticamente orientata tra buoni e cattivi, tra quanti pensano e si muovono nel campo del politicamente corretto e dell’accettabilità pubblica, e quanti, invece, rientrano nella dimensione del politicamente e mediaticamente censurabile o del cosiddetto complottismo.
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Keynesismo e Marxismo a confronto su disoccupazione e crisi
di Domenico Moro
La crisi del Covid-19 ci pone davanti ad un aumento della disoccupazione di massa. Secondo l’Istat nel III trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, gli occupati sono diminuiti di 622mila unità (-2,6%), fra questi i dipendenti sono diminuiti di 403mila unità e gli indipendenti di 218mila unità. I disoccupati[1] sono invece aumentati di 202mila unità (+8,6%) raggiungendo la cifra di 2milioni 486mila. Anche gli inattivi – cioè quelli che comprendono i cosiddetti “scoraggiati” che neanche provano a cercare lavoro – sono cresciuti di 265mila unità (+2%)[2]. Bisogna, inoltre, aggiungere che l’aumento dei disoccupati e degli inattivi avviene in un contesto di blocco dei licenziamenti. Ad essere state colpite dall’aumento della disoccupazione sono state, fino ad ora, le figure precarie dei lavoratori a tempo determinato. Secondo alcune stime[3], l’eliminazione del blocco dei licenziamenti potrebbe generare un milione di disoccupati in più, portando il loro numero totale a oltre 3,5 milioni, una cifra impressionante, che metterebbe a dura prova non solo la tenuta del welfare ma anche la tenuta sociale e politica del sistema.
Comunque, la situazione occupazionale italiana era tutt’altro che rosea anche prima del Covid-19. L’economia italiana è stata una delle più lente nella Ue a recuperare dalla crisi precedente. Nel 2019, il numero degli occupati (22milioni 687mila) era ancora leggermente inferiore al picco pre-crisi, registrato nel 2008 (22milioni 698mila)[4]. Anche nel confronto con il resto della Ue la situazione italiana è tra le peggiori: il tasso di occupazione (15-64 anni) in Italia nel 2019 era del 59%, mentre era del 68,4% nella Ue a 27 e del 68% nell’area euro, con la Germania al 76,7%, la Francia al 65,5%, e la Spagna al 63,3%[5].
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“La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un’ideologia pericolosa”
Alessandro Bonetti intervista Vittorio Pelligra
Abbiamo intervistato Vittorio Pelligra, professore di politica economica all’Università di Cagliari, che nella sua rubrica Mind the economy sul Sole 24 Ore ha sollevato un interessante dibattito sulla meritocrazia
Bonetti: Lei sottolinea come molti movimenti che si definiscono progressisti, liberali, di sinistra abbiano introiettato l’idea di meritocrazia. Pensiamo a Blair, Obama, Renzi. Qual è la grande contraddizione?
Pelligra: Più che una contraddizione è un equivoco, nel senso che l’idea di merito è solo apparentemente semplice. È in realtà un concetto complesso, sia dal punto di vista filosofico sia dell’implementazione operativa: merito di cosa, merito per chi? Quanto “merito”?
L’equivoco nasce in buona fede nel tentativo di dare risposta a domande reali. Spesso queste risposte, però, sono diventate semplicistiche scorciatoie. E così, a sinistra l’idea di merito è assurta a una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Si afferma che l’attuale struttura sociale tende a rigenerare le disuguaglianze, perché punta più agli esiti che alle opportunità. Quindi se riuscissimo a far partire tutti dalle stesse opportunità potremmo isolare l’effetto della dotazione di partenza dal merito e dall’impegno individuale e perciò diventerebbe possibile incentivare l’impegno premiando il merito stesso. Questo è un tentativo lodevole, ma è logicamente impossibile.
Infatti, tutto quello che è impegno è fortissimamente determinato da elementi che non sono impegno, come l’essere nato in una certa famiglia, in un certo paese, in un determinato momento storico. Oggi sappiamo che il processo di accumulazione di capitale umano funziona attraverso un meccanismo di complementarità dinamica: riesco a imparare se ho imparato ad imparare. Lo stesso impegno, dunque, produce risultati differenti in base alle dotazioni iniziali che dipendono totalmente dalla fortuna.
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La storia come chiave per comprendere la pandemia
di Francesca Romana Capone
Per orientarci nella pandemia attuale, più che i numerosissimi “instant book” pubblicati a tempo di record, possono essere utili letture legate a malattie del passato e, comunque, edite prima dell’emergere del COVID-19 che, necessariamente, ha mutato lo sguardo sul problema. Vedremo, allora, quanto l’efficacia dell’azione sanitaria sia connessa ad aspetti legati alla politica, alla comunicazione, alla fiducia e, in ultima istanza, alla capacità di comprendere i limiti stessi della nostra conoscenza.
* * * *
Contro gli instant book
Leggere è anche un modo per orientarsi nel presente, per guardare all’oggi da punti di vista inediti, lontani nello spazio e nel tempo. Ma la letteratura ha un peculiare rapporto con il tempo, lontano dall’immediatezza cui ci hanno abituato internet e i mezzi tecnologici. Non sorprende, quindi, che per interpretare l’attuale situazione pandemica possano risultare più utili libri usciti ben prima che SARS-COV-2 facesse la sua comparsa, oppure riferiti a pandemie di un remoto passato.
Tuttavia gli eventi eccezionali (guerre, attentati, epidemie) stimolano il mercato editoriale a sfornare decine e decine di “instant book”. Se è vero che questi testi possono nascere anche da una reale urgenza di fissare sulla pagina gli eventi osservati (ci si conservano molti taccuini d’autore legati ad avvenimenti storici importanti), altrettanto la mancata sedimentazione e rielaborazione del pensiero e delle idee, finiscono per renderli piuttosto effimeri. Non a caso gli scrittori del passato hanno usato i propri taccuini per dare profondità e verità a narrazioni di finzione, scritte successivamente e ben altrimenti meditate, piuttosto che per documentare un evento.
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Peggio di un complotto
di Leonardo Mazzei
Covid e Grande Reset viaggiano in coppia, proprio come i carabinieri. Senza il virus, il violento piano di ristrutturazione (e distruzione) sociale della cupola oligarchica sarebbe evidentemente improponibile. Perlomeno oggi, quantomeno nei termini desiderati da lorsignori. Questo è un fatto.
Con il virus ciò che era improponibile diventa all’improvviso altamente probabile, per molti addirittura inevitabile, per i non pochi ultras del “nulla sarà come prima” addirittura auspicabile. E questo è un altro fatto.
Che ad oggi i più vedano solo il virus e non ancora l’orribile disegno sociale che gli si staglia dietro è un terzo fatto, che certo non possiamo negare. Questo è anzi lo snodo decisivo, perché l’epidemia svolge la duplice funzione di cortina fumogena e di nave rompighiaccio, quella che deve aprirsi la strada verso il “nuovo mondo” distopico del Grande Reset.
Secondo alcuni questi tre fatti sarebbero la prova di un vero e proprio complotto. Una cospirazione che avrebbe avuto come prima mossa la deliberata diffusione del virus stesso. Possiamo escludere a priori una tale ipotesi? Assolutamente no. Chi scrive è lontano mille miglia dalla forma mentis del complottista, tuttavia anche i complotti esistono e – pur non spiegandola nei suoi flussi profondi – possono talvolta contribuire a fare la storia.
Ma qui avanziamo un’altra ipotesi, per molti aspetti peggiore, di sicuro più inquietante di quella del “semplice” complotto. Un’ipotesi che il complotto non lo esclude del tutto, ma che da esso è comunque indipendente.
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Filosofia prêt à porter
Un pensiero che non vuole più essere inattuale
di Carlo Formenti
«Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose» recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio.
In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": «non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”».
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Vaccino Pfizer-BioNTech, cosa sappiamo
Composizione, meccanismo d'azione, efficacia, sicurezza
di Mariagiovanna Scarpa*
La Dott.ssa Mariagiovanna Scarpa, Coordinatrice di IppocrateOrg per il Regno Unito, ha sintetizzato nel suo scritto – che vi invito a leggere – la posizione del Movimento Ippocrate in relazione al vaccino Pfizer.
Le considerazioni espresse sono state elaborate sulla base delle conoscenze che ci sono concesse: sia da quanto dichiarato dal produttore del vaccino, da una parte, sia da quanto oggi la scienza può oggettivamente concludere in base ai dati in possesso, dall’altra.
Pertanto le valutazioni prodotte non sono da considerarsi come espressione di conclusioni scientifiche definitive ma soltanto quale momento di riflessione da arricchire con successivi auspicati contributi.
Quando parlo di ulteriori contributi intendo l’approfondimento di ambiti quali:
- la corsa alla messa a punto del vaccino con i rischi potenziali (sia nel breve ma soprattutto nel medio/lungo periodo) connessi alla drastica riduzione dei tempi di sperimentazione;
- il campo ancora in gran parte inesplorato dei vaccini genici;
- l’efficacia e sicurezza di vaccini proteici alternativi a quelli genici di cui conosciamo la sicurezza;
- la possibile inutilità di un vaccino somministrato ad una popolazione che si sta avviando verso l’immunità di gregge;
- se sia eticamente accettabile che alcune informazioni sul vaccino di proprietà dell’Azienda Produttrice rimangano tali quando sono necessarie per valutarne la sua pericolosità;
- …e altro.
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Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale
di Paolo Di Remigio
Quella che per abitudine si chiama scuola pubblica non è più pubblica, neanche nel nome, e non è più scuola, nel senso di istituzione diretta a educare i giovani alla conoscenza. L’estinzione della scuola pubblica è momento della decadenza dello stato occidentale. Nel corso della lotta per escluderlo dall’economia, alcuni lo hanno considerato un importuno che mette le mani nelle tasche dei cittadini e ne cede la ricchezza alla politica clientelare; altri vi hanno rinvenuto l’origine di ogni male. Si è così perduta l’intuizione della sua essenza e del suo fine: riesce incomprensibile che lo stato sia la forma libera della comunità, garante del libero volere di ognuno, che il suo primo fine sia rendere sacra la persona e intangibile la sua esistenza. Il rifiuto dello stato nasce dal disconoscere la nozione di libertà e il suo nesso con quella di legge. Da queste nozioni dipende però anche la disposizione al conoscere; l’incomprensione dello stato si associa dunque al disprezzo della conoscenza. Ne è vittima la scuola che, abbandonata a interessi estranei, è soffocata dall’attivismo ignorante e si estingue.
I. Distinzioni filosofiche
a) Libertà e stato
Di solito la libertà è intesa come sinonimo di arbitrio, come possibilità di scelta; se fosse così, lo stato, che limita l’arbitrio imponendo le leggi, sarebbe negazione della libertà[1]. Chi non facesse differenza tra impulso, arbitrio e libertà non potrebbe che concordare con la conclusione di questo sillogismo.
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Glosse in margine all’epidemia come politica
di Flavio Luzi
Penosamente amare quel che non si ama,
da quando il fumo uccide,
ecco, ubbidire.
Patrizia Cavalli
1. Nemo propheta acceptus est in patria sua
“A me sembra che il vero compito politico, in una società come la nostra, sia quello di criticare il funzionamento delle istituzioni, soprattutto di quelle che appaiono come neutrali e indipendenti, e di attaccarle in maniera tale che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse sia finalmente smascherata, così da poter essere combattuta”. Con queste parole, in un dibattito televisivo tenutosi a Eindhoven nel 1971, un ridente Michel Foucault ribatteva alle posizioni espresse in quell’occasione dal suo avversario, Noam Chomsky. Il filosofo francese si riferiva a tutte quelle istituzioni – come l’Università, l’Istruzione, la Psichiatria e la Giustizia – che diversamente dall’Esercito, dalla Polizia e dal Carcere, si presentano in maniera apparentemente neutrale, affrancata dall’evidente circolazione (sottomissione ed esercizio) del potere politico. Dietro le funzioni di distribuzione del sapere, della promozione della libera ricerca, della cura dei disturbi mentali, dell’amministrazione del diritto, queste istituzioni – o, se si preferisce, questi dispositivi epistemico-sociali – occultano la violenza politica che continuamente esercitano sui corpi degli individui, disciplinandoli e soggettivizzandoli come studenti, come anormali, come colpevoli. In tal senso, dal punto di vista foucaultiano, non vi è ragione alcuna di ritenere che l’istituzione sanitaria e, più in generale, il sapere medico siano esenti da questo tipo di mistificazione, dimostrandosi sinceramente neutrali, estranei a qualsivoglia ideologia, potere o violenza politica.
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Gaia e Ctonia
di Giorgio Agamben
I.
Nel greco classico, la terra ha due nomi, che corrispondono a due realtà distinte se non opposte: ge (o gaia) e chthon. Contrariamente a una teoria oggi diffusa, gli uomini non abitano soltanto gaia, ma hanno innanzitutto a che fare con chthon, che in alcune narrazioni mitiche assume la forma di una dea, il cui nome è Chthonìe, Ctonia. Così la teologia di Ferecide di Siro elenca all’inizio tre divinità: Zeus, Chronos e Chtonìe e aggiunge che «a Chtonìe toccò il nome di Ge, dopo che Zeus le diede in dono la terra (gen)». Anche se l’identità della dea resta indefinita, Ge è qui rispetto ad essa una figura accessoria, quasi un nome ulteriore di Chtonìe. Non meno significativo è che in Omero gli uomini siano definiti con l’aggettivo epichtonioi (ctonii, che stanno su chthon), mentre l’aggettivo epigaios o epigeios si riferisce solo alle piante e agli animali.
Il fatto è che chton e ge nominano due aspetti della terra per così dire geologicamente antitetici: chton è la faccia esterna del mondo infero, la terra dalla superficie in giù, ge è la terra dalla superficie in su, la faccia che la terra volge verso il cielo. A questa diversità stratigrafica corrisponde la difformità delle prassi e delle funzioni: chthon non è coltivabile né se ne può trarre nutrimento, sfugge all’opposizione città/campagna e non è un bene che possa essere posseduto; ge, per converso, come l’eponimo inno omerico ricorda con enfasi, «nutre tutto ciò che su è chthon» (epi chthoni) e produce i raccolti e i beni che arricchiscono gli uomini: per coloro che ge onora con la sua benevolenza, «i solchi della gleba che danno vita sono carichi di frutti, nei campi prospera il bestiame e la casa si riempie di ricchezze e essi governano con giuste leggi le città dalle belle donne» (v.9-11).
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Pochi appunti sul ‘femminismo della differenza’
di Alessandro Visalli
Da quando ad ognuno di noi capitò di aprire gli occhi e quando poi arrivammo all’età della ragione scoprimmo che nel mondo ci sono molte e diverse gerarchie, diverse forme di esercizio di autorità (da parte di madri, di padri, di maestri/e, di posizioni e ruoli, di ricchi, di colti e di tecnici, ...) e tutti scoprimmo, con il tempo, che queste forme allo stesso momento tengono insieme la società e gli consentono di funzionare. Il loro segno è dunque ambiguo, necessario e sempre sul punto di eccedere.
Parimenti, quando iniziammo a crescere ognuno di noi si sentì interrogato dal proprio genere, da quello che la società propone come modello appropriato di genere, e quindi fummo spinti ad interrogarci sulla differenza che si percepisce ovunque, e si incontra sempre, tra una certa visione e sensibilità ed un’altra. Nella media, naturalmente, perché esistono sempre individui intermedi, più vocati ad alcune sensibilità, aperti ad un altro “lato” come si dice. Anzi, non esistono personalità ben formate, normali, che non abbiano elementi di entrambe le sensibilità idealtipiche.
Quanto queste differenze sono biologia, quanto cultura, quanto proprio morfologia, quanto esperienza di base? Quanto dipendono dal momento centrale della riproduzione (che è in assoluto il momento di massimo dimorfismo)? Quanto, magari, proprio dalla meccanica dell’atto sessuale (simmetricamente opposto, si dà e si riceve)?
Difficile, e probabilmente impossibile dirlo con certezza. Una cosa è sicura: ci sono delle differenze. Un’altra, però l’accompagna: la specie è unica, la sua base genetica (circa ventimila geni) coincide in grandissima parte in tutti ma la sua espressione (ovvero la codifica delle proteine) differisce sensibilmente.
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Recovery Fund: manuale di autodifesa contro la propaganda di regime
di Thomas Fazi
Quando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.
Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.
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Liberalprogressismo, liberalconservatorismo e “sovranismo” nella crisi della democrazia moderna
di Stefano G. Azzarà
Il 9 gennaio interverrò alla Rosa-Luxemburg-Konferenz - appuntamento di dibattito teorico ormai divenuto istituzionale per i comunisti e la sinistra europea e dedicato quest'anno al confronto tra razionalismo e irrazionalismo - presentando una sintesi del mio libro "Il virus dell'Occidente".
Nel frattempo, Junge Welt (11.12.2020) ha tradotto e pubblicato un estratto, nel quale parlo del concetto di "popolo", della genesi della democrazia moderna e della sua attuale crisi, caratterizzata dall'involuzione in chiave imperiale dell'universalismo, dalla reazione particolarista (populismo e sovranismo) e dell'imminente riconciliazione tra queste due varianti del liberalismo. Nel link in fondo la versione tedesca, qui di seguito il testo in italiano. Seguirà presto il programma della Konferenz.
* * * *
I rapporti di forza politico-sociali sono il segreto della democrazia moderna nella sua lunga storia. E sono, alla stessa stregua, il mistero della sua crisi nella sua più rapida agonia. Dal momento in cui e fino a quando i rapporti di forza tra le classi in lotta si sono mossi verso un maggiore equilibrio, si sono prodotte le condizioni per la fioritura di imponenti processi di democratizzazione. Finché le classi subalterne sono riuscite a difendersi e poi a farsi rispettare, conquistando il riconoscimento attraverso la loro capacità di agire il conflitto in maniera consapevole e organizzata, si è innescato un grandioso meccanismo di redistribuzione dello status, della ricchezza materiale e immateriale, del potere e della cultura che non ha certamente realizzato l’eguaglianza ma che sulla strada dell’eguaglianza si è quantomeno incamminato. E che ha dato vita alla democrazia moderna, arrivando per certi tratti e in certi momenti particolarmente felici anche a mettere in discussione i rapporti di proprietà e il controllo della produzione stessa.
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