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2001-2016: Centralizzazione del capitale e crisi finanziaria, oppure Crisi, da cui centralizzazione del capitale?
di Gianni De Bellis e Mario Fragnito
Osservazioni e critiche sull’omonimo lavoro di Emiliano Brancaccio, docente dell’Università del Sannio, ed altri (Centralization of capital and financial crisis: a global network analysisof corporate control).
Nella letteratura non solo marxista, a partire almeno da mezzo secolo fa, non sono rare affermazioni come: “quasi 3 miliardi di persone .. quasi metà della popolazione terrestre vive con meno di 2 dollari al giorno” .. “il 20% delle persone più ricche detiene l’80% della ricchezza mondiale”; e, successivamente: “il 15% delle persone più ricche detiene l’85% della ricchezza mondiale”. E, più recentemente, a gennaio 2016, un rapporto di Oxfam diffuso in occasione del Forum economico mondiale di Davos: “Nel mondo 62 persone detengono la ricchezza di metà della popolazione più povera, mentre solo 6 anni fa erano 388 .. l’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99% .. l’1% più ricco degli italiani .. in possesso del 23,4% della ricchezza nazionale” ..
Certo, ricchezza e capitale non si identificano perfettamente; capitale è quella “ricchezza” che è in grado di produrne altra: una villa o uno yacht di lusso sono ricchezza ma non capitale. Però la ricchezza è sempre legata al capitale. Quindi l’idea che il capitale vada sempre concentrandosi nelle mani di chi è già ricco, mentre la maggior parte della popolazione del mondo impoverisce (al di la delle illusioni dei ludopatici e di quanti vengono influenzati fortemente dalle illusioni che il capitalismo potentemente semina ad ogni piè sospinto) soprattutto dopo la crisi di un decennio e mezzo fa, ormai appartiene non solo agli ambienti marxisti, ma va abbastanza oltre. E ciò anche nelle ricche nazioni imperialiste, dove ormai la povertà colpisce strati sempre più ampi della popolazione. Il fenomeno sembra così evidente che sembrano strane le prime parole con cui Emiliano Brancaccio e gli altri ricercatori aprono il loro scritto:
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Il ritorno di Engels
di John Bellamy Foster
Friedrich Engels spesso viene accusato di aver dirottato il marxismo su un terreno troppo deterministico. Ma le sue analisi su rapporto tra evoluzione, lotta di classe e ambiente ne hanno fatto un anticipatore dell'eco-socialismo
Pochi sodalizi politici e intellettuali possono competere con quello di Karl Marx e Friedrich Engels. Divennero famosi come co-autori del Manifesto del Partito comunista nel 1848, entrambi prendendo parte alle rivoluzioni sociali di quell’anno, ma anche di due opere precedenti: La Sacra Famiglia nel 1845 e L’ideologia tedesca nel 1846.
Verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento, quando i due socialisti scientifici finalmente poterono vivere in stretta vicinanza e discutere tra loro ogni giorno, spesso camminavano avanti e indietro nello studio di Marx, ciascuno dalla propria parte della stanza, solcando ripetutamente il pavimento mentre giravano sui tacchi e discutevano di idee, piani e progetti.
Spesso leggevano insieme brani dai loro lavori in corso. Engels lesse a Marx l’intero manoscritto del suo Anti-Dühring (al quale Marx contribuì con un capitolo) prima della sua pubblicazione. Marx scrisse un’introduzione a L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Engels. Dopo la morte di Marx nel 1883, Engels preparò i volumi due e tre del Capitale per la pubblicazione dalle bozze che il suo amico aveva lasciato. Se Engels, come riconobbe per primo, si trovava all’ombra di Marx, era nondimeno un gigante intellettuale e politico a pieno titolo.
Eppure per decenni gli accademici hanno suggerito che Engels avesse declassato e distorto il pensiero di Marx. Come ha osservato criticamente lo scienziato politico John L. Stanley nel suo postumo Mainlining Marx nel 2002, i tentativi di separare Marx da Engels – al di là del fatto ovvio che erano due individui diversi con interessi e talenti differenti – hanno teso sempre più a dissociare Engels, visto come la fonte di tutto ciò che è riprovevole nel marxismo, da Marx, visto come l’epitome dell’uomo di lettere civilizzato, e lui stesso un non-marxista.
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Sulla metafora del nemico invisibile
di Flavio Luzi
Nel chiasso mediatico generatosi negli ultimi mesi, è difficile non accorgersi della diffusa tendenza della classe dirigente e dell’opinione pubblica a ricorrere al lessico militare in riferimento alla situazione scaturita dalla diffusione del Covid-19: l’epidemia – o, meglio, la pandemia – non sarebbe altro che una “guerra” nella quale si trova coinvolto l’intero pianeta (la “terza o quarta guerra mondiale” o la “prima guerra globale”); le zone ad alto potenziale di rischio, sottoposte a limitazioni, non sarebbero altro che delle “zone rosse” e i reparti di terapia intensiva, a loro volta, delle “trincee”. Si è addirittura arrivati a concepire gli operatori sanitari come degli “eserciti” con i loro feriti e il loro caduti. È una vecchia abitudine: già Susan Sontag l’aveva messa in evidenza tra la fine degli anni Settanta e la conclusione degli anni Ottanta, nei testi Illness as Metaphor e Aids and its Metaphors, datando l’esordio delle metafore belliche in ambito bio-medico alla seconda metà dell’Ottocento. L’inizio del pensiero bio-medico moderno andrebbe ricondotto proprio al focalizzarsi di queste metafore non più, genericamente, sulla malattia in quanto tale, bensì su determinati organismi patogeni visibili all’occhio umano solo con l’ausilio di particolari strumenti, per esempio un microscopio.
Ma che tipo di guerra potrà mai essere una guerra condotta contro un virus? Come si nota leggendo Carl Schmitt, la guerra si trova all’interno di una relazione circolare, di presupposizione reciproca, con l’inimicizia.
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Frenano i salari e corre l’export: la crisi accelera il cambiamento
di coniarerivolta
In questi giorni, sfogliando le pagine dei giornali, capita di imbattersi in due notizie, apparentemente slegate tra loro. Alla base di queste due notizie ci sono due numeri, uno negativo ed uno positivo: -8,1% e +2,1%.
Il primo numero fotografa il crollo dei consumi registrato a settembre, rispetto allo scorso anno, dai radar di Confcommercio: l’associazione che unisce oltre 700.000 imprese del terziario rileva una forte caduta delle vendite che si concentra nei servizi ricreativi (-73%), nel turismo (-60%) e in bar e ristoranti (-38%). È l’immagine di una flessione economica che si protrae dal mese di marzo e che inizia ad assumere i connotati di una lunga depressione, con effetti potenzialmente devastanti per il tessuto produttivo. Piangono i piccoli commerci, molti dei quali non avranno la forza finanziaria per riaprire i battenti quando sarà passata la tempesta, ma non ridono i grandi centri commerciali, terrorizzati dalla prospettiva di veder sfumare le vendite natalizie, che rappresentano circa il 40% del loro budget annuale.
Voltiamo pagina e leggiamo l’altra notizia. Questa volta un dato, che sembrerebbe incoraggiante, proveniente dall’Istat: nel contesto della crisi scatenata dalla pandemia, le esportazioni del nostro Paese si muovono in controtendenza e crescono su base annua del 2,1%, con un’espansione più forte al di fuori dell’area dell’euro (+2,8%) in cui spiccano il +11,1% verso gli USA e il +33% verso la Cina, ma in aumento anche all’interno dell’Unione Europea (+1,4%) con importanti sbocchi verso la Germania (+6%).
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Materialismo dialettico e meccanica quantistica relazionale
In difesa di Lenin
di Andrea Evangelista
L'empiriomonismo
Nell'ultimo libro1 del fisico Carlo Rovelli c'è un capitolo, il V, dal titolo: La descrizione non ambigua di un fenomeno include gli oggetti a cui il fenomeno si manifesta - Dove ci si chiede cosa implichi tutto ciò, per le nostre idee sulla realtà, e si trova che la novità della teoria dei quanti non è poi così nuova. I primi due paragrafi del capitolo sono dedicati alla disputa tra Alexander Bogdanov e Vladimir Lenin. Vi si racconta come, dopo che Bogdanov ebbe pubblicato la sua opera in tre volumi2 , Lenin pubblicò la sua nota opera filosofica Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria3, con l'obiettivo di criticare (ferocemente per Rovelli) l'empiriocriticismo, usando per la filosofia di Bogdanov il termine usato da Ernst Mach, il fisico e filosofo austriaco del XIX secolo (ispiratore di entrambe le grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo, padrino di Wolfgang Pauli e filosofo preferito di Schrödinger riporta Rovelli).
Rovelli illustra il pensiero di Mach:
Mach insiste che la scienza si deve liberare da ogni assunzione «metafisica». Basare la conoscenza solo su ciò che è «osservabile». [...] La conoscenza non è quindi vista da Mach come dedurre o indovinare un'ipotetica realtà al di là delle sensazioni, ma come la ricerca di un'organizzazione efficiente del nostro modo di organizzare le sensazioni. [...] Per Mach non vi è distinzione tra mondo fisico e mondo mentale: la «sensazione» è ugualmente fisica e mentale.
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Alibaba, il fintech e il sistema finanziario
di Vincenzo Comito
Con lo scoppio della pandemia, le attività del settore del fintech hanno fatto un grande balzo in avanti, e il colosso Ant ha aiutato la Cina a diventare il leader globale indiscusso nel settore. Perché Pechino ha bloccato dunque la quotazione in Borsa del colosso di Jack Ma?
La curiosa quotazione in Borsa di Ant Group
L’annuncio della quotazione in Borsa di Ant Group, braccio finanziario di Alibaba, nonchè la successiva sospensione della stessa da parte delle autorità cinesi, ci spingono ad analizzare le molte, importanti, questioni che sono in ballo nella vicenda, dall’avanzamento tecnologico e finanziario cinese e dalla lotta per il predominio con gli Stati Uniti, al problema del controllo pubblico dei giganti dell’economia numerica, al rapporto più generale tra pubblico e privato, al futuro infine delle banche tradizionali, in Cina come nel resto del mondo.
Dunque, nell’ottobre del 2020 il gruppo Alibaba annuncia che la sua controllata Ant Group sarà quotata alle borse di Shanghai e di Hong Kong attraverso l’emissione di titoli azionari per un valore di circa 37 miliardi di dollari; tutta Ant viene a questo punto valutata 313 miliardi di dollari, un valore superiore a quello di tutte le grandi banche internazionali, compresa, sia pure di poco, a quello del più grande gruppo finanziario occidentale, la JPMorgan Chase.
Se la quotazione fosse stata portata avanti, si sarebbe trattato del più grande collocamento in Borsa della storia. L’emissione è stata in linea di principio un grandissimo successo: sono arrivate richieste di sottoscrizione pari a circa 800 volte il valore dei titoli immessi sul mercato.
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Il ricatto del Recovery Fund
di Leonardo Mazzei
Abbiamo già spiegato quanto sia infondata la leggenda del Recovery Fund. L’analisi del funzionamento tecnico di questo nuovo strumento europeo non lascia spazio ai dubbi. In esso non c’è nulla di virtuoso, tantomeno di risolutivo rispetto alla crisi in corso.
Ma limitarsi a vederne la sostanziale inefficacia economica sarebbe un grave errore. Dedichiamo perciò questo nuovo articolo agli aspetti più propriamente politici. Il tentativo è quello di capire quale sia il vero accordo che sta dietro il Recovery Fund. Impresa in verità non troppo difficile.
Lo choc di primavera
Di fronte alla crisi innescata dal Covid, e più ancora dalla sua disastrosa gestione, l’UE ha dovuto prendere atto del baratro che gli si parava davanti. Un baratro che avrebbe potuto aprire la strada alla disintegrazione. Sulla base di questa banale constatazione i soliti illusi hanno perfino immaginato la tanto sognata “riforma” dell’Unione. Ma la riforma di ciò che è irriformabile è per definizione impossibile. Nel caso dell’UE le dimostrazioni in tal senso sono talmente tante che non è necessario insistervi.
La cupola eurista ha dovuto perciò inventarsi l’ennesima soluzione che serve a prender tempo, che non risolve i problemi ma che è utile intanto a salvare la baracca. Tutti sanno che, di fronte al drammatico crollo dell’economia, l’unica misura sensata ed efficace sarebbe stata la monetizzazione del debito. Lo hanno fatto i più importanti stati del pianeta, ma l’UE non può farlo. E, cosa ancora più importante, chi al suo interno detiene le leve del comando non vuole farlo.
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Su le mascherine. Ma giù la maschera dell’ipocrisia
Lettera aperta a Ennio Abate
di Rita Simonitto
Le denunce circostanziate e non ideologiche, le analisi puntuali e problematiche, i tentativi di interrogarsi sulle strategie politiche messe in atto per la gestione di una pandemia da Covid, che appare a molti contraddittoria e a tratti insensata, sono numerose anche sul Web. (Solo alcuni esempi: qui, qui, qui, qui, qui). Questi scritti richiederebbero letture impegnative e gruppi di riflessione che oggi sono quasi inesistenti. Vengono perciò presto dimenticati o sono facilmente sovrastati dal rumore di fondo dei mass media. Questi forniscono esclusivamente valanghe di notizie emotive tese ora a rassicurare ora a impaurire. E sono queste purtroppo che i social riecheggiano o entrano nei discorsi quotidiani. Poliscritture ha pubblicato vari contributi sul tema della pandemia ma si fatica – è bene dirlo – a ragionare e a comprendere in profondità i mutamenti che stanno avvenendo a tutti i livelli esterni e interni alla vita organizzata delle popolazioni. La Lettera aperta di Rita Simonitto è un generoso tentativo di rilanciare una riflessione intermittente. Ricostruisce criticamente la cronaca degli ultimi mesi, denuncia le responsabilità politiche di governo e opposizione, testimonia vivacemente un disagio che è di molti e la volontà di non rassegnarsi. Ripropone anche, senza farla esplicitamente, la domanda più difficile: cosa si può fare di più e meglio? [E. A.]
* * * *
Caro Ennio, tre le impellenze che mi hanno spinto a riprendere (in ritardo, oggi siamo al 24.11) il tuo post “Ancora nella gabbia del Lockdown” del 5.11.2020.
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Recalcati lettore di Fachinelli. L’oceano al di là dell’Edipo
di Rocco Ronchi
Elvio Fachinelli ha avuto il grande merito di portare la psicoanalisi dentro il dibattito politico e culturale dell’Italia degli anni ’60 – ‘80, quando il vento del rinnovamento soffiava forte sulla società italiana. Psicoanalista eterodosso, ma non dissidente, sospettoso delle dinamiche autoritarie dei gruppi, anche quando questi erano fondati su buone cause, si era sottratto all’invito formulatogli da Jacques Lacan di rappresentarlo in Italia, preferendo mantenere una posizione da libero battitore. A trent’anni dalla prematura scomparsa, uno dei maggiori “eredi” italiani di Jacques Lacan, Massimo Recalcati, gli ha dedicato un piccolo densissimo volume, articolato in tre saggi e in una Appendice, dal titolo significativo e assai impegnativo: Critica della ragione psicoanalitica.
Di Fachinelli, il suo esegeta condivide non solo una matrice intellettuale lacaniana, che è certamente più sfumata nel caso di Fachinelli, ma anche quella che si potrebbe definire una comune vocazione all’“impegno”. Per entrambi, infatti, la psicoanalisi è una prassi interamente calata nell’attualità, che non teme di sporcarsi le mani con il conflitto. Certamente diversissimi sono gli sfondi nei quali prende rilievo la loro riflessione. La temperie sociale, politica e culturale che caratterizzava gli anni di Fachinelli non ha quasi più rapporto con quella attuale. Le urgenze sono altre, anche se non meno drammatiche. Comune a entrambi è tuttavia la persuasione che la psicoanalisi, che nella sua pratica resta sostanzialmente una faccenda privata, sia, quanto al suo senso, parte integrante del discorso pubblico. Essa deve fungere da criterio di orientamento nel reale e da principio della sua trasformazione.
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Per il 200° anniversario della nascita di Friedrich Engels
di Eros Barone
L’effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell’eguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va necessariamente a finire nell’assurdo.
F. Engels, Antidühring. 1
1. Il punto sulla “questione di Engels”
Friedrich Engel nacque il 28 novembre 1820 a Barmen, oggi distretto del comune di Wuppertal, città tedesca della Renania Settentrionale-Vestfalia. Il 28 novembre 2020 cade pertanto il duecentesimo anniversario della sua nascita. È questa un’occasione per fare il punto sulla “questione di Engels”, unendo la necessaria difesa di un patrimonio gigantesco – la teoria marx-engelsiana -, oggetto di tentativi ricorrenti di deformazione, falsificazione e financo liquidazione condotti dai più disparati avversari (ma anche da taluni falsi amici), alla vigorosa riaffermazione della sua forza esplicativa e della sua potenza predittiva, concernenti il carattere ciclico dell’economia capitalistica e le leggi dello sviluppo, della crisi e della transizione che ne derivano. Si tratta allora, prendendo spunto dall’anniversario, sia di promuovere la conoscenza di una figura ricca di fascino intellettuale e morale, appartenente a quella generazione di titani che ha impresso un’orma indelebile nella storia del proletariato mondiale, sia di ribadire l’istanza per cui la natura scientifica della teoria marx-engelsiana, costantemente verificata e da verificare sul terreno dell’“analisi concreta della situazione concreta”, 2 non viene compromessa, bensì rafforzata dal legame inscindibile con la concezione materialistica del mondo, della natura, della storia e dell’uomo.
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Per una critica del concetto di lavoro riproduttivo in Silvia Federici
di Bollettino Culturale
Nel 2004 Silvia Federici pubblica Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria, in cui si propone di analizzare gli sviluppi del capitalismo da una prospettiva femminista. Considera il concetto di accumulazione primitiva criticando l'analisi di Marx, che è partito dal punto di vista del proletariato salariato maschile e dello sviluppo della produzione di merci.
L'autrice attinge dalle teorie marxiste (in special modo operaiste), dalle teorie femministe e dalla teoria foucaultiana per ridefinire le categorie storiche di strutture che, secondo Federici, sono nascoste nelle discussioni sul dominio e lo sfruttamento.
Il titolo è ispirato a “La tempesta” di Shakespeare e riflette il desiderio di ripensare lo sviluppo del capitalismo, recuperando le radici dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Inoltre, l'autrice Silvia Federici analizza la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo, rivisitando il modo in cui la storia delle donne si intreccia con la storia dello sviluppo capitalista. È degno di nota, quindi, che non è possibile comprendere una tale storia occupandosi solo dei terreni classici della lotta di classe, ma piuttosto dando visibilità allo sviluppo di una nuova divisione sessuale del lavoro, una divisione che ha potenziato la svalutazione delle donne.
La pensatrice italiana sottolinea, sin dall'inizio della sua analisi, quanto raramente sia apparsa nella storia del proletariato la caccia alle streghe, e tale assenza rende invisibile la forza e la resistenza delle donne nel processo di consolidamento del capitalismo in Europa, e come tale caccia abbia livellato il terreno per la costruzione di un nuovo ordine patriarcale basato sull'esclusione delle donne dal lavoro salariato e sulla loro subordinazione agli uomini.
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‘Roma, la città che vogliamo’
Alba Vastano intervista Paolo Berdini, candidato sindaco Roma capitale
“In questi mesi deve partire un’azione di coinvolgimento delle migliori esperienze delle periferie, di tutte le vertenze aperte. Mi auguro che in tempi brevi in ogni municipio si formino comitati guidati dai giovani che in questi anni hanno combattuto contro le speculazioni per un’idea di città inclusiva. Se ci riusciamo, avremo fatto un grande passo avanti. Saremmo in grado di proporre concretamente alla città intera che esiste un’alternativa ai furbetti che utilizzano sempre il trucco del voto utile…Al governo di Roma si affermerà, dunque, chi saprà dare un speranza a questa città ripiegata su se stessa. Ѐ una sfida che dobbiamo saper cogliere” (Paolo Berdini).
Città nel buio, esercizi pubblici che si aprano e si chiudono a intermittenza, strade spente. Gente mascherata e isolata, tampinata da un virus balordo a caccia di respiri. Ѐ la pandemia. Ci tocca viverla fino in fondo. Anche Roma, come le altre città del mondo, è spenta. Non da mesi, da anni. Non è solo a causa della pandemia. La città è spenta da molto tempo. Dai tempi che si sono susseguiti dopo la giunta Petroselli e Nicolini. Da quando di mano in mano, di giunta in giunta, da sindaco a sindaco, da assessore ad assessore sono state rimpallate le responsabilità per ripristinare un welfare a misura di cittadino, a misura di una città fantastica che tutto il pianeta, per la storia, per l’arte, per la cultura conosce e ama.
La città è stata abbandonata e vive un degrado urbanistico spaventoso. Come riportarla agli antichi splendori, pensando all’era post pandemia? L’occasione potrebbero essere, presumibilmente, le prossime amministrative del mese di giugno del 2021, con una svolta eccezionale sulla scelta del nuovo primo cittadino e sulla sua futura giunta.
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Onda su onda
di Lanfranco Binni
Si susseguono, devastanti e a ritmo incalzante, le “ondate” delle quattro grandi crisi connesse con la Covid-19: la crisi sanitaria provocata da una pandemia fuori controllo in gran parte del mondo; la crisi economica che accentua le derive malthusiane del capitalismo in tutte le sue forme, arcaiche e neoliberiste; la crisi politica delle “democrazie” liberali occidentali; la crisi climatica del pianeta. Su ognuno di questi terreni i processi in corso sono tumultuosi, complessi e “caotici”. La pandemia ha accelerato e messo a nudo le vere realtà, concrete e drammatiche, di una storia catastrofica. In questo numero del «Ponte» di fine anno ne scrivono Giuliano e Piergiovanni Pelfer (Il Coronavirus e la fine delle certezze), Emiliano Brancaccio (Catastrofe o rivoluzione), Giancarlo Scarpari (Che ve ne sembra dell’America?). In particolare il testo di Brancaccio sollecita un aperto confronto teorico-politico sulle necessarie e radicali alternative alla “catastrofe” dell’antropocene capitalistico.
Cattive nuove dal fronte dei virus
Sostiene la microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, nella sua rubrica Antivirus su «il Fatto Quotidiano» del 12 novembre, che stanno circolando in Italia e in Europa, “fuori controllo”, almeno sei varianti di SarsCoV2. Il titolo dell’articolo: Virus, la mutazione è più “cattiva”. Ne riporto integralmente il testo.
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Tra reazione e avanguardie. Composizione del rider in Italia
di Andrea Rinaldi
A seguito delle mobilitazioni dei rider in alcune città italiane, Andrea Rinaldi ci offre un'analisi delle componenti che attraversano questo settore lavorativo
Durante una nota trasmissione radio (La Zanzara) che è un po’ un coacervo di rancore via telefono, chiama un uomo che si qualifica come rider, il presentatore se la ride con un po’ di disprezzo classista, il lavoratore (bolognese) si fa subito benvolere con qualche battuta da ‘uomo di strada’ che piace tanto alla produzione, poco dopo cattura sdegno e attenzione ammettendo candidamente che quando non gli viene lasciata la mancia dai clienti dei quartieri alti si riserva il diritto di sputare sui campanelli. Sulla radio di Confindustria non si parla di condizioni lavorative e sfruttamento, dei veri motivi per cui un lavoratore finisce a sfogarsi (anche legittimamente) sui clienti, e il rider in questione è probabilmente estraneo alle mobilitazioni in corso a Torino, Milano, Bologna. Però dal suo gesto, assolutamente non isolato, che ispira benevolenza dallo speaker di destra e orrore allo speaker di sinistra, vengono fuori alcune questioni, che bene o male muovono questo articolo.
Sarebbe inutile rimarcare ulteriormente l’utilità strategica per il sistema economico che hanno i rider in questa pandemia, i rischi che corrono o la paga da fame con cui vengono retribuiti. Difatti si accumulano sui giornali innumerevoli inchieste e articoli sulla subalternità della loro condizione, molti meno ovviamente sulle punte di radicalità e utilità raggiunte dalle loro mobilitazioni.
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Crisi strutturale. La debolezza del lavoro, fra globalizzazione e tecnologia
di Giovanna Cracco
"La moderata crescita dei salari è un segnale del calo del potere contrattuale dei lavoratori."
Banca dei Regolamenti Internazionali, 87- Relazione annuale, giugno 2017
Jackson Hole, 27 agosto: puntuale si tiene il simposio annuale tra le principali banche centrali mondiali. Jerome Powell, presidente della Fed, pronuncia quello che immediatamente gli analisti economici definiscono un "discorso epocale": il 2% non è più il tasso di inflazione annuo sul quale la Banca centrale americana baserà la propria politica monetaria. È un numero che anche l'Europa conosce, perché target di inflazione per la stessa Bce. Che significa? Perché il 2% e perché questo cambio di direzione?
Non ci interessa in questa sede affrontare aspetti finanziari già trattati su queste pagine - quanto la politica monetaria espansiva messa in atto negli ultimi anni dalle banche centrali non abbia portato denaro all'economia reale ma a quella finanziaria, alimentando bolle obbligazionarie e azionarie (1), e dunque come anche questa mossa della Fed finirà per percorrere la stessa strada -: ciò che qui preme analizzare è il significato nascosto di questo cambio di passo, che riguarda la realtà del mondo del lavoro.
La curva di Phillips
Nel 1958, A.W. Phillips elabora un modello, che diviene noto come la "curva di Phillips". Appoggiandosi a dati empirici - serie storiche inglesi dal 1861 al 1957 - l'economista mette in relazione disoccupazione e inflazione e afferma che quando la prima scende, la seconda sale. In altre parole, a un aumento dell'occupazione della forza lavoro corrisponde un aumento dell'inflazione.
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Rispettiamo la scienza, non le imprese private e questi governi
di Francesco Piccioni
Andrea Crisanti è uno scienziato autorevole, riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale. Non ha insomma bisogno della nostra difesa. Anzi, conoscendo il mondo drogato dei media mainstream attuale, la nostra difesa potrebbe nuocergli, invece di aiutarlo.
Per fortuna non facciamo parte del mainstream, quindi le nostre parole qui non avranno eco in quel mondo infetto.
Uno scienziato autorevole, dopo la canea reazionaria e imprenditoriale che gli è arrivata addosso, è stato costretto a prendere carta e penna per chiarire ancora una volta che uno scienziato non può essere “contro i vaccini”, specie se il suo campo di ricerca – la microbiologia – è strettamente connesso alla virologia e dunque allo studio di quel che occorre per creare dei vaccini.
Lo fa benissimo, e potete leggere qui sotto la sua lettera inviata al Corriere della Sera.
Quelli che a noi sembrano centrali sono due concetti abbastanza semplici, comprensibili, e che proprio per questo hanno fatto saltare i nervi ai “fedeli di big pharma” e ai membre del Comitato Tecnico Scientifico.
Obbediamo alla scienza o all’industria privata?
Il primo è di carattere epistemologico, e investe il nodo molto contraddittorio tra scienza e industria, tra scienza e profitto.
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Piketty, la patrimoniale e l’eredità universale
di Jacopo Foggi
Per provare a convincere la maggioranza della popolazione che avrebbe tutto da guadagnare da una valida riattualizzazione dei valori socialisti e delle politiche che ad essi si ispirano, è necessario dedicare studio e attenzione non solo ai principi e ai concetti generali, ma molto, e direi soprattutto, anche alle analisi e alle proposte concrete fatte da studiosi rigorosi e seri. Uno di questi studiosi è senza dubbio Thomas Piketty. Qui ci dedicheremo alla sua proposta di tassazione sul capitale, che confronteremo con altre proposte dei tink tank Forum Disuguaglianze&Diversità e Proposta Neokeynesiana.
Una delle cose peggiori del dibattito italiano sulle imposte sui patrimoni – legata ovviamente al pessimo assetto monetario in cui ci siamo infilati, e all’altrettanto pessima qualità di fette importanti della nostra classe dirigente – è che se ne parla esclusivamente in occasione di più o meno autoimposte emergenze nazionali, con il fine preciso di aumentare la tassazione complessiva e tentare di recuperare la posizione di avanzo primario che, si dice, dovrebbe proteggerci da future crisi del debito (come se dipendessero esclusivamente da questo!). In questo modo, la patrimoniale diviene uno strumento estemporaneo e occasionale di “far pagare un po’ anche ai ricchi” il costo dell’aggiustamento necessario al rientro dalle “vacche grasse”; senza di fatto conseguire alcun obiettivo redistributivo e, quindi, di neutralità fiscale: la patrimoniale serve a ridurre il disavanzo. Punto. È evidente che tale modalità si sta ripresentando in questi giorni di pandemia, quando si sta già discutendo di rientrare dei disavanzi e limitare gli interventi della Bce.
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Marx non era idealista, Marx non era un filosofo
di G. P.
Karl Marx non era idealista, checche’ ne abbiano scritto filosofi purtroppo scomparsi o sedicenti tali, purtroppo esistenti. Questo modo di etichettare Marx, ricercando una filosofia spontanea idealistica nei suoi testi (ed è già strano che dei dialettici siano ricorsi ad un linguaggio althusseriano per rintracciare scampoli filosofici nelle opere, per lo più giovanili, del pensatore tedesco), ha contribuito a generare molta confusione. Si badi bene che coloro i quali, dichiarandosi marxisti, hanno insistito sull’approccio filosofico di Marx al Capitalismo, non hanno mai scoperto nulla di nuovo, ne’ su Marx, ne’ in Marx, invece, costoro si sono ben accodati ad un coro generale dominante antimarxista, il quale per neutralizzare Marx aveva elaborato proprio la strategia di incasellarlo nell’albo dei filosofi per rendergli un cattivo servigio. Ma se il Nostro e’ stato davvero un filosofo allora, in questo albo immaginario, egli occupa una posizione di secondo piano. Marx non ha manifestato un pensiero filosofico organico, un sistema filosofico compiuto, quindi già per questo può essere giustamente retrocesso in basso in questa ipotetica classifica, molto al di sotto dei filosofi minori. E’ questo il modo migliore per rendere giustizia al pensiero rivoluzionario di Marx? Non lo crediamo ed anzi siamo convinti che quelli che hanno così proceduto hanno contribuito, per dirla con parole vecchie, ad innalzare più in alto la bandiera per affossarla meglio. Appunto, chiameremo costoro gli ultimi affossatori di Marx, i più infidi come ogni nemico che marcia alla testa dei suoi nemici.
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Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo)
di Sandro Moiso
Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.
Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.
In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.
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Un grande, devastante confinamento
di Gilbert Achcar*
Come la pandemia di Covid-19 accresce la dipendenza dei paesi poveri nel terzo mondo, un “grande confinamento” devastante
Con la pandemia di Covid-19, il pianeta sta attraversando la sua più grande crisi economica dal periodo tra le due guerre. Esplosione della disoccupazione, insicurezza alimentare, dispersione scolastica…: gli effetti del «grande confinamento» si fanno sentire dappertutto, ma sono ancora più gravi nei paesi poveri, dove il settore informale, per definizione privo di protezione sociale, occupa un posto preponderante.
Così come le conseguenze del cambiamento climatico si fanno sentire a tutte le latitudini, la pandemia di Covid-19 non risparmia nessuno, che si sia ricchi o poveri, capi di Stato o rifugiati. Tuttavia, è risaputo che queste crisi planetarie non colpiscono tutti gli esseri umani allo stesso modo. Oltre a implicare vulnerabilità differenti a seconda dell’età e di vari fattori di rischio, la pandemia, è come il riscaldamento globale, ha un impatto molto diverso sia su scala mondiale che all’interno di ciascun paese, in base alle tradizionali linee di demarcazione tra ricchi e poveri, bianchi e non bianchi, ecc. Certo, il contagio di Donald Trump ha confermato che il virus non ha alcun riguardo per il rango politico, ma le cure eccezionali di cui ha beneficiato il presidente degli Stati uniti, con un costo stimato in oltre 100.000 dollari per tre giorni di ospedalizzazione(1), dimostrano che se gli esseri umani sono tutti uguali di fronte alla malattia e alla morte, alcuni, come ha scritto George Orwell ne La fattoria degli animali, sono «più uguali di altri».
Come al solito, è il terzo mondo a essere colpito più duramente dalla crisi economica in corso, che il Fondo monetario internazionale (Fmi), nel suo rapporto semestrale dell’aprile 2020 (2), ha definito «grande confinamento» – una crisi che già adesso può essere considerata la più grave dai tempi della Grande depressione tra le due guerre.
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Lukács fra arte e vita
di Lelio La Porta
La vita di György Lukács (1885-1971), turbolenta e tempestosa, è stata una di quelle vite che hanno costretto il pensiero a sottomettersi quasi totalmente alle stesse svolte imposte dall’esistenza storica.
Nato da una ricca famiglia ebrea, laureatosi a Budapest nel 1906, Lukács approfondisce gli studi filosofici a Berlino e Heidelberg dove subisce l’influenza del neocriticismo e dello storicismo tedesco e stringe amicizia con Ernst Bloch. La sua prima raccolta di saggi in tedesco (L’anima e le forme) apparve nel 1911 e, in seguito, un libro sull’estetica (non portato a termine) e uno su Dostoevskij (non pubblicato di cui rimangono gli appunti). Fra il 1914 e il 1915 scrive Teoria del romanzo. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale conduce Lukács a quella che sarà la scelta fondamentale della sua vita: l’adesione al marxismo e l’iscrizione al Partito Comunista Ungherese.
Nel 1919, nella breve esperienza della Repubblica ungherese dei Consigli, fu commissario del popolo all’istruzione e commissario politico della quinta divisione. Conclusasi l’esperienza consiliare, dovette fuggire a Vienna. Vive fra Vienna e Berlino e produce, fra gli altri, una serie di saggi che, rielaborata, comparirà in volume nel 1923 con il titolo Storia e coscienza di classe. Nel 1928 le tesi politiche note come Tesi di Blum gli costarono l’accusa di deviazionismo di destra e l’espulsione dal Comitato Centrale del Partito Comunista Ungherese. All’avvento del nazismo al potere in Germania, si trasferisce a Mosca dove rimarrà fino alla fine della Seconda guerra mondiale studiando e ricercando presso l’Istituto Marx-Engels-Lenin. Finita la guerra, Lukács tornò in Ungheria e fu membro del Parlamento, della direzione dell’Accademia delle Scienze, professore di estetica e di filosofia della cultura all’Università di Budapest.
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Circa “Ancora su destra e sinistra” di Andrea Zhok
di Alessandro Visalli
“Un uomo giace da tempo in una specie di pozza di fango, la luce è scarsa e rossa, e filtra tra una densa foresta. Sta lentamente soffocando per effetto di un enorme boa che lo avvolge nelle sue spire, senza fretta e progressivamente. Improvvisamente l'attenzione che questo prestava, inutilmente a dir la verità, al boa viene distratta da un evento.... con la coda dell'occhio intravede una massa di muscoli, tendini ed artigli colorata di giallo e nero che si sta precipitando su di lui. È una tigre. Chi è il nemico? Penso si possa dire una cosa di sicuro: abbiamo un gran problema”.
Proveremo poi a identificare boa e tigre, e magari anche l’uomo e la foresta, ma prima proviamo a parlare dell’oggetto: Andrea Zhok da tempo riflette in modo radicale e coraggioso sulla società nella quale viviamo ed i vicoli ciechi del suo senso comune e della sua ideologia. Lo ha sempre fatto da un punto di vista specifico, che non nasconde come non lo nascondo io. Lo abbiamo (se pure immeritatamente dal mio lato) fatto insieme. Continueremo a farlo.
In effetti tutti stiamo compiendo una dolorosa riflessione, che ognuno articola secondo la propria sensibilità ed esperienze. Facendola insieme gli diamo senso.
In “Ancora su destra e sinistra”[1], che reca come sottotitolo “riflessioni di un post-comunista”, Andrea produce un’ammirevole sintesi e ricostruzione di quella che è stata l’esperienza ed il pensiero di molti in questi anni. Descrive la traiettoria di un percorso di assunzione di consapevolezza e responsabilità capace di allargare lo sguardo e generare nuove prospettive.
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Contro il grande reset
di Moreno Pasquinelli
«Per salute non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualunque condizione; ma una vita per quanto possibile felice». Thomas Hobbes
PREMESSA
L’idea di fondo di chi scrive è questa: il turbocapitalismo neoliberista, anzitutto occidentale, è entrato da tempo in una crisi mortale, tuttavia, come ogni organismo storico-sociale, esso vuole sopravvivere ad ogni costo. Potrà riuscirci solo se sarà in grado di auto- trasformasi. Così è accaduto in ogni grande crisi sistemica, anche quella degli anni ’70 del secolo scorso, che partorì appunto il mostro neoliberista. Malgrado il Covid non sia nemmeno lontanamente paragonabile alla peste che decimò la popolazione europea nel XIV secolo, il XXI potrebbe assomigliare proprio a quello che segnò il passaggio epocale dal Medioevo alla modernità. L’avanguardia politica dei globalisti ne sembra convinta ed ha chiaro in testa dove condurre l’umanità. Essa sa che un simile passaggio non sarà indolore, che dovrà spazzare via resistenze tenaci, che ci saranno profonde turbolenze sociali… cadranno teste, crolleranno regimi, spariranno nazioni, modi di vita saranno sconvolti. Affinché simili “distruzioni creative” possano produrre gli effetti desiderati, chi le pilota ha bisogno di eventi sconvolgenti, tali da scioccare le masse e da convincerle della ineluttabile necessità del mutamento radicale che questa avanguardia politica ha in mente.
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“Geopandemia”: il caos del mondo dopo il coronavirus
Andrea Muratore intervista Salvatore Santangelo
L’Osservatorio Globalizzazione presenta oggi un’ampia conversazione avuta con il professor Salvatore Santangelo sul suo ultimo saggio, “Geopandemia. Decifrare e rappresentare il caos” (edito da Castelvecchi). Santangelo, classe 1976,è giornalista professionista e docente universitario. Esperto di politica internazionale e di storia del Novecento, studia la dimensione mitica nell’attualità occupandosi di “geosofia”, e tra le sue più recenti pubblicazioni si segnalano GeRussia (2016) e Babel (2018). Con lui abbiamo discusso delle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere “Geopandemia”, delle dinamiche innescate dal coronavirus nella politica internazionale e nell’evoluzione della globalizzazione e delle lezioni che la storia e le culture del passato possono dare al presente per superare questa fase di crisi.
* * * *
Professor Santangelo, come ha elaborato il concetto di “Geopandemia” e l’idea che le conseguenze geopolitiche della pandemia inaugurino una nuova fase dell’era globalizzata?
“Geopandemia” è un termine “denso” e questo perché la crisi pandemica ha una sua “densità” che merita di essere esplicitata nelle sue diverse componenti, e nella mia trattazione ho scelto di dare priorità proprio a quella geopolitica: la pandemia si è inserita in un determinato contesto storico, facendo saltare equilibri già precari.
Quali sono le sue principali idee riguardanti la fase storica in cui ci troviamo, influenzata dal Covid-19?
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Ancora su Destra e Sinistra (riflessioni di un post-comunista)
di Andrea Zhok
Le righe che seguono riassumono un percorso recente nella consapevolezza politica, un percorso quasi ‘dialettico’, nel senso hegeliano del termine, un percorso vissuto dallo scrivente e, credo, in modo non troppo diverso da altri soggetti appartenenti alla tradizione post-comunista.
Provo qui a riassumerne i tratti di fondo.
1. Autocoscienza e crisi
Il punto di partenza di questo percorso è stata una lunga, frustrata e reiteratamente delusa militanza nella sinistra politica, in cui per anni, decenni, si è cercato indefessamente di vedere il bicchiere mezzo pieno, di interpretare posizioni sempre più astratte e indifendibili come se fossero errori passeggeri, distorsioni da cui si sarebbe potuto rientrare se solo si fosse insistito abbastanza.
Gli slittamenti gestaltici sono quei passaggi studiati dalla psicologia della percezione in cui d’un tratto, guardando una figura, vi si scopre una figura alternativa che conferisce nuovo senso all’immagine.
Nei confronti della storia della sinistra ad un certo punto per alcuni è avvenuto uno slittamento gestaltico. Dopo l’ennesimo tentativo di imporre i lineamenti della ‘vera’ sinistra a ciò che si configurava sempre di più come un’idra policefala, contraddittoria e irriconoscibile, qualcuno ha scoperto che quei tratti si prestavano ad una lettura completamente diversa. Una volta avvenuto questo slittamento gestaltico, tutto appariva in una luce differente e più chiara.
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