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La Cina pensa che gli Stati Uniti siano al capolinea
di Julian Gewirtz (Foreign Affairs) – Giacomo Marchetti
Il conflitto tra USA e Cina ha assunto la forma di un guerra fredda di nuovo tipo.
Le cose cambieranno poco se, in un ipotetico passaggio di poteri a Washington – che non si annuncia per niente lineare e forse non proprio pacifico –, vincerà Joe Biden.
Certo, lo sfidante democratico vuole ripristinare la leadership nord-americana all’interno di una cornice multilaterale abbandonata durante questi anni dall’attuale inquilino della Casa Bianca, costringendo gli Stati Uniti a trovare una forma di confronto non antagonista su alcuni dossier: dall’Accordo di Parigi sul Clima in cui vuole rientrare all’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui vuole fermare il processo di uscita, oltre a ri-raggiungere l’UNESCO.
Biden è una atlantista convinto ed intende rafforzare il ruolo della NATO, così come la cooperazione con la UE che saranno probabilmente gli assi della propria politica di pressione sulla Cina.
Biden ha affermato di voler ricongiungersi all’Accordo sul Nucleare sull’Iran ed in generale “rivedere e potenzialmente riformulare l’intero approccio ai Paesi del Golfo”, come ha dichiarato un consulente dell’amministrazione Obama al «Financial Times».
Dalla sua prima visita all’estero da Presidente in Arabia Saudita e Israele nel maggio del 2017, Donald Trump ha consolidato sempre un legame più stretto con la petrol-monarchia araba e con l’entità sionista: dall’uscita dall’accordo sul nucleare firmato da Obama nel 2015 alla spinta per la “normalizzazione” dei rapporti con Israele da parte di alcuni Stati Arabi (EAU, Barhain e probabilmente Sudan), per non parlare della vendita di ingenti quantitativi di armi usati nella guerra in Yemen.
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L’unità dei comunisti può poggiare su un’unica base: quella del marxismo-leninismo
di Eros Barone
«Prima di unirsi, e per unirsi, è
necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e
nettamente» (Lenin).
Abbiamo assistito alla fine di una fase iniziata, almeno in Italia, con il collaborazionismo delle sinistre sedicenti “radicali” (Prc e Pdci) rispetto alla borghesia e la loro progressiva delegittimazione rispetto al proletariato: epoca che si è conclusa con la loro scomparsa dal parlamento. La bancarotta politica, ideologica e morale delle formazioni opportuniste, non meno che la costituzione del Pd, partito della borghesia imperialista, avrebbero dovuto indurre ad una seria riflessione coloro che avevano sopravvalutato il grado di permeabilità di tali formazioni rispetto a posizioni autenticamente comuniste, ossia marxiste-leniniste, e che non si rendono ancora conto che una fase della storia del movimento di classe, legata alla nozione otto-novecentesca di ‘sinistra’, si è definitivamente chiusa.
Ciò è reso ancor più evidente dalla presenza, dentro la ‘sinistra’, di una cultura anticomunista e pro-imperialista sempre più diffusa, che ostacola fortemente lo sviluppo di un metodo e di una teoria capaci di superare il movimentismo e la pura protesta: quel movimentismo e quella protesta che sono, per dirla con Mao Ze Dong, come i palloni che, quando piove, si afflosciano. Quella che il Partito Comunista ha intrapreso è dunque una ‘lunga marcia’ verso i lavoratori, verso le fabbriche, verso gli uffici, verso le periferie, verso le scuole e le università: i tanti luoghi nei quali nessuno sa più quali siano le grandi ragioni di un partito comunista fondato sul socialismo scientifico.
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André Gorz, “Addio al lavoro”
di Alessandro Visalli
Nel 2000 il filosofo francese André Gorz risponde all’intervista di Margund Zetzamann, spiegando[1] le ragioni per le quali nel suo “Miseria del presente, ricchezza del possibile”[2] invitava a liberarsi dell’obbligo del lavoro. Gorz, che si toglierà la vita di lì a sette anni, sul lavoro aveva a lungo riflettuto cercando costantemente la via per l’autorealizzazione del singolo dentro gli angusti spazi della gabbia d’acciaio della moderna società industriale e capitalista (ma anche socialista reale). Già nel 1967, scriveva che in entrambe le società “l’individuo, in quanto produttore e in quanto cittadino, è spodestato di ogni potere reale (che non può essere altro che potere collettivo) sulle decisioni e sulle condizioni produttive che modellano la sua vita di lavoro e la sua vita fuori del lavoro. Subendo la società più che crearla consapevolmente, essendo incapace di identificarsi con la sua realtà sociale, l’individuo tende a ripiegare nella sfera privata come la sola sfera in cui egli è sovrano” [3]. Ma questo “spodestamento”, continuava, avviene in quanto lavoratore. Egli, “privato di iniziativa, di responsabilità e di valorizzazione sociale nel suo lavoro, tende a cercare una compensazione nel non-lavoro”. Tema, questo, sul quale è larghissima la riflessione e lo resterà a lungo.
Da queste formulazioni durante gli anni ottanta passerà alla proposta di riconoscere i limiti propri alla razionalizzazione e fermare la mercatizzazione sulla soglia di quel che è socialmente sostenibile. In altre parole, di fermare l’integrazione funzionale sulla soglia dell’integrazione sociale e puntare sulla “riduzione metodica, programmata, massiccia della durata del lavoro (senza ridurre il reddito)”[4]. A questo stadio la proposta pratica, su cui a lungo insisterà, è di stabilire l’erogazione di un reddito di secondo livello che integri un tempo di lavoro effettivo calante e socialmente prestato.
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Respirare il mondo: la rivolta di Donatella
di Marcello Tarì
Che la rivolta sia qualcosa che riunisce in sé esigenze economiche, politiche e soprattutto esistenziali e perciò sia un evento che ha dignità di essere pensato dalla filosofia non è un fatto scontato. È scontato che se ne occupino, per questioni strettamente disciplinari, la storia o la sociologia, ma della rivolta in quanto tale, con tutto il suo portato di urla, di fiamme e di ebbrezza, è davvero raro che filosofi e filosofe se ne occupino, specie alla nostra latitudine. Questo “occuparsene”, ponendola al centro e non ai margini della riflessione filosofica, è di per sé una delle qualità principali del nuovo saggio di Donatella Di Cesare che esce in questi giorni per Bollati Boringhieri, Il tempo della rivolta. È un piccolo libro ma così denso da impedire l’impresa di parlare in un breve articolo di tutto quello che vi è contenuto, bisogna leggerlo e con attenzione insomma.
Negli ultimi anni il tema della rivolta si è fatto sempre maggiore spazio nella cronaca dando vita a molti e inconcludenti dibattiti sui media, ma soprattutto ad alcuni importanti testi fra i quali ricorderei, per la loro incisività, senz’altro L’insurrezione che viene e i seguenti libri dei Comitato Invisibile, editi in Italia lo scorso anno da Nero, e il saggio di Joshua Clover, Riot Strike Riot. The New Era of Uprisings (Verso, 2016), purtroppo mai tradotto in italiano. Se il primo testo del Comitato, apparso nel lontano 2007, si può dire seminale e percorso da una tensione che non si può che definire profetica, quello del marxista Clover interveniva al culmine del ciclo di rivolte che hanno scosso il mondo lo scorso decennio, cioè le rivolte arabe, quelle delle piazze in Europa e di Occupy negli USA.
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Meme col fucile. Un’antropologia del collasso
di Jack Orlando
Una recensione a «Kill All Normies» di Angela Nagle
«Che cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario come me e una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia?», chiede il Joker di Todd Philipps, prima di dare da sé la risposta: «Ottieni il cazzo che ti meriti».
Se ne è fatto un gran parlare di quel film. Di quel personaggio che più che da un fumetto è sembrato uscire dallo specchio del bagno di casa. Delle possibili letture, immancabilmente cieche, di destra o di sinistra del suo agire torbido, sconclusionato eppure familiare.
Familiare perché incarnava l’emarginazione strutturale e la sofferenza psichica che scivolano verso la violenza, il bravo bambino che diventa lupo mannaro. Un loop visto ripetersi a coazione fuori e dentro gli schermi. Perché è evidente a chiunque che la civiltà capitalistica moderna non faccia altro che incedere producendo scarti umani, affastellandoli gli uni sugli altri come le macerie ai piedi dell’Angelo della Storia. E dove vanno quegli scarti, quando non entrano in carcere, in comunità, in obitorio o in psicanalisi?
Si ritirano nell’ombra, si leccano le ferite e covano odio e rancore per una vergogna a cui è difficile trovare un responsabile. L’emarginazione comporta ontologicamente un ripiegamento su se stessi come la natura umana comporta la ricerca del proprio simile. Ed ecco sorgere comunità di esclusi e falliti che mangiano dallo stesso piatto amaro e parlano la stessa lingua sgradevole dando le spalle al resto del mondo, autocompiaciuti e vicendevolmente esaltati.
E in un mondo dove il social network è diventato parte integrante della socialità, assumendone a volte l’unica forma, dove altro potevano ritrovarsi questi soggetti? Rassicurati dall’anonimato, confortati da una dimensione comunitaria che non necessita di rapporti umani, felici della assoluta libertà di parola che queste idrovore di parole garantiscono.
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Tech Worker, lavoro tecnologico e identità. Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto
di Simone Robutti
Questo articolo presenterà un’analisi utile a comprendere la nuova ondata di organizzazioni, scioperi e proteste che attraversa il settore dell’Information Technology(IT), in particolare in USA e Nord Europa, scritta dal punto di vista di un Tech Worker. La speranza è quella di dare trasparenza a questi fenomeni e permettere di comprenderne più a fondo le peculiarità, le similarità con strutture e processi passati e presenti ma anche le profonde differenze sia sul piano della prassi che sul piano dell’identità
Nota: in questo articolo si utilizzerà il termine “Tech Worker” per identificare esclusivamente figure tecniche o creative impegnate nello sviluppo di software, hardware e artefatti tecnologici in genere. Questo uso del termine differisce da quello, ad esempio, di Tech Workers Coalition che definisce Tech Worker chiunque sia coinvolto nel processo di produzione di una tecnologia. Questa scelta è fatta per meglio mapparsi sulla nascente identità del Tech Worker, che sebbene venga forzosamente allargata a figure molto diverse tra loro per scopi strategici, ad oggi ha trazione principalmente tra figure tecniche. Questa non è una critica all’obiettivo di creare solidarietà tra diverse categorie di lavoratori ma esclusivamente una semplificazione fatta per dare chiarezza alle idee qui esposte. Alcune mansioni associabili a questa definizione di Tech Worker sono: grafici, programmatrici, designer, sistemisti, architetti del software, tester, quality assurance, copywriter.
Il Capitale Digitale è un colosso dai piedi d’argilla. La testa d’oro, la parte più visibile, è quella di Mark Zuckerberg, Sundar Pichai o di Jeff Bezos che iniziano a trattare con gli Stati-Nazione da pari. Ormai insidiati nelle strutture produttive, logistiche e burocratiche di ogni paese, hanno reso dipendenti non solo i consumatori ormai inseparabili dai loro schermi (incluso il sottoscritto) ma anche tutti i tessuti sociali di cui fanno parte. Una rimozione repentina di Google Search, Google Cloud Platform o Amazon Web Services avrebbe un impatto traumatico su tanti settori industriali, al punto che l’Unione Europea insegue il sogno di un Cloud indipendente e di servizi web liberi dalla giurisdizione americana non solo come stimolo al settore digitale del vecchio continente ma anche e sopratutto come strumento di indipendenza tecnologica.
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Homo pandemicus
Ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.
di Fabio Vighi*
L’attuale emergenza sanitaria dovrebbe suggerirci una riflessione sul potere dell’ideologia in un’epoca troppo frettolosamente definita post-ideologica. La caduta del muro di Berlino, ça va sans dire, non ci ha liberati dalle ideologie. Piuttosto, il sentirci affrancati da pressioni ideologiche ci rende vulnerabili a un non-pensiero unico tarato sull’anonima brutalità del calcolo economico. Con la globalizzazione e l’emancipazione dalle Grandi Narrazioni ci siamo consegnati a forme sempre più subdole di manipolazione che intercettano la dimensione viscerale del nostro essere. La dissoluzione dei vecchi legami simbolici ci ha proiettato nella dittatura piatta e invisibile dell’economia, contrabbandata come libertà. Questa pretestuosa libertà si risolve, essenzialmente, nell’obbligo di produrre e consumare valore (merce).
Resistere alla potenza di fuoco dell’ideologia capitalista è sempre più arduo. La nostra info-sfera centrifuga dati, annunci e comunicati a velocità supersonica. Questi segni ci soverchiano, demolendo le nostre capacità critiche e condannandoci a uno stato di ipnosi semi-permanente. Se a volte troviamo la forza di resistere a questa sopraffazione, ci ritroviamo però ridotti all’impotenza quando si tratta di immaginare nuove configurazioni sociali in grado di garantirci uno spazio di autonomia rispetto ai rapporti socio-economici che ci definiscono. Da qui la percezione di un tempo storico insieme irreversibile e inesauribile, per cui l’intera esperienza umana ripiega in un flusso destinale dove ogni evento è posto e insieme presupposto dalla metafisica del capitale.
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Covid, lo sconforto prima del grande Reset
di Piotr
Uccidere il paziente per uccidere il virus è una soluzione? Uccidere una società per salvarla da una pandemia è la soluzione? Il Covid ci pone di fronte a una gravissima crisi sistemica
Che sconforto.
Da tempo mi domandavo se non sia un po' stupido un governo che spende i soldi in bonus per biciclette e monopattini ma non potenzia i trasporti pubblici. Davvero pensava che le cose fossero equivalenti per la mobilità?
E così ci troviamo nella demenziale situazione di studenti distanziati in aula e accalcati sui mezzi pubblici. I treni regionali possono imbarcare il 100% dei posti. In quelli per pendolari, come i lombardi di Trenord, addirittura si invitano i passeggeri a non mettere oggetti sui sedili perché devono essere tutti occupati, con anche un bel po' di posti in piedi. Gli autobus possono riempirsi per l'80%, cifra già alta e poi chi controlla?
E così finisce che a scuola non ci si infetta in modo significativo, ma andando a scuola sì. E dunque oggi si ritorna all'odiosa, inutile e desocializzante didattica a distanza, senza che la scuola ne abbia colpa.
Ci si infetta sui mezzi di trasporto, sul lavoro, a casa e negli ospedali. Cosa è stato fatto per prevenirlo? Ad esempio cosa si è fatto per non dover ricoverare per motivi sociali positivi paucisintomatici (persone sole, o al contrario che vivono in case sovraffollate, quelle che convivono con anziani, ecc.)? Bonaccini afferma di aver individuato 1.000 posti letto in strutture alberghiere per questi ricoveri di carattere sociale che non richiedono cure mediche, così da non gravare sugli ospedali. Questo in Emilia Romagna. E nelle altre regioni?
E allora, via con altri palliativi, la chiusura dei teatri, delle palestre e dei cinema, già semideserti e tutti dotati di estrattori d'aria (poveretti, una spesa per nulla e una chiusura per niente; questi i dati dell'AGIS per il periodo di riapertura 15 giugno-10 ottobre: spettacoli 2.782, spettatori 347.262, contagiati 1!), i ristoranti che non possono più servire la cena (il pranzo sì, la cena no: perché?), la proibizione di accompagnare a casa la fidanzata di notte, la raccomandazione (che tra poco mi sa tanto diverrà un obbligo) di non muoversi nemmeno coi propri mezzi (e se uno vuole farsi una gita in campagna, in montagna o in un bosco? Che senso hanno queste raccomandazioni quando già ci sono meticolosi divieti per evitare ogni tipo di assembramento?).
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Ragionando sulla domanda effettiva
di Bollettino Culturale
Il principio della domanda effettiva in Kalecki
Dalla critica di Marx alla legge di Say e accettando gli aspetti strettamente economici della teoria del valore e della distribuzione classica, Kalecki cerca di sviluppare una nuova teoria del prodotto e dell'accumulazione. Proporre lo sviluppo degli schemi di riproduzione presentati da Marx e un modo per spiegare le crisi come fenomeni che possono avere effetti a lungo termine a livello normale del prodotto.
La proposta di Kalecki è quindi la seguente: basato su una teoria del valore e della distribuzione basata sulla nozione classica di surplus, il meccanismo che descrive la relazione tra risparmio e investimento e fornisce le basi per una teoria del prodotto si basa sul principio della domanda effettiva.
La formulazione kaleckiana del principio della domanda effettiva prende come punto di partenza l'idea che non vi sia alcuna garanzia che la domanda aggregata possa essere sufficiente ad assorbire il prodotto generato dal normale utilizzo dello stock di capitale esistente. Una delle componenti della domanda aggregata, l'investimento, sarà la determinante del livello di risparmio nel sistema. Kalecki esclude da questa analisi la possibilità che si verifichino squilibri in un settore isolato dell'economia a causa di sproporzioni tra i settori produttivi, poiché la sua idea è di lavorare con un'analisi a lungo termine.
Utilizzando il principio della domanda effettiva per colmare il divario tra una teoria del valore e della distribuzione e una teoria del prodotto, possiamo vedere due percorsi teorici: uno basato su una critica alla teoria della scuola marginalista, ma utilizzando la sua teoria del valore, che è stato utilizzato da Keynes.
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Pechino. Riunione del Comitato Centrale: la Cina si guarda dentro
di Michelangelo Cocco*
Sulla quinta sessione plenaria (plenum) del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese, che si svolgerà a Pechino dal 26 al 29 ottobre, saranno puntati gli sguardi dei potenti del mondo, interessati a capire come la seconda economia del pianeta intenda reagire all’uno-due della guerra commerciale-tecnologica scatenata dalla Amministrazione Trump e della pandemia di coronavirus.
Dopo che il IV plenum (28-31 ottobre 2019) aveva decretato la linea dura contro i ribelli di Hong Kong, questa volta i 204 membri permanenti e i 172 supplenti del CC si concentreranno sulla discussione del XIV Piano quinquennale (2021-2025), che sarà formalmente approvato in primavera dall’Assemblea nazionale del popolo.
Nuova era cinese e opportunità nella crisi
L’economia si riprende dunque il centro della scena. Non poteva essere altrimenti in una fase segnata dal secondo shock globale del capitalismo in poco più di dieci anni. Come già in occasione della crisi finanziaria scoppiata nel 2007, il Pcc proverà a sfruttare la pandemia per rafforzare la sua legittimità a governare come partito unico, ma per riuscirci dovrà compiere decisivi passi avanti riguardo a problemi economici e sociali fondamentali, tuttora irrisolti.
Il 30 luglio scorso (nella riunione dell’Ufficio politico che ha convocato il quinto plenum), nonostante il crollo del prodotto interno lordo (-6,8% nel primo trimestre, +3,2% nel secondo), Xi Jinping e compagni avevano dichiarato centrato il primo dei due obiettivi dei centenari, ovvero la creazione di “una società moderatamente prospera in ogni ambito”, con un Pil pro capite di 10 mila dollari (raddoppiato rispetto al 2010) – in anticipo rispetto all’anniversario della fondazione del Partito, che il 23 luglio prossimo compierà 100 anni.
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Quella luce in fondo al tunnel
PSN e tds a tasso negativo versus mes e RF
di Francesco Cappello
Scegliere tra le possibilità offerte, da una parte dal piano di salvezza nazionale PSN, a cui si affiancano oggi i titoli di stato a tasso negativo (1), e dall’altra da MES e Recovery Fund RF (Next Generation EU), non dovrebbe risultare difficile. Tutt’altro.
Statonote (una delle sei proposte del PSN)
Se aveste la possibilità di stamparvi la moneta che vi serve per concretare i vostri sogni/progetti senza incorrere in alcun effetto collaterale, di sicuro preferireste procurarvi così i soldi che vi servono piuttosto che farveli prestare, anzi, non avreste dubbi in proposito per il semplice motivo che in questo secondo caso sapete bene che i soldi ricevuti in prestito prima o poi dovreste restituirli, per di più maggiorati dagli interessi.
Ebbene, a trovarsi nella situazione precedentemente descritta è niente di meno che lo Stato di cui siamo parte. Lo Stato può immettere nel circuito economico, per tutte le esigenze di spesa del Paese, moneta di stato, legale entro i confini del territorio nazionale, o statonote come preferisce chiamarle Antonino Galloni, presidente del Comitato Nazionale Statonote (CNS), per distinguerle dalle banconote che hanno diversa origine. La prima è moneta non a debito a cui non siamo nuovi per averne già sperimentato l’uso sin dal 1966 (governo Aldo Moro con la consulenza di F. Caffè). La quantità di statonote o biglietti di stato da mettere in circolazione è relativa al fabbisogno dello Stato ossia quella necessaria a mobilitare quei fattori produttivi inespressi a cominciare dalla forza lavoro non più in grado di generare ricchezza perché sprecata nella immobilizzazione propria dello stato di disoccupazione, sottoccupazione inoccupazione ecc.
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Contro “l’unita’ dei comunisti”
di Norberto Natali
Uno stimolante contributo di Norberto Natali che ci auguriamo possa aprire un dibattito a sinistra e fra i comunisti
“Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono sconfitti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, sfacelo, tradimento, pornografia invece di politica. Si accentua la tendenza all’idealismo filosofico; si rafforza il misticismo come copertura dello spirito controrivoluzionario”.
(Lenin “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” - 1920)
Ero un giovanissimo operaio “borgataro”, senza titoli di studio eppure mi risultava semplice leggere Lenin. Perciò lo facevo con avidità: con poche e semplici parole riusciva a farmi comprendere numerose e complicate questioni. Aveva un linguaggio asciutto, incalzante, trascinante nella sua lucidità logica, tanto da dare l’impressione che sapevi sempre cosa fare.
Le aspre ed inedite difficoltà (minimizzo) dei nostri tempi, in Italia, riportano prepotentemente alla mia memoria quelle vecchie letture. Mi viene da pensare che Lenin -parlando di noi, ora- direbbe più o meno: “la questione essenziale è chiara e inconfondibile. Chi ha a cuore la causa del partito comunista -ossia la causa del proletariato, del rilancio vittorioso della lotta di classe, della salvaguardia della pace e della natura, del socialismo- deve necessariamente (prima di tutto) trovare il modo di attingere le proprie forze tra vaste masse proletarie (in particolare giovani) le quali, al momento, non hanno alcun interesse per la lotta politica e ancor meno simpatia per i comunisti”.
Per lo meno ciò è quello che penso e sarò grato a chi mi aiuterà a capire -eventualmente- se sbaglio.
Nel frattempo, questa mi sembra la premessa migliore per affrontare tre problemi concreti.
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Crisi della globalizzazione e attualità delle teorie della dipendenza
di Carlo Formenti
Secondo Fukuyama, il marxismo sarebbe morto assai prima del 1989, in assenza della miseria del mondo sottosviluppato, fenomeno che ha consentito alla scuola dei teorici della dipendenza di prolungarne la vita, sia pure al prezzo di alcuni “tradimenti” nei confronti della versione “canonica” che i fondatori avevano consacrato fra fine Ottocento e primo Novecento. Il libro di Alessandro Visalli, Dipendenza, da poco approdato in libreria per i tipi dell’editore Meltemi, esordisce citando questa opinione dell’autore della Fine della storia. Sappiamo che poi la storia non è affatto finita, e che il filosofo nippoamericano è stato altrettanto imprudente nel recitare il de profundis per il marxismo, cui la crisi del sistema liberal liberista sta oggi concedendo più di una rivincita, ma questo non è l’unico, né il più significativo, argomento della corposa (400 pagine abbondanti) e documentatissima ricerca che Visalli ha condotto sulla scuola della teoria della dipendenza.
Parliamo di una scuola che rappresenta una delle più affascinanti avventure del pensiero critico dell’ultimo mezzo secolo, un pensiero che, pur con i diversi accenti e sfumature che ognuno dei suoi vari esponenti vi ha incorporato, si è evoluto nei decenni senza mai rinunciare al filo rosso di una tesi di fondo comune: il sottosviluppo non è il prodotto di una carenza di capitali e tecnologie, né di insufficienti livelli di modernizzazione, bensì delle forme specifiche che il modo di produzione capitalistico ha assunto in determinati Paesi, e della loro collocazione nel sistema internazionale. Per argomentare questo punto di vista, Visalli ha scritto un libro difficilmente inquadrabile in un'unica categoria disciplinare, visto che può essere definito come un saggio di storia delle idee e delle teorie economiche, ma effettua frequenti incursioni in campi come la geopolitica, l’antropologia e la politologia.
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“Sistema americano”, fascismo e guerra civile
di Sandro Moiso
Andrew Spannaus, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro, con una Prefazione di Giulio Sapelli, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 190, 15,00 euro
“Per troppo tempo il nostro governo ha abbandonato il Sistema americano” (Donald Trump, 20 marzo 2017)
Andrew Spannaus, giornalista e saggista statunitense che da diversi anni vive in Italia, si è già distinto in passato per un’attenta e precisa disamina anticipata dei motivi che avrebbero portato Trump alla vittoria nella corsa alle presidenziali del 2016 (qui) e delle ragioni del diffondersi del neo-populismo tra gli elettori in Occidente (qui). Ancora una volta, nel testo appena pubblicato da Mimesis nella collana «Il caffè dei filosofi», le sue considerazioni e i dati che egli porta a loro sostegno si rivelano sicuramente interessanti, anche se non sempre pienamente condivisibili da parte di tutti i lettori.
Quello che è certo è che, nell’attuale turbillon mediatico riguardante le elezioni presidenziali americane di quest’anno e le conseguenze socio-economiche della pandemia da Coronavirus, il libro del giornalista americano si pone tra i più utili. Almeno per stimolare un dibattito troppo spesso asfittico, scontato e accecato dalle ideologie e dal politically correct. Un dibattito che, per essere considerato tale, dovrebbe avvertire la presenza di più voci e non soltanto quella della vulgata dominante ovvero delle Sinistre liberal e delle Destre più scontate.
Tre sono i punti principali che il saggio tocca: il primo è quello dello scontro istituzionale (più o meno velato) che si è svolto tra Donald Trump e il deep state rappresentato dalle agenzia per la sicurezza e i funzionari dell’amministrazione fin dagli esordi della sua presidenza. Tema cui si ricollega direttamente il suo tentativo, scarsamente riuscito, di modificare alcune delle linee guida seguite dai governi precedenti in tema di politica estera.
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L'inquietante fiuto dei pazzi
di Commonware
Il complottismo è il sintomo della fine di un’epoca, della perdita di senso, della percezione che il domani non sarà migliore di oggi, che la promessa del progresso è andata a farsi fottere
«È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
K. Marx, Miseria della filosofia
«Conquistare può solo colui che conosce la sua preda meglio di quanto questa conosca se stessa».
C. Schmitt, Ex captivitate salus
«Sono bei tempi quelli in cui si distrugge».
M. Tronti, La politica al tramonto
Per amor di chiarezza, tagliamo il discorso con l’accetta. In questa fase vediamo due tipologie di mobilitazioni politiche che, su scala internazionale, stanno raccogliendo una composizione che travalica l’esausto ceto politico delle sinistre e delle destre, movimentiste o meno: da una parte le mobilitazioni che vengono rubricate – in modo spesso riduttivo e talora addirittura fuorviante – sotto l’etichetta della identity politics, ovvero antirazziste (esemplificate ma secondo noi niente affatto contenute dal logo Black Lives Matter), ecologiste (Fridays for future), femministe (Non una di meno), dall’altra quelle che, sintetizzando, sono state definite – con un’accezione perlopiù negativa – complottiste, ovvero mobilitazioni contro la cosiddetta «dittatura sanitaria», vaccini, tecnologia 5G e più in generale contro i sordidi progetti dell’«élite globalista», visibile o occulta che sia. Se le prime, a queste latitudini (e, precisiamo, con significative differenze ad altre latitudini), sono le mobilitazioni che attraggono l’attenzione di una sinistra che si vuole illuminata, le seconde sono espressione di quella che si può chiamare deep society. Entrambe le tipologie, crediamo, sono in buona misura sintomo e manifestazione, per quanto superficiale e in modo tutt’altro che univoco, oltre che nei loro non infrequenti intrecci o scontri, di un processo ben più profondo e strutturale: la crisi dei ceti medi. Dentro questo fenomeno, ormai ben più di una semplice tendenza, occorre porsi strategicamente.
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Perché una nuova Bretton Woods non basterà a superare la crisi economica post Covid
di Enrico Grazzini
La crisi del coronavirus colpisce duro, ma non basta: incombe già una nuova terribile crisi finanziaria globale. Le soluzioni per uscire dalla crisi economica sono, almeno sulla carta, abbastanza semplici: forte sostegno pubblico al welfare e all'economia; cancellazione e/o ristrutturazione delle montagne di debito privato e pubblico; finanziamenti pubblici per le imprese e per sostenere i redditi famigliari; monetizzazione dei debiti pubblici da parte delle banche centrali; riduzione generalizzata dell'orario di lavoro per abolire la disoccupazione dilagante. Queste le misure che i governi del G20[1] riuniti in una nuova Bretton Woods dovrebbero prendere urgentemente per superare la crisi portata dalla diffusione, per ora ancora incontrollabile, del coronavirus. Ma la politica internazionale è ferma e paralizzata dai nazionalismi – prima di tutto quello di Donald Trump -. Per quanto riguarda l'eurozona il Next Generation Plan quasi certamente si rivelerà insufficiente: “troppo poco e troppo tardi”. Allora il governo italiano, senza aspettarsi “aiuti” da nessuno, potrebbe (e dovrebbe) emettere subito dei titoli-moneta complementari all'euro per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, finanziare la ripresa e un'Italia verde e sostenibile.
Il mondo post-covid sarà molto più povero, pieno di debiti e di disoccupati
Il mondo post Covid sarà molto più brutto di quello precedente: molte aziende falliranno, molte banche avranno grandi buchi di bilancio, la disoccupazione salirà alle stelle, la povertà colpirà (e colpisce) milioni di persone anche nel ricco mondo occidentale e le diseguaglianze aumenteranno a dismisura, tra le nazioni e dentro le nazioni.
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Analisi di una crisi che cambierà il quadro imperialistico mondiale
di Lorenzo Procopio
Altro che Covid-19, questa crisi epocale è stata determinata dalle contraddizioni operanti nel modo di produzione capitalistico. E’ il capitale il vero ed unico virus che occorre combattere ed il vaccino lo si trova nella lotta di classe per il comunismo
Una lettura superficiale della crisi che si è aperta nei primi mesi del 2020 nell’ambito del sistema capitalistico su scala mondiale, porta molti osservatori, anche in quella variegata area che si richiama al marxismo rivoluzionario, ad interpretarla come la conseguenza dello scoppio della pandemia che ha colpito il pianeta a causa della diffusione del Covid-19. Come se per il capitalismo globalizzato, prima della diffusione del coronavirus, le cose andassero bene, e soltanto in seguito alla diffusione della pandemia si sarebbero inceppati, in maniera così grave e devastante, i processi d’accumulazione su scala mondiale.
Non saremo certamente noi a negare l’esasperazione della crisi in conseguenza della diffusione del coronavirus nell’ambito dell’economia capitalistica, saremmo sciocchi e miopi nel voler negare una tale evidenza, ma ci sembra metodologicamente importante e politicamente necessario ricollocare nelle contraddizioni del modo di produzione capitalistico le ragioni ultime di tale epocale crisi. La pandemia ha soltanto accelerato ed ingigantito gli effetti dell’attuale crisi economica, ma già prima della diffusione del coronavirus erano evidenti, per chi sapeva cogliere a filo di materialismo storico le contraddittorie dinamiche operanti nei processi d’accumulazione, i segnali che il capitalismo stava marciando diritto verso una nuova e pesantissima recessione globale. Questa crisi non è stata quindi innescata dal coronavirus, ma dalle contraddizioni nel modo di produzione capitalistico che trovano nelle difficoltà di remunerare la massa ingente di capitale fittizio prodotto in questi ultimi decenni una delle più moderne manifestazioni.
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Ancora sull’ipotesi di decoupling Cina-Usa
di Vincenzo Comito
Ultimamente si parla di un forte ridimensionamento dei processi di globalizzazione. In relazione ai livelli di inquinamento allo sviluppo dell’automazione, al Covid alle politiche di Trump. Ma è molto più probabile che si verifichi un ridimensionamento e un mutamento delle sue caratteristiche
Un quadro per lo meno articolato
Il 3 ottobre 2020 abbiamo pubblicato su questo stesso sito un articolo (L’economia cinese dopo il Covid 19) che cercava di fare il punto su alcune questioni economiche rilevanti che toccano la Cina in questo momento. Tra i temi affrontati nel testo c’era quello del supposto decoupling in atto tra la Cina e gli Stati Uniti e più in generale tra la Cina ed i Paesi occidentali, argomento di cui, tra l’altro, sono pieni in questo periodo i media.
Con queste note proviamo a tornare sull’argomento, dal momento anche che il nostro interesse viene mantenuto vivo da una serie di notizie che nelle ultime settimane vengono riportate dalla stampa internazionale.
Alcune di esse mostrano un quadro molto articolato e non certamente in bianco e nero sul tema, come si poteva invece supporre. Altre mettono invece in rilievo delle tendenze che sembrano andare controcorrente rispetto all’ipotesi del decoupling e che anzi mostrano apparentemente un nuovo interesse delle imprese Usa e più in generale di quelle dei paesi avanzati per la Cina.
Delle situazioni molto diverse
Per quanto riguarda la prima questione, ad esempio un articolo apparso di recente sul Financial Times (Hille, 2020) sottolinea come le imprese estere che hanno una presenza produttiva nel Paese al fine di collocare i propri prodotti nello stesso, come ad esempio per il settore dell’auto è il caso dei produttori tedeschi, Usa, coreani e giapponesi, non abbiano nessuna intenzione di lasciare il Paese. Il discorso si fa diverso in parte, ma solo in parte, per quelle imprese che avevano scelto di produrre in Cina per rifornire da tale punto i mercati esteri.
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Il Recovery Fund non salverà l’Italia dall’austerità
di Francesco Saverio Luciani
La tragicità della situazione lavorativa italiana appariva già nel 2013, quando l’Ikea di Pisa metteva 200 nuovi posti di lavoro sul mercato. Al bando si sarebbero presentati in 28000. Tutti giovani disoccupati. Tutte vite future senza speranza. Un triste scorcio su quello che sarebbe stato il futuro del paese dove, ancor prima della scoppio dell’attuale crisi, il tasso di disoccupazione giovanile risultava pari al 28% con picchi oltre il 50% nel sud. Se, in aggiunta ai disoccupati ufficiali, vengono presi in considerazione anche i sottoccupati e gli scoraggiati, allora il tasso di disoccupazione effettivo superava già il 20%, mentre il numero di italiani in povertà assoluta è passato dai 2 milioni del 2008 ai 5 di oggi. E tali numeri ancora non tengono conto della crisi dovuta al coronavirus, i cui effetti non stati ancora del tutto stimati.
Eppure tutto ciò non è il frutto di eventi eccezionali, bensì la manifestazione di una profonda crisi strutturale, le cui origini vanno ricercate almeno a partire dall’inizio degli anni ’90. «Lost in deflation»: è con tale titolo che, poco più di un anno fa, l’economista olandese Servaas Storm dipingeva il quadro dell’economia italiana. «Persa nella deflazione»: con tale monito il professore della Delft University of Technology descriveva l’esito, inevitabile, del modello economico sperimentato dal Bel Paese a partire dall’inizio degli anni ’90.
Come tenta di dimostrare l’economista olandese, l’impoverimento e la perdita di ricchezza che hanno riguardato l’intera popolazione italiana mostrano una drastica svolta a partire dal 1992. Di fatti, fino all’inizio degli anni ’90, l’Italia aveva goduto decenni di una robusta crescita economica, durante i quali era riuscita a toccare il PIL pro capite delle altre principali nazioni della futura zona euro, Francia e Germania comprese, e la cui ricchezza era oltremodo testimoniata dal maggior risparmio privato al mondo, stabilmente sopra il 20% del reddito medio delle famiglie italiane.
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Contagio, immaginario, conflitto
di Guy Van Stratten
L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, a cura di Jack Orlando e Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma, 2020, pp. 141, € 13,00
Può essere sicuramente interessante riprendere in mano adesso, in un momento in cui si sta profilando una seconda ondata del virus nonché drastici provvedimenti del governo per contenerla, L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, a cura di Jack Orlando e Sandro Moiso, uscito lo scorso giugno per le edizioni “Il Galeone”, un volumetto che contiene diversi interventi di autori e redattori della webzine Carmilla online. La maggior parte dei saggi sono stati scritti a caldo durante il periodo dell’emergenza della scorsa primavera e sono stati pubblicati sulla rivista online. Gli interventi hanno seguito “l’unica regola” possibile per non lasciarsi soverchiare dai fantasmi della paura e della confusione: “abitare la catastrofe per coglierne il campo delle possibilità”, come scrivono Sandro Moiso e Jack Orlando nel testo che apre il volume. Una catastrofe nata e cresciuta in seno al modo di produzione capitalistico, un sistema che, oltre a presentare numerose falle, infligge dovunque lancinanti ferite: “Questo libro vuole offrire una prima risposta agli interrogativi aperti dall’epidemia ed essere uno strumento di battaglia politica per non soccombere al futuro che questo modo di produzione ci sta preparando”. Adesso, rispetto alla scorsa primavera, stiamo già vivendo il futuro: un futuro disastroso, in cui questo sistema è già pronto a infliggerci ferite che non smetteranno di sanguinare.
La necessità di opporsi a questo sistema, a partire dalla conoscenza, viene fortemente ribadita nel primo, già citato, saggio: “Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico.
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C’è vita su Marx? Cronache MarXZiane n. 1
di Giorgio Gattei
Per il diritto d’autore: devo il titolo di questa prima parte delle “Cronache marxziane” a Riccardo Bellofiore che l’ha posto (perchè ispirato dalla canzone di David Bowie “Life on Mars”?) in testa alla sua introduzione a Marx inattuale (Edizioni Efesto, Roma, 2019). Ma quel titolo è finito lì, che lo svolgimento successivo è stato di tutt’altro tenore, mentre io l’ho preso sul serio e quindi….
1. Come il pianeta Nettuno nel Sistema solare, anche il pianeta Marx è stato individuato nella Costellazione dell’Economia inizialmente solo per via speculativa a seguito di una discrepanza, inspiegabile nella traiettoria del valore rispetto ad ogni altro corpo economico già conosciuto, che lasciava intendere che in quello spazio di cielo dovesse esserci presenza di qualcosa di anomalo, anche se al momento non individuabile. E’ stata questa la grande intuizione dell’astronomo britannico Adam Smith, peraltro autore di una Storia dell’astronomia pubblicata postuma in cui teorizzava che «un sistema di pensiero è una macchina immaginativa inventata per collegare nell’immaginazione i vari movimenti ed effetti che nella realtà già si compiono». Per questo nella Ricchezza delle stelle (1776) egli aveva mostrato come ci fosse nel cielo un luogo economico in cui il valore delle merci misurato come “lavoro contenuto” (V = L) non coincideva più con la misura in “lavoro comandato” (o Salario: V = Lw), come invece avrebbe dovuto essere, essendo questo dovuto al semplice fatto che il salario unitario w pagato per ogni ora di lavoro L doveva risultare minore di 1, così che Lw < L. Ciò lo giustificava perché, mentre nello “stadio naturale” dell’economia (ossia dovunque) «tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore,.. non appena il capitale si è accumulato nelle mani di persone singole, alcune di loro naturalmente lo impiegheranno nel mettere al lavoro uomini operosi», a cui pagheranno un salario tale per cui «il valore che gli operai aggiungono ai materiali si dividerà in due parti, di cui una paga il loro salario e l’altra i profitti di chi li impiega». Ed era una anomalia inaspettata nell’ordine dei sistemi economici, con l’effetto che «nel prezzo delle merci i profitti costituiscono una componente del tutto diversa dai salari del lavoro e regolata da principi del tutto diversi». Sì, ma quali?
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Il prometeismo rosso da Weishaupt a Stalin
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Capitolo 10 tratto dal libro Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?
Dopo Campanella, Adam Weishaupt (1748-1830) diede nuovo vigore sul piano teorico al titanismo di matrice cooperativa.
Attorno al 1776 il giovane Weishaupt, infatti, formò, nello stato clericale della Baviera la setta segreta degli “Illuminati di Baviera”; al pari delle organizzazioni massoniche, essa aveva una rigida gerarchia interna mediante la creazione di diversi livelli di adesione, sotto la guida indiscussa di Weishaupt, ma a differenza di quasi tutte le altre associazioni laiche e anticlericali di quel periodo il suo principale promotore espresse inequivocabili tendenze allo stesso tempo prometeiche e comuniste, formando la matrice per una dinamica di sviluppo degli Illuminati che rimase invariata per quasi un decennio, prima della stretta repressiva contro l’organizzazione avviata nel 1787 da parte degli apparati di repressione bavarese.
Il creativo Weishaupt, che non a caso all’interno dell’organizzazione aveva preso l’eroica denominazione glorioso di Spartacus, manifestò chiaramente ai seguaci più stretti le due finalità principali degli Illuminati.
Se all’inizio il leader si limitò solo ad avviare un’azione capillare di diffusione delle opere e libri dell’illuminismo, visto che la Baviera proibiva gran parte di tali scritti, in realtà il pensiero panteista di Adam Weishaupt era molto più profondo e sosteneva che “ogni uomo capace di trovare in se stesso la Luce interiore… diventa uguale a Gesù, ossia Uomo-Re…”. Infatti l’insegnamento segreto che veniva impartito agli adepti asseriva che “… tutte le religioni si fondano sull’impostura e le chimere, che tutte finiscono per rendere l’uomo debole, strisciante e superstizioso, che tutto, nel mondo, è materia e che Dio e il mondo non sono che un’unica cosa”.
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Guy Debord lettore di Hegel. La nottola di Minerva che scruta lo spettacolo
di Afshin Kaveh
A prescindere dai concetti e dalle categorie hegeliane in sé, la figura di Hegel è citata più volte nelle tesi di La società dello spettacolo tanto che sorprende che, ancora oggi, non si riesca a cogliere l’influenza esercitata su Debord da Hegel
Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata;
e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere;
la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
In una lettera del 10 aprile 1969 alla sezione italiana dell’Internazionale Situazionista[1], indirizzata in particolar modo alla figura di Paolo Salvadori, Guy Debord elencava una serie di correzioni da apportare al lavoro di traduzione italiana de La société du spectacle. In un particolare passaggio in conclusione della missiva, Debord, riferendosi al §123 del proprio libro, indicava come erroneo – fraintendendo così la traduzione – il passaggio «que les ouvriers deviennent dialecticiens» e che Salvadori, giustamente, riportava come: «che gli operai diventino dialettici». Secondo Debord si trattava invece «di dire che essi diventino dialecticiens (non dialectiques)» e, per far meglio comprendere la differenza sostanziale tra le due forme, scriveva che «per esempio: la Storia è dialectique; Hegel è un dialecticien»[2]. Compresa la correttezza della traduzione Debord, in una risposta a Salvadori allegata a una lettera per Gianfranco Sanguinetti del 16 aprile 1969, concludeva, scrivendolo direttamente in italiano, con: «ho capito che sono un dialettico!». La lettera in questione è interessante anche per un post scriptum in cui Debord informava Salvadori di aver ritrovato e riletto alcuni suoi appunti che aveva preso direttamente dalla lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’edizione francese di Aubier-Montaigne (le stesse curate da Jean Hyppolite, uno dei più rinomati conoscitori e promotori di Hegel nella Francia dell’epoca e di cui Debord non solo leggerà gli scritti, ma ne seguirà persino qualche lezione, da non iscritto, al Collège de France, prendendo diverse pagine di appunti), ed è proprio quest’opera a emergere in più occasioni nel confronto epistolare per la traduzione del proprio libro.
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USA, la crisi dell’economia a debito e l’indebolimento del dollaro
di Domenico Moro
La pandemia ha messo a nudo e accentuato le fragilità delle basi economiche su cui si regge l’imperialismo americano, aumentando le basi materiali del conflitto che lo oppone alla Cina.
Recentemente, il presidente della Banca centrale Usa (Fed), Jerome Powell, ha dichiarato che lo stimolo monetario non basta, ci vuole un maxi stimolo fiscale.
In sostanza, non basta che la Fed tenga il costo del denaro a tassi d’interesse bassissimi e che inondi l’economia di liquidità, c’è bisogno che lo Stato aumenti le sue spese per sostenere l’economia in crisi, senza preoccuparsi di creare alti livelli di debito e deficit.
Powell si è espresso sulla falsariga di quanto affermato da Draghi, in riferimento alla Ue, e dal Fondo monetario internazionale (Fmi), secondo il quale una riduzione prematura della spesa pubblica dei governi può essere rischiosa per l’economia mondiale. Per la verità, gli Usa avevano già stanziato, per contrastare la crisi, una cifra ben superiore ai fondi stanziati dalla Ue, pari a 2.200 miliardi di dollari, con il Cares Act, che però è ora esaurito. Infatti, l’intervento di Powell si inserisce nel dibattito congressuale sull’entità del nuovo provvedimento di spesa, che vede i democratici proporre un nuovo stimolo di 2.200 miliardi, a cui i repubblicani hanno opposto una controproposta di 1.600 miliardi, che Trump ha a sua volta proposto di innalzare a 1.800 miliardi.
Gli Usa, però, devono fare i conti con una situazione del debito piuttosto grave, che può frenare la ripresa. Il debito pubblico è passato dal 108,7% del 2019 al 131% sul Pil previsto dall’Fmi per il 2020, mentre il deficit balzerà dal 6,3% al 18,7% sul Pil[1].
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Stati Uniti oggi: breve ragguaglio sulla conflittualità di classe
di Bruno Cartosio
La storia dell’ultimo mezzo secolo è «la storia della fuoruscita del capitale dalla regolamentazione sociale entro cui era stato costretto dopo il 1945». Prendo a prestito le parole di Wolfgang Streeck – e dietro le parole buona parte dell’analisi contenuta nel suo Tempo guadagnato – per racchiudere in una frase un ragionamento che ho sviluppato altrove (in Dollari e no) e che non è possibile riproporre qui se non nella forma sintetica del giudizio storico-politico. La rottura del «contratto sociale», o «patto newdealista», imperniato sul riconoscimento reciproco tra grande capitale e organizzazione operaia, tutelato dallo Stato, è stata la precondizione per la reazione neoliberista che negli Stati Uniti ha avuto in Ronald Reagan il suo eroe eponimo. Da allora l’arco temporale della Terza rivoluzione industriale ha largamente coinciso con quello del neoliberismo hayek-friedmaniano, che ha cambiato la fisionomia delle élite capitalistiche, alterato in profondità la composizione sociale del mondo del lavoro e riportato indietro l’orologio del comando padronale sui lavoratori. Poi, gli eventi che tra il 2008 e oggi hanno sollevato ogni velo residuo sulla crisi epocale in atto. Infine, Trump e ora il Covid-19, e nel dramma della pandemia la sollevazione innescata dalla risposta afroamericana al razzismo intrinseco agli omicidi polizieschi. La grande, socialmente composita sollevazione si è rarefatta – le rubano spazio le ansie preelettorali, cui si è aggiunto il contagio di Trump – ma non si è spenta. Né si sono interrotti gli scatti di conflittualità che la «nuova» classe operaia, anch’essa composita e spesso precaria, ha aperto in questi ultimi anni lontano dalle fabbriche. Sul mondo del lavoro e su questa conflittualità sarà focalizzata qui l’attenzione. (Alla politica del razzismo e alla sollevazione degli ultimi mesi Officina Primo Maggio ha dedicato nel giugno scorso l’opuscolo Uprising/Sollevazione. Voci dagli USA).
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